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Parto - Cassazione Civile: danno da nascita indesiderata, onere della prova e legittimazione al risarcimento del nato con disabilità

Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di un contrasto sulla responsabilità medica, affermano che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, potendo assolvere l’onere mediante presunzioni semplici. Il nato con disabilità invece non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”.

Il caso della sentenza in esame riguarda il parto di una bambina affetta da una sindrome particolare non rilevata da esami precedentemente fatti sulla paziente. Il parto è autorizzato dal primario poiché i dati risultati dagli esami non evidenziano particolari deficit genetici del feto che possono ostare alla nascita dello stesso. Così il tribunale, rilevati i motivi di cui sopra, respinge la domanda.

Allo stesso modo, la Corte d’Appello rigetta il gravame motivando che il risarcimento del danno non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, ma è soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni per ricorrere all’interruzione della gravidanza, ossia una grave pregiudizio fisico sulla gestante. Peraltro, condizione per il risarcimento è che dopo il novantesimo giorno di gravidanza la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinino un grave pericolo per la salute psichica e fisica della madre. L’unica allegazione fornita dagli attori è invece il rifiuto della gestante a portare a termine la gravidanza se fosse stata correttamente informata.

La parte attrice dunque propone ricorso in Cassazione, opponendo l’ingiustizia dell’onere della prova, con l’impedimento dell’interruzione della gravidanza da solo idoneo a integrare la responsabilità del medico, a carico della gestante e la negazione del diritto ad una vita dignitosa alla figlia appena nata.

La Corte di Cassazione, soffermandosi sul primo punto, accoglie la prima domanda della parte attrice. Afferma che il rivolgersi ad un professionista che è obbligato ad offrire la soluzione clinica migliore, non potendo il paziente decidere per sé, è fonte di responsabilità civile. Essendo difficile ricostruire l’intera fattispecie sull’analisi di tutti gli elementi che la costituiscono, la Corte permette una ricostruzione della volontà della gestante, deducibile da soli elementi volitivi e quindi da un particolare atteggiamento psicologico della stessa, attraverso prove presuntive deducibili dai vari elementi allegati, sottolineando l’ingerenza che questi potevano avere sulla scelta della donna. In tal caso negativa.

Quanto al secondo motivo, questo è certamente il più delicato tra quelli affrontati dalla Suprema Corte. Stante la legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, non era ancora dotato di capacità giuridica ma comunque “oggetto di tutela dell’Ordinamento”, viene in rilievo una contraddizione nella costruzione del concetto di danno-conseguenza. Il secondo termine di paragone è la non-vita che non può esser considerata bene della vita, così come non può esserlo, retrospettivamente, l’omessa distruzione della propria vita, bene per eccellenza. “Viene meno il concetto di danno ingiusto, non potendosi parlare di un diritto a non nascere: l’ordinamento non riconosce il diritto alla non vita.” La particolare penosità della vita cui il nato andrà in contro per errore non eziologicamente riconducibile alla condotta medica potrà essere lenita da interventi di solidarietà generale.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, sentenza del 22 dicembre 2015, n. 25767)

Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di un contrasto sulla responsabilità medica, affermano che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, potendo assolvere l’onere mediante presunzioni semplici. Il nato con disabilità invece non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”.

Il caso della sentenza in esame riguarda il parto di una bambina affetta da una sindrome particolare non rilevata da esami precedentemente fatti sulla paziente. Il parto è autorizzato dal primario poiché i dati risultati dagli esami non evidenziano particolari deficit genetici del feto che possono ostare alla nascita dello stesso. Così il tribunale, rilevati i motivi di cui sopra, respinge la domanda.

Allo stesso modo, la Corte d’Appello rigetta il gravame motivando che il risarcimento del danno non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, ma è soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni per ricorrere all’interruzione della gravidanza, ossia una grave pregiudizio fisico sulla gestante. Peraltro, condizione per il risarcimento è che dopo il novantesimo giorno di gravidanza la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinino un grave pericolo per la salute psichica e fisica della madre. L’unica allegazione fornita dagli attori è invece il rifiuto della gestante a portare a termine la gravidanza se fosse stata correttamente informata.

La parte attrice dunque propone ricorso in Cassazione, opponendo l’ingiustizia dell’onere della prova, con l’impedimento dell’interruzione della gravidanza da solo idoneo a integrare la responsabilità del medico, a carico della gestante e la negazione del diritto ad una vita dignitosa alla figlia appena nata.

La Corte di Cassazione, soffermandosi sul primo punto, accoglie la prima domanda della parte attrice. Afferma che il rivolgersi ad un professionista che è obbligato ad offrire la soluzione clinica migliore, non potendo il paziente decidere per sé, è fonte di responsabilità civile. Essendo difficile ricostruire l’intera fattispecie sull’analisi di tutti gli elementi che la costituiscono, la Corte permette una ricostruzione della volontà della gestante, deducibile da soli elementi volitivi e quindi da un particolare atteggiamento psicologico della stessa, attraverso prove presuntive deducibili dai vari elementi allegati, sottolineando l’ingerenza che questi potevano avere sulla scelta della donna. In tal caso negativa.

Quanto al secondo motivo, questo è certamente il più delicato tra quelli affrontati dalla Suprema Corte. Stante la legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, non era ancora dotato di capacità giuridica ma comunque “oggetto di tutela dell’Ordinamento”, viene in rilievo una contraddizione nella costruzione del concetto di danno-conseguenza. Il secondo termine di paragone è la non-vita che non può esser considerata bene della vita, così come non può esserlo, retrospettivamente, l’omessa distruzione della propria vita, bene per eccellenza. “Viene meno il concetto di danno ingiusto, non potendosi parlare di un diritto a non nascere: l’ordinamento non riconosce il diritto alla non vita.” La particolare penosità della vita cui il nato andrà in contro per errore non eziologicamente riconducibile alla condotta medica potrà essere lenita da interventi di solidarietà generale.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, sentenza del 22 dicembre 2015, n. 25767)