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Lavoro - Cassazione SU Civili: il ricorso illegittimo al contratto a termine da parte della PA è fonte di responsabilità risarcitoria

L’abusivo ricorso al contratto a termine – ed anzi, più in generale, l’illegittimo ricorso al contratto a termine – è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità”. È stato così stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Nel caso di specie, La Corte Suprema era chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello di Genova.

I ricorrenti avevano adito, con ricorsi separati, il Tribunale di Genova affinché accertasse l’illegittimità dei contratti a termine reiterati, intercorsi con un’azienda ospedaliera. Avevano chiesto, in virtù di tale reiterazione, la declaratoria di instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che giustificasse, al contempo, la reintegrazione nel posto di lavoro, il risarcimento del danno pari o superiore a cinque mensilità e la condanna del datore al versamento di un’indennità pari o superiore a quindici mensilità.

Il Tribunale, riconoscendo l’illegittimità dell’ultimo contratto dei richiedenti, aveva condannato l’ente al risarcimento del danno, differenziando la liquidazione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, in considerazione delle diverse posizioni dei soggetti.

Avverso la sentenza resa dal Tribunale di primo grado, l’ente pubblico ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di appello di Genova, la quale lo ha respinto adducendo, tra l’altro, la conformità della decisione presa con le regole comunitarie in tema di abuso dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Giunta, quindi, all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la questione è stata così risolta.

Facendo anzitutto riferimento al quadro comunitario, e alla sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’UE a seguito del rinvio pregiudiziale disposto in primo grado, la Suprema Corte ha evidenziato la “astratta compatibilità della normativa interna – preclusiva della costituzione a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione – purché sia assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste dall’ordinamento interno per situazioni analoghe”.

In questo modo, i giudici hanno inoltre avuto modo di ricordare il principio dell’accesso alla PA solo tramite concorso, principio posto a presidio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, col quale il riconoscimento della conversione di un rapporto di lavoro contrasterebbe. Ed infatti, si legge nella sentenza: “in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego non può avvenire – invece che tramite concorso pubblico – quale effetto, sia pure in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità”.

Avendo riguardo, poi, alla questione relativa al risarcimento del danno in ragione della illegittima apposizione del termine, la Suprema Corte ha individuato una disciplina “comunitariamente adeguata” nel diritto privato, con particolare riferimento all’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010. Quest’ultimo, com’è noto, prevede la condanna del datore di lavoro al “risarcimento del lavoratore” ad opera del giudice, il quale stabilisce “un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n.604”. Tali criteri sono l’anzianità di servizio, le condizioni concrete del caso e la dimensione dell’organizzazione coinvolta.

Interessante è inoltre menzionare il passaggio in cui si precisa che: “il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l’abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante pubblico concorso e la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato”.

Infine, è opportuno sottolineare che, contrariamente a quanto normalmente avviene per il lavoratore privato, in questo caso la Corte ha sollevato i diretti interessati dall’onere della prova, ferma restando la possibilità di poter dimostrare la perdita di chances a cui si è fatto riferimento poc’anzi.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte così conclude: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.

(Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 15 marzo 2016 n. 5072)

L’abusivo ricorso al contratto a termine – ed anzi, più in generale, l’illegittimo ricorso al contratto a termine – è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità”. È stato così stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Nel caso di specie, La Corte Suprema era chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello di Genova.

I ricorrenti avevano adito, con ricorsi separati, il Tribunale di Genova affinché accertasse l’illegittimità dei contratti a termine reiterati, intercorsi con un’azienda ospedaliera. Avevano chiesto, in virtù di tale reiterazione, la declaratoria di instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che giustificasse, al contempo, la reintegrazione nel posto di lavoro, il risarcimento del danno pari o superiore a cinque mensilità e la condanna del datore al versamento di un’indennità pari o superiore a quindici mensilità.

Il Tribunale, riconoscendo l’illegittimità dell’ultimo contratto dei richiedenti, aveva condannato l’ente al risarcimento del danno, differenziando la liquidazione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, in considerazione delle diverse posizioni dei soggetti.

Avverso la sentenza resa dal Tribunale di primo grado, l’ente pubblico ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di appello di Genova, la quale lo ha respinto adducendo, tra l’altro, la conformità della decisione presa con le regole comunitarie in tema di abuso dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Giunta, quindi, all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la questione è stata così risolta.

Facendo anzitutto riferimento al quadro comunitario, e alla sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’UE a seguito del rinvio pregiudiziale disposto in primo grado, la Suprema Corte ha evidenziato la “astratta compatibilità della normativa interna – preclusiva della costituzione a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione – purché sia assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste dall’ordinamento interno per situazioni analoghe”.

In questo modo, i giudici hanno inoltre avuto modo di ricordare il principio dell’accesso alla PA solo tramite concorso, principio posto a presidio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, col quale il riconoscimento della conversione di un rapporto di lavoro contrasterebbe. Ed infatti, si legge nella sentenza: “in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego non può avvenire – invece che tramite concorso pubblico – quale effetto, sia pure in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità”.

Avendo riguardo, poi, alla questione relativa al risarcimento del danno in ragione della illegittima apposizione del termine, la Suprema Corte ha individuato una disciplina “comunitariamente adeguata” nel diritto privato, con particolare riferimento all’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010. Quest’ultimo, com’è noto, prevede la condanna del datore di lavoro al “risarcimento del lavoratore” ad opera del giudice, il quale stabilisce “un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n.604”. Tali criteri sono l’anzianità di servizio, le condizioni concrete del caso e la dimensione dell’organizzazione coinvolta.

Interessante è inoltre menzionare il passaggio in cui si precisa che: “il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l’abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante pubblico concorso e la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato”.

Infine, è opportuno sottolineare che, contrariamente a quanto normalmente avviene per il lavoratore privato, in questo caso la Corte ha sollevato i diretti interessati dall’onere della prova, ferma restando la possibilità di poter dimostrare la perdita di chances a cui si è fatto riferimento poc’anzi.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte così conclude: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.

(Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 15 marzo 2016 n. 5072)