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Assenteismo - Cassazione Penale: lecite le videoriprese anche senza l’obbligo del badge per cogliere sul fatto l’assenteista fraudolento

Vita dura per i furbetti del cartellino.

Secondo la Cassazione, il dipendente che si allontana dal lavoro in modo “fraudolento” rischia una condanna per truffa anche se le direttive aziendali non prevedono un vero e proprio obbligo di timbrare il badge.

A stabilirlo è la sentenza n. 33567 del 1 agosto 2016, relativa al caso di due uscieri dipendenti del Comune de La Maddalena indagati per truffa aggravata e continuata consistita nell’essersi allontanati dal luogo di lavoro timbrando il cartellino segnatempo in orari di entrata e di uscita diversi da quelli effettivi: nei loro confronti, il gip del Tribunale di Tempio Pausania aveva disposto il sequestro preventivo di somme di circa 500 euro finalizzato alla confisca per equivalente fino alla concorrenza del danno accertato. Confermata tale misura in sede di riesame, la vicenda è approdata al vaglio della Suprema Corte, ma il  ricorso è stato rigettato.

Ed invero, rigettando le doglianze sollevate dai due dipendenti, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che «in tema di allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro, l’eventuale insussistenza per i lavoratori di un vero e proprio obbligo di vidimare il cartellino o la tessera magnetica delle presenze giornaliere, non esclude che, qualora tale vidimazione sia comunque effettivamente compiuta, ma con modalità fraudolente tali da indurre in inganno il datore di lavoro, ricorrano gli estremi degli artifizi e raggiri che integrano il delitto di truffa»

In altri termini, integra gli estremi degli “artifici” e i “raggiri” del delitto di truffa il comportamento del dipendente che – con o senza l’obbligo del badge – si allontana fraudolentemente dal posto di lavoro, con modalità tali da trarre in inganno la parte datoriale e provocargli dei danni economicamente apprezzabili per via della mancata presenza nel presidio lavorativo.

Ed invero - si legge nella sentenza della seconda sezione penale - «non è la doverosità della vidimazione a rendere quest’ultima, se falsificata, idonea a trarre in inganno il datore di lavoro; al contrario anche una vidimazione meramente facoltativa di un registro cartaceo o elettronico delle presenze in ufficio può ingenerare l’inganno di far risultare una presenza falsamente attestata. Ove la vidimazione dell’ingresso e dell’uscita sia meramente facoltativa il lavoratore può non ottemperare all’adempimento ma, qualora vi ottemperi, la falsa indicazione dell’orario di entrata o di uscita configura quindi un artifizio o un raggiro».

Nella sentenza, inoltre, si torna ad affrontare il tema delle «apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l’attività dei lavoratori», ribadendo il principio - più volte sancito dalla giurisprudenza di legittimità - in forza del quale le «garanzie procedurali» previste dall’articolo 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori «si applicano ai controlli c.d. “difensivi”, ossia diretti ad accertare l’inesatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando riguardano la tutela di beni estranei al rapporto stesso».

Sfugge, pertanto, al giudizio di illiceità l’utilizzo processuale di videoriprese finalizzato all’accertamento di fatti posti in essere dal lavoratore che costituiscono reato.

Sulla scorta di queste premesse, la Corte di Cassazione ha sancito il seguente principio di diritto: «le garanzie procedurali previste dall’articolo 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione quando si procede all’accertamento di fatti che costituiscono reato. Tali garanzie - aggiunge la Cassazione - riguardano solo l’utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell’attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l’interesse pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la persona offesa nel datore di lavoro».

Dall’applicazione dei summenzionati principi alla fattispecie in esame è scaturito, dunque, il rigetto del ricorso con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, Sentenza 1 agosto 2016, n. 33567)

Vita dura per i furbetti del cartellino.

Secondo la Cassazione, il dipendente che si allontana dal lavoro in modo “fraudolento” rischia una condanna per truffa anche se le direttive aziendali non prevedono un vero e proprio obbligo di timbrare il badge.

A stabilirlo è la sentenza n. 33567 del 1 agosto 2016, relativa al caso di due uscieri dipendenti del Comune de La Maddalena indagati per truffa aggravata e continuata consistita nell’essersi allontanati dal luogo di lavoro timbrando il cartellino segnatempo in orari di entrata e di uscita diversi da quelli effettivi: nei loro confronti, il gip del Tribunale di Tempio Pausania aveva disposto il sequestro preventivo di somme di circa 500 euro finalizzato alla confisca per equivalente fino alla concorrenza del danno accertato. Confermata tale misura in sede di riesame, la vicenda è approdata al vaglio della Suprema Corte, ma il  ricorso è stato rigettato.

Ed invero, rigettando le doglianze sollevate dai due dipendenti, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che «in tema di allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro, l’eventuale insussistenza per i lavoratori di un vero e proprio obbligo di vidimare il cartellino o la tessera magnetica delle presenze giornaliere, non esclude che, qualora tale vidimazione sia comunque effettivamente compiuta, ma con modalità fraudolente tali da indurre in inganno il datore di lavoro, ricorrano gli estremi degli artifizi e raggiri che integrano il delitto di truffa»

In altri termini, integra gli estremi degli “artifici” e i “raggiri” del delitto di truffa il comportamento del dipendente che – con o senza l’obbligo del badge – si allontana fraudolentemente dal posto di lavoro, con modalità tali da trarre in inganno la parte datoriale e provocargli dei danni economicamente apprezzabili per via della mancata presenza nel presidio lavorativo.

Ed invero - si legge nella sentenza della seconda sezione penale - «non è la doverosità della vidimazione a rendere quest’ultima, se falsificata, idonea a trarre in inganno il datore di lavoro; al contrario anche una vidimazione meramente facoltativa di un registro cartaceo o elettronico delle presenze in ufficio può ingenerare l’inganno di far risultare una presenza falsamente attestata. Ove la vidimazione dell’ingresso e dell’uscita sia meramente facoltativa il lavoratore può non ottemperare all’adempimento ma, qualora vi ottemperi, la falsa indicazione dell’orario di entrata o di uscita configura quindi un artifizio o un raggiro».

Nella sentenza, inoltre, si torna ad affrontare il tema delle «apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l’attività dei lavoratori», ribadendo il principio - più volte sancito dalla giurisprudenza di legittimità - in forza del quale le «garanzie procedurali» previste dall’articolo 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori «si applicano ai controlli c.d. “difensivi”, ossia diretti ad accertare l’inesatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando riguardano la tutela di beni estranei al rapporto stesso».

Sfugge, pertanto, al giudizio di illiceità l’utilizzo processuale di videoriprese finalizzato all’accertamento di fatti posti in essere dal lavoratore che costituiscono reato.

Sulla scorta di queste premesse, la Corte di Cassazione ha sancito il seguente principio di diritto: «le garanzie procedurali previste dall’articolo 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione quando si procede all’accertamento di fatti che costituiscono reato. Tali garanzie - aggiunge la Cassazione - riguardano solo l’utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell’attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l’interesse pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la persona offesa nel datore di lavoro».

Dall’applicazione dei summenzionati principi alla fattispecie in esame è scaturito, dunque, il rigetto del ricorso con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

(Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, Sentenza 1 agosto 2016, n. 33567)