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Intercettazioni - Cassazione Penale SU: legittima l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante virus installati su smartphone

Intercettazioni - Cassazione Penale SU: legittima l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante virus installati su smartphone
Intercettazioni - Cassazione Penale SU: legittima l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante virus installati su smartphone

Con la sentenza in oggetto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto legittimo l’utilizzo probatorio di intercettazioni ottenute tramite “captori informatici”, installati dalla polizia giudiziaria su dispositivi elettronici portatili (quali PC, tablet e smartphone) al fine di compiere intercettazioni c.d. ambientali anche nei luoghi di privata dimora ex articolo 614 del Codice Penale, pur in assenza di una specifica indicazione dei “luoghi” nei decreti autorizzativi.

In fatto, il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto accusato del reato di associazione di tipo mafioso, di cui all’articolo 416-bis del Codice Penale. Il Gip aveva ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, sulla base di dichiarazioni rese da vari collaboratori di giustizia e di una serie di intercettazioni, anche ambientali, captate grazie all’ausilio di un software installato da remoto su dispositivi elettronici in uso ai soggetti sottoposti ad indagini.

Avverso tale decisione, la difesa dei soggetti indagati ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo l’illegittimità del decreto con cui il Gip aveva autorizzato le operazioni di intercettazione di tipo ambientale tra presenti, in quanto privo di alcuna specificazione dei luoghi in cui le conversazioni potevano essere captate.

A sostegno della pretesa difensiva, era citata la recente sentenza n. 27100/2015 della Corte di Cassazione, con la quale i giudici di legittimità avevano ritenuto “legittima l’intercettazione da remoto delle conversazioni tra presenti – con l’attivazione, tramite il c.d. agente-intrusore informatico, del microfono di un apparecchio telefonico smartphone – solo se il relativo decreto autorizzativo individui con precisione i luoghi in cui eseguire tale attività captativa”.

Ad avviso del ricorrente, in base alla citata sentenza, la mancanza di ogni indicazione circa i luoghi interessati dall’intercettazione – o, meglio, la mancanza di limitazioni spaziali alle captazioni ambientali – determinerebbe l’illegittimità del decreto autorizzativo e la conseguente inutilizzabilità delle conversazioni captate.

La Sesta Sezione penale, ritenuta la rilevanza prioritaria della questione posta nel ricorso, riguardante la legittimità delle intercettazioni disposte attraverso l’installazione di virus informatici attivati su computer o smartphone e i limiti di utilizzabilità di tali modalità di captazione, ritenendo non condivisibili le argomentazione della citata sentenza n. 27100/2015, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.

I giudici di Cassazione, nella composizione più autorevole della stessa, rilevata la natura “ambientale” dell’intercettazione svolta con le modalità citate e, dunque, individuato nell’articolo 266, comma 2, del Codice di Procedura Penale, la norma di riferimento della materia del contendere, sono stati chiamati a decidere se “debba considerarsi presupposto indispensabile per la legittimità di tale mezzo investigativo – e, conseguentemente, per la utilizzabilità dell’esito delle intercettazioni – l’individuazione, e la relativa indicazione nel provvedimento che autorizza l’attività di captazione, del “luogo” nel cui ambito deve essere svolta la “intercettazione di comunicazioni tra presenti”, oggetto della previsione dell’articolo 266, comma 2, c.p.p.”.

Contrariamente a quanto enunciato dalla richiamata sentenza del 2015, nella pronuncia in oggetto i giudici di legittimità affermano che “il riferimento al luogo non integra un presupposto dell’autorizzazione, ma rileva solo limitatamente alla motivazione del decreto nella quale il giudice deve indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione, e ciò solo ai fini della determinazione delle modalità esecutive del mezzo di ricerca della prova, che avviene mediante la collocazione fisica di microspie, esigenza, peraltro, del tutto estranea all’intercettazione per mezzo del c.d. virus informatico: la caratteristica tecnica di tale modalità di captazione prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di un’intercettazione ambientale per sua natura itinerante”.

Deve escludersi – de iure condito – la possibilità di intercettazioni attraverso virus informatici nei soli luoghi indicati dall’articolo 614 del Codice Penale, ossia luoghi di privata dimora, a meno che non vi sia fondato motivo di ritenere che in tali luoghi “si stia svolgendo l’attività criminosa”. Fatte salve le ipotesi di indagini relative a delitti di criminalità organizzata per le quali è prevista una disciplina speciale, contenuta nel Decreto-Legge n. 152 del 1991 (convertito in Legge n. 203 del 1991), che legittima lo svolgimento di intercettazioni ambientali in luoghi di privata dimora anche in mancanza della gravità indiziaria dello svolgimento nell’ambiente, in quel momento, di attività criminosa.

Tale ultima ipotesi integra la situazione fattuale oggetto della sentenza in commento.

Secondo le Sezioni Unite, per queste ragioni il decreto che autorizza lo svolgimento di intercettazioni ben può essere privo dell’indicazione dei luoghi in cui le stesse si svolgeranno, sia per la natura “itinerante” dello strumento utilizzato a tale scopo, sia per l’assenza di particolari limiti a dette attività, data la natura dei reati perseguiti.

La Corte di Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso del ricorrente, confermando la legittimità del provvedimento impugnato.

