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Cassazione Penale: ancora sulla diffamazione in TV e sulla cronaca giornalistica

Con Sentenza del 28 gennaio 2015, la quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione si è espressa in merito al ricorso per diffamazione presentato da soggetti imputati di omicidio e pedofilia e sulle condizioni indispensabili per il bilanciato esercizio del diritto di cronaca giornalistica attraverso il mezzo televisivo.

A seguito dell’assoluzione in primo grado dei presentatori televisivi accusati di aver offeso l’onore e la reputazione dei resistenti utilizzando le espressioni ‘assassini’ e ‘bastardi’, il secondo grado di giudizio aveva invece ritenuto sussistente il valore diffamatorio di tali esternazioni. Condannati dunque per aver oltrepassato il limite di continenza del diritto di critica nell’esprimersi in maniera tale da avallare il sospetto di una certezza giudiziaria, piuttosto che evidenziare la presenza di un’ipotesi accusatoria ancora tutta da verificare nella sua fondatezza, i ricorrenti impugnavano la sentenza.

Ai supporto delle proprie ragioni, i ricorrenti rilevavano che “in materia di diffamazione, il requisito della continenza deve intendersi non travalicato ogniqualvolta il contenuto ed il tenore delle affermazioni lesive siano proporzionate all’oggettiva gravità dei fatti storici rappresentati e all’interesse sociale agli stessi”. Nel caso di specie tuttavia, la Corte territoriale si era limitata a valutare il carattere ingiurioso delle espressioni utilizzate nel corso del programma condotto dai ricorrenti, senza però tenere in sufficiente considerazione il loro valore di cronaca giornalistica incentrata sulla “categoria” cui si riteneva - allora - che gli indagati dell’omicidio potessero essere ascritti’ in virtù della sola ordinanza di custodia cautelare emessa nei loro confronti. Secondo i medesimi si trattava di esercizio di un diritto di cronaca dunque lecito e coerente con i canoni del nostro ordinamento, benché implacabile nella sua vigorosa critica accusatoria.

Tenuto conto del contesto e della gravità dei fatti oggetto di commento da parte degli imputati, la Suprema Corte ha inizialmente analizzato le condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di cronaca, in particolare: verità, interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e continenza espressiva. Alla luce di tali principi, è sembrata dunque corretta la censura della Corte territoriale “circa il mancato rispetto da parte degli imputati del limite della continenza [...]” che secondo la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte “è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. In aggiunta, ha sottolineato la Corte, “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagine e atti censori provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura indipendentemente dai risultati di tale attività”.

Pertanto, ai fini del rispetto dei parametri di cui sopra, la Corte ha ribadito che la cronaca giudiziaria, specialmente se legata a vicende torbide e controverse come quella del caso in esame, non può prestarsi ad aprioristici sbilanciamenti o indebite anticipazioni di colpevolezza in chiave colpevolista. Nonostante l’opinione dei ricorrenti espressa nel corso del programma televisivo fosse certamente lecita, non avrebbe però dovuto essere espressa in termini inquisitori siffatti, ricalcando un teorema accusatorio sulla responsabilità penale degli indagati ancora da verificare dalle autorità. In riferimento ai termini dispregiativi utilizzati, la Corte ha inoltre censurato il loro utilizzo diretto a colpire la dimensione morale del destinatario “essendo vietato in ogni caso l’uso di espressioni che getino grave discredito rispetto alle persone fatte oggetto di provvedimenti custodiali”.

Respingendo dunque il ricorso e confermando la ricostruzione del giudice di secondo grado, la Suprema Corte ha dunque riaffermato come l’esercizio del diritto di cronaca giornalistica, anche televisiva, non possa rendere una ricostruzione colpevolista della vicenda giudiziaria dell’indagato colpito da misura cautelare coercitiva. In particolare, dando adito a derive speculative di evidente natura diffamatoria, senza rendere conto anche dello stato di avanzamento complessivo delle indagini preliminari e dell’eventuale successivo procedimento penale.

