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Cassazione Lavoro: lavoro subordinato vs. autonomo, va valutato caso per caso e va considerata anche la volontà delle parti

In tema di distinzione tra lavoro autonomo e lavoratore subordinato, si inserisce questa recente sentenza della Corte di Cassazione, in cui i giudici di legittimità hanno stabilito che il discrimen è da individuarsi nella presenza di un potere di direzione, controllo e vigilanza del datore di lavoro sull’operato del lavoratore e solo in presenza di tale vincolo (che deve essere effettivamente provato in giudizio) si può qualificare un determinato rapporto di lavoro come subordinato, anche se le parti lo avevano in precedenza qualificato come autonomo.

Nel caso di specie, una società di ingegneria era convenuta in giudizio da parte di un suo precedente collaboratore, il quale aveva svolto presso la convenuta le mansioni di capo del settore ingegneria civile, denunciando di essere stato illegittimamente estromesso dal lavoro. Chiedeva all’autorità giudiziaria di dichiarare illegittimo il licenziamento irrogatogli e, conseguentemente, di ottenere la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno subito (retribuzione non percepita), e la corresponsione delle mensilità aggiuntive e del trattamento di fine rapporto.

In primo grado il ricorso era rigettato, ma successivamente accolto in appello, con la pronuncia della Corte territoriale che condannava la società alla reintegra e al risarcimento del danno.

L’azienda ha proposto ricorso in Cassazione avverso tale sentenza, deducendo il vizio di motivazione in ordine alla assenza di indicazione sugli elementi che legittimino la definizione del rapporto di lavoro come subordinato.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato è la “subordinazione”, da considerarsi come il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. Tale vincolo deve essere effettivo e specificamente provato in giudizio.

La Corte d’appello non aveva attribuito alcun rilievo alla volontà negoziale delle parti, ritenendo rilevanti esclusivamente i cosiddetti criteri sussidiari della subordinazione,quali un compenso fisso, l’osservanza di un orario, la presenza del lavoratore nel piano ferie, o la continuità per un determinato periodo di tempo della prestazione lavorativa.

A parere dei giudici di legittimità, la Corte territoriale si era limitata a svolgere generiche considerazioni sulla summa divisio tra lavoro subordinato e autonomo, senza alcun effettivo riferimento al caso di specie, ritenendo senza una effettiva e specifica motivazione che la posizione del lavoratore fosse compatibile con un rapporto di lavoro subordinato.

La Cassazione ha accolto il ricorso e rinviato gli atti alla Corte d’appello per una nuova pronuncia.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 24 ottobre 2014, n. 22690)

In tema di distinzione tra lavoro autonomo e lavoratore subordinato, si inserisce questa recente sentenza della Corte di Cassazione, in cui i giudici di legittimità hanno stabilito che il discrimen è da individuarsi nella presenza di un potere di direzione, controllo e vigilanza del datore di lavoro sull’operato del lavoratore e solo in presenza di tale vincolo (che deve essere effettivamente provato in giudizio) si può qualificare un determinato rapporto di lavoro come subordinato, anche se le parti lo avevano in precedenza qualificato come autonomo.

Nel caso di specie, una società di ingegneria era convenuta in giudizio da parte di un suo precedente collaboratore, il quale aveva svolto presso la convenuta le mansioni di capo del settore ingegneria civile, denunciando di essere stato illegittimamente estromesso dal lavoro. Chiedeva all’autorità giudiziaria di dichiarare illegittimo il licenziamento irrogatogli e, conseguentemente, di ottenere la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno subito (retribuzione non percepita), e la corresponsione delle mensilità aggiuntive e del trattamento di fine rapporto.

In primo grado il ricorso era rigettato, ma successivamente accolto in appello, con la pronuncia della Corte territoriale che condannava la società alla reintegra e al risarcimento del danno.

L’azienda ha proposto ricorso in Cassazione avverso tale sentenza, deducendo il vizio di motivazione in ordine alla assenza di indicazione sugli elementi che legittimino la definizione del rapporto di lavoro come subordinato.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato è la “subordinazione”, da considerarsi come il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. Tale vincolo deve essere effettivo e specificamente provato in giudizio.

La Corte d’appello non aveva attribuito alcun rilievo alla volontà negoziale delle parti, ritenendo rilevanti esclusivamente i cosiddetti criteri sussidiari della subordinazione,quali un compenso fisso, l’osservanza di un orario, la presenza del lavoratore nel piano ferie, o la continuità per un determinato periodo di tempo della prestazione lavorativa.

A parere dei giudici di legittimità, la Corte territoriale si era limitata a svolgere generiche considerazioni sulla summa divisio tra lavoro subordinato e autonomo, senza alcun effettivo riferimento al caso di specie, ritenendo senza una effettiva e specifica motivazione che la posizione del lavoratore fosse compatibile con un rapporto di lavoro subordinato.

La Cassazione ha accolto il ricorso e rinviato gli atti alla Corte d’appello per una nuova pronuncia.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 24 ottobre 2014, n. 22690)