Per approfondimenti sul tema si rinvia: “I virus informatici per scopi intercettivi nei procedimenti di criminalità organizzata: mezzi di cura o agenti patogeni?”

https://www.filodiritto.com/articoli/2016/06/i-virus-informatici-per-scopi-intercettivi-nei-procedimenti-di-criminalit-organizzata-mezzi-di-cura-o-agenti-patogeni.html

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 1 luglio 2016, n. 26889)

Con la sentenza in oggetto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto legittimo l’utilizzo probatorio di intercettazioni ottenute tramite “captori informatici”, installati dalla polizia giudiziaria su dispositivi elettronici portatili (quali PC, tablet e smartphone) al fine di compiere intercettazioni c.d. ambientali anche nei luoghi di privata dimora ex articolo 614 del Codice Penale, pur in assenza di una specifica indicazione dei “luoghi” nei decreti autorizzativi.

In fatto, il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto accusato del reato di associazione di tipo mafioso, di cui all’articolo 416-bis del Codice Penale. Il Gip aveva ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, sulla base di dichiarazioni rese da vari collaboratori di giustizia e di una serie di intercettazioni, anche ambientali, captate grazie all’ausilio di un software installato da remoto su dispositivi elettronici in uso ai soggetti sottoposti ad indagini.

Avverso tale decisione, la difesa dei soggetti indagati ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo l’illegittimità del decreto con cui il Gip aveva autorizzato le operazioni di intercettazione di tipo ambientale tra presenti, in quanto privo di alcuna specificazione dei luoghi in cui le conversazioni potevano essere captate.

A sostegno della pretesa difensiva, era citata la recente sentenza n. 27100/2015 della Corte di Cassazione, con la quale i giudici di legittimità avevano ritenuto “legittima l’intercettazione da remoto delle conversazioni tra presenti – con l’attivazione, tramite il c.d. agente-intrusore informatico, del microfono di un apparecchio telefonico smartphone – solo se il relativo decreto autorizzativo individui con precisione i luoghi in cui eseguire tale attività captativa”.

Ad avviso del ricorrente, in base alla citata sentenza, la mancanza di ogni indicazione circa i luoghi interessati dall’intercettazione – o, meglio, la mancanza di limitazioni spaziali alle captazioni ambientali – determinerebbe l’illegittimità del decreto autorizzativo e la conseguente inutilizzabilità delle conversazioni captate.

La Sesta Sezione penale, ritenuta la rilevanza prioritaria della questione posta nel ricorso, riguardante la legittimità delle intercettazioni disposte attraverso l’installazione di virus informatici attivati su computer o smartphone e i limiti di utilizzabilità di tali modalità di captazione, ritenendo non condivisibili le argomentazione della citata sentenza n. 27100/2015, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.

I giudici di Cassazione, nella composizione più autorevole della stessa, rilevata la natura “ambientale” dell’intercettazione svolta con le modalità citate e, dunque, individuato nell’articolo 266, comma 2, del Codice di Procedura Penale, la norma di riferimento della materia del contendere, sono stati chiamati a decidere se “debba considerarsi presupposto indispensabile per la legittimità di tale mezzo investigativo – e, conseguentemente, per la utilizzabilità dell’esito delle intercettazioni – l’individuazione, e la relativa indicazione nel provvedimento che autorizza l’attività di captazione, del “luogo” nel cui ambito deve essere svolta la “intercettazione di comunicazioni tra presenti”, oggetto della previsione dell’articolo 266, comma 2, c.p.p.”.

Contrariamente a quanto enunciato dalla richiamata sentenza del 2015, nella pronuncia in oggetto i giudici di legittimità affermano che “il riferimento al luogo non integra un presupposto dell’autorizzazione, ma rileva solo limitatamente alla motivazione del decreto nella quale il giudice deve indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione, e ciò solo ai fini della determinazione delle modalità esecutive del mezzo di ricerca della prova, che avviene mediante la collocazione fisica di microspie, esigenza, peraltro, del tutto estranea all’intercettazione per mezzo del c.d. virus informatico: la caratteristica tecnica di tale modalità di captazione prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di un’intercettazione ambientale per sua natura itinerante”.

Deve escludersi – de iure condito – la possibilità di intercettazioni attraverso virus informatici nei soli luoghi indicati dall’articolo 614 del Codice Penale, ossia luoghi di privata dimora, a meno che non vi sia fondato motivo di ritenere che in tali luoghi “si stia svolgendo l’attività criminosa”. Fatte salve le ipotesi di indagini relative a delitti di criminalità organizzata per le quali è prevista una disciplina speciale, contenuta nel Decreto-Legge n. 152 del 1991 (convertito in Legge n. 203 del 1991), che legittima lo svolgimento di intercettazioni ambientali in luoghi di privata dimora anche in mancanza della gravità indiziaria dello svolgimento nell’ambiente, in quel momento, di attività criminosa.

Tale ultima ipotesi integra la situazione fattuale oggetto della sentenza in commento.

Secondo le Sezioni Unite, per queste ragioni il decreto che autorizza lo svolgimento di intercettazioni ben può essere privo dell’indicazione dei luoghi in cui le stesse si svolgeranno, sia per la natura “itinerante” dello strumento utilizzato a tale scopo, sia per l’assenza di particolari limiti a dette attività, data la natura dei reati perseguiti.

La Corte di Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso del ricorrente, confermando la legittimità del provvedimento impugnato.

Per approfondimenti sul tema si rinvia: “I virus informatici per scopi intercettivi nei procedimenti di criminalità organizzata: mezzi di cura o agenti patogeni?”

https://www.filodiritto.com/articoli/2016/06/i-virus-informatici-per-scopi-intercettivi-nei-procedimenti-di-criminalit-organizzata-mezzi-di-cura-o-agenti-patogeni.html

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 1 luglio 2016, n. 26889)