(Corte di Cassazione - Quinta Sezione Penale, Sentenza 28 gennaio 2015, n. 4158)

Con Sentenza del 28 gennaio 2015, la quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione si è espressa in merito al ricorso per diffamazione presentato da soggetti imputati di omicidio e pedofilia e sulle condizioni indispensabili per il bilanciato esercizio del diritto di cronaca giornalistica attraverso il mezzo televisivo.

A seguito dell’assoluzione in primo grado dei presentatori televisivi accusati di aver offeso l’onore e la reputazione dei resistenti utilizzando le espressioni ‘assassini’ e ‘bastardi’, il secondo grado di giudizio aveva invece ritenuto sussistente il valore diffamatorio di tali esternazioni. Condannati dunque per aver oltrepassato il limite di continenza del diritto di critica nell’esprimersi in maniera tale da avallare il sospetto di una certezza giudiziaria, piuttosto che evidenziare la presenza di un’ipotesi accusatoria ancora tutta da verificare nella sua fondatezza, i ricorrenti impugnavano la sentenza.

Ai supporto delle proprie ragioni, i ricorrenti rilevavano che “in materia di diffamazione, il requisito della continenza deve intendersi non travalicato ogniqualvolta il contenuto ed il tenore delle affermazioni lesive siano proporzionate all’oggettiva gravità dei fatti storici rappresentati e all’interesse sociale agli stessi”. Nel caso di specie tuttavia, la Corte territoriale si era limitata a valutare il carattere ingiurioso delle espressioni utilizzate nel corso del programma condotto dai ricorrenti, senza però tenere in sufficiente considerazione il loro valore di cronaca giornalistica incentrata sulla “categoria” cui si riteneva - allora - che gli indagati dell’omicidio potessero essere ascritti’ in virtù della sola ordinanza di custodia cautelare emessa nei loro confronti. Secondo i medesimi si trattava di esercizio di un diritto di cronaca dunque lecito e coerente con i canoni del nostro ordinamento, benché implacabile nella sua vigorosa critica accusatoria.

Tenuto conto del contesto e della gravità dei fatti oggetto di commento da parte degli imputati, la Suprema Corte ha inizialmente analizzato le condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di cronaca, in particolare: verità, interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e continenza espressiva. Alla luce di tali principi, è sembrata dunque corretta la censura della Corte territoriale “circa il mancato rispetto da parte degli imputati del limite della continenza [...]” che secondo la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte “è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. In aggiunta, ha sottolineato la Corte, “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagine e atti censori provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura indipendentemente dai risultati di tale attività”.

Pertanto, ai fini del rispetto dei parametri di cui sopra, la Corte ha ribadito che la cronaca giudiziaria, specialmente se legata a vicende torbide e controverse come quella del caso in esame, non può prestarsi ad aprioristici sbilanciamenti o indebite anticipazioni di colpevolezza in chiave colpevolista. Nonostante l’opinione dei ricorrenti espressa nel corso del programma televisivo fosse certamente lecita, non avrebbe però dovuto essere espressa in termini inquisitori siffatti, ricalcando un teorema accusatorio sulla responsabilità penale degli indagati ancora da verificare dalle autorità. In riferimento ai termini dispregiativi utilizzati, la Corte ha inoltre censurato il loro utilizzo diretto a colpire la dimensione morale del destinatario “essendo vietato in ogni caso l’uso di espressioni che getino grave discredito rispetto alle persone fatte oggetto di provvedimenti custodiali”.

Respingendo dunque il ricorso e confermando la ricostruzione del giudice di secondo grado, la Suprema Corte ha dunque riaffermato come l’esercizio del diritto di cronaca giornalistica, anche televisiva, non possa rendere una ricostruzione colpevolista della vicenda giudiziaria dell’indagato colpito da misura cautelare coercitiva. In particolare, dando adito a derive speculative di evidente natura diffamatoria, senza rendere conto anche dello stato di avanzamento complessivo delle indagini preliminari e dell’eventuale successivo procedimento penale.

(Corte di Cassazione - Quinta Sezione Penale, Sentenza 28 gennaio 2015, n. 4158)