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Privacy - Corte Europea dei Diritti Umani: lecita la sorveglianza dell’email aziendale dei dipendenti da parte del datore di lavoro se giustificata da valide motivazioni

Nel controverso caso Barbulescu v. Romania deciso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo scorso 12 gennaio, i giudici di Strasburgo hanno affermato che il controllo della corrispondenza email di un dipendente da parte del proprio datore di lavoro è in linea con l’articolo 8 della Convenzione EDU in materia di tutela della privacy e della corrispondenza privata.

I fatti del caso risalgono al 2008 e riguardano il licenziamento di un giovane ingegnere rumeno impiegato presso un’azienda di sistemi di riscaldamento, accusato di avere indebitamente utilizzato la propria casella di posta aziendale a scopo personale.

Nell’adire ai competenti tribunali nazionali, il ricorrente sosteneva che il licenziamento fosse fondato su una grave violazione della sua privacy e che le autorità giurisdizionali dovevano invalidare il provvedimento disciplinare del datore di lavoro, che si opponeva specificando che il ricorrente era stato debitamente informato della rigida policy aziendale in materia di utilizzo degli strumenti di lavoro a scopo personale, della quale aveva preso visione al momento dell’assunzione. Rispondevano i giudici rumeni, in primo grado e nel successivo appello, affermando la legittimità della decisione presa dal datore di lavoro e sottolineando come la possibilità di monitorare le attività dei dipendenti ricadesse all’interno delle prerogative della direzione aziendale, benché entro i limiti del solo riscontro dell’effettiva attività professionale svolta.

Nella successiva istanza alla Corte di Strasburgo, il ricorrente adduceva dunque, a fondamento del proprio ricorso, la presunta violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, che tutela il diritto alla riservatezza e alla vita privata degli individui da interferenze pubbliche e private. In particolare, chiedeva alla Corte di pronunciarsi sulla sua presunta “aspettativa di privacy” nell’utilizzo della mail aziendale per scopi strettamente personali e se tale diritto alla riservatezza fosse stato violato dall’ex-datore di lavoro.

I giudici di Strasburgo, riuniti in seduta plenaria nel valutare l’ammissibilità del ricorso, hanno affermato innanzitutto che una interpretazione in senso estensivo dell’articolo 8 della Convenzione, in combinato disposto con il dettato della Convenzione n. 108 in materia di protezione dei dati personali e dalla normativa privacy UE, è da considerarsi essenzialmente a tutela delle invasioni della sfera privata degli individui prevalentemente da parte delle autorità pubbliche. Tuttavia, tali autorità non possono considerarsi esentate dal dovere di adottare idonee misure a protezione della riservatezza degli individui nella sfera delle relazioni tra privati. Tale obbligo positivo nei confronti dