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231 - Cassazione Penale: l’ente risponde per non aver adottato misure di controllo idonee

Con la sentenza in esame la Cassazione ha statuito che un ente può essere responsabile del reato di aggiotaggio a prescindere dall’individuazione del materiale responsabile di tale reato.

Sintetizzando il lungo iter processuale, nel caso di specie il Tribunale di Milano, giudice di prime cure, assolveva sia il Relationship manager dell’ente sia l’ente stesso dal reato di aggiotaggio. Tale reato appariva essere stato commesso attraverso l’alterazione di documentazione finanziaria e la stesura di un comunicato stampa, al fine di rendere i titoli dell’ente appetibili sul mercato, mentre l’ente si trovava in una situazione di tracollo finanziario che l’aveva spinto ad usufruire di un massiccio finanziamento, poi falsamente etichettato come “associazione in partecipazione”.

La Corte d’Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi, riteneva il Relationship manager non colpevole per non aver commesso il fatto. Ciò nonostante, affermava comunque l’autonoma responsabilità dell’ente. Quest’ultimo non avrebbe infatti adottato misure di controllo idonee ad evitare il configurarsi di simili reati per mano dei propri collaboratori, secondo la disciplina del Decreto Legislativo 231/2001.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso in Corte di Cassazione l’ente.

La Cassazione ha giudicato infondato il ricorso innanzitutto giudicando “priva di qualsivoglia fondamento la doglianza secondo cui il mutamento della persona fisica effettivamente responsabile del reato avrebbe inciso sul perimetro dell’illecito contestato all’ente, menomando la facoltà di questo di difendersi «con riferimento allo specifico punto di rottura della rete precauzionale protettiva dell’altrettanto specifico reato presupposto contestato»”. Secondo la Cassazione, infatti, “dal connesso già si potevano pianamente trarre i riferimenti all’esistenza di una previa attività di dolosa concertazione della comunicazione decettiva riportata nel comunicato stampa”.

Sul piano più generale, la Cassazione ha ritenuto di potersi configurare in capo all’ente una responsabilità organizzativa, dovuta al non aver adottato le “cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati” e al non aver individuato un “modello che individuasse i rischi e delineasse le misure atte a contrastarli”. La Cassazione ha sottolineato, inoltre, che era specifico obiettivo del legislatore quello di sancire la responsabilità amministrativa dell’ente per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, anche quando la persona fisica che li aveva commessi non era identificabile. 

Vale la pena di riportare i passaggi salienti della pronuncia che si riferiscono alla responsabilità dell’ente: “appare, inoltre, opportuno ribadire che l’illecito addebitabile all’ente ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente o preposto, ovvero di quella delineata dall’articolo 197 Codice Penale. L’ente è punito per il fatto proprio, e a radicare la personalità della sua responsabilità, sta la necessità di poter muovere (come sottolinea la Dottrina, ai fini dell’articolo 27 Costituzione) «(direttamente) all’ente un rimprovero fondato sul fatto che il reato possa considerarsi espressione di una politica aziendale deviante o comunque frutto di una colpa d’organizzazione»”.

E ancora: “la responsabilità dell’ente si fonda, dunque, su una colpa connotata in senso normativo in ragione dell’obbligo imposto a tali organismi di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un “modello” che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non aver ottemperato a tale obbligo”.

Infine: “La circostanza che siffatta colpa venga ad emersione, e assuma rilievo ai fini della imputazione dell’illecito che riguarda l’ente, solo per effetto della commissione di uno specifico fatto reato che deve corrispondere per titolo a quelli espressamente compresi nel catalogo dei reati presupposto dal Decreto Legislativo n. 231, non ne mina la natura “personale”, e perciò autonoma, riferibile a un deficit organizzativo che attiene alla mancata adozione di un modello precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono”.

Ribadita pertanto la responsabilità dell’ente, la Corte rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Penale, Sentenza 2 settembre 2015, n. 35818)

Con la sentenza in esame la Cassazione ha statuito che un ente può essere responsabile del reato di aggiotaggio a prescindere dall’individuazione del materiale responsabile di tale reato.

Sintetizzando il lungo iter processuale, nel caso di specie il Tribunale di Milano, giudice di prime cure, assolveva sia il Relationship manager dell’ente sia l’ente stesso dal reato di aggiotaggio. Tale reato appariva essere stato commesso attraverso l’alterazione di documentazione finanziaria e la stesura di un comunicato stampa, al fine di rendere i titoli dell’ente appetibili sul mercato, mentre l’ente si trovava in una situazione di tracollo finanziario che l’aveva spinto ad usufruire di un massiccio finanziamento, poi falsamente etichettato come “associazione in partecipazione”.

La Corte d’Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi, riteneva il Relationship manager non colpevole per non aver commesso il fatto. Ciò nonostante, affermava comunque l’autonoma responsabilità dell’ente. Quest’ultimo non avrebbe infatti adottato misure di controllo idonee ad evitare il configurarsi di simili reati per mano dei propri collaboratori, secondo la disciplina del Decreto Legislativo 231/2001.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso in Corte di Cassazione l’ente.

La Cassazione ha giudicato infondato il ricorso innanzitutto giudicando “priva di qualsivoglia fondamento la doglianza secondo cui il mutamento della persona fisica effettivamente responsabile del reato avrebbe inciso sul perimetro dell’illecito contestato all’ente, menomando la facoltà di questo di difendersi «con riferimento allo specifico punto di rottura della rete precauzionale protettiva dell’altrettanto specifico reato presupposto contestato»”. Secondo la Cassazione, infatti, “dal connesso già si potevano pianamente trarre i riferimenti all’esistenza di una previa attività di dolosa concertazione della comunicazione decettiva riportata nel comunicato stampa”.

Sul piano più generale, la Cassazione ha ritenuto di potersi configurare in capo all’ente una responsabilità organizzativa, dovuta al non aver adottato le “cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati” e al non aver individuato un “modello che individuasse i rischi e delineasse le misure atte a contrastarli”. La Cassazione ha sottolineato, inoltre, che era specifico obiettivo del legislatore quello di sancire la responsabilità amministrativa dell’ente per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, anche quando la persona fisica che li aveva commessi non era identificabile. 

Vale la pena di riportare i passaggi salienti della pronuncia che si riferiscono alla responsabilità dell’ente: “appare, inoltre, opportuno ribadire che l’illecito addebitabile all’ente ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente o preposto, ovvero di quella delineata dall’articolo 197 Codice Penale. L’ente è punito per il fatto proprio, e a radicare la personalità della sua responsabilità, sta la necessità di poter muovere (come sottolinea la Dottrina, ai fini dell’articolo 27 Costituzione) «(direttamente) all’ente un rimprovero fondato sul fatto che il reato possa considerarsi espressione di una politica aziendale deviante o comunque frutto di una colpa d’organizzazione»”.

E ancora: “la responsabilità dell’ente si fonda, dunque, su una colpa connotata in senso normativo in ragione dell’obbligo imposto a tali organismi di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un “modello” che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non aver ottemperato a tale obbligo”.

Infine: “La circostanza che siffatta colpa venga ad emersione, e assuma rilievo ai fini della imputazione dell’illecito che riguarda l’ente, solo per effetto della commissione di uno specifico fatto reato che deve corrispondere per titolo a quelli espressamente compresi nel catalogo dei reati presupposto dal Decreto Legislativo n. 231, non ne mina la natura “personale”, e perciò autonoma, riferibile a un deficit organizzativo che attiene alla mancata adozione di un modello precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono”.

Ribadita pertanto la responsabilità dell’ente, la Corte rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Penale, Sentenza 2 settembre 2015, n. 35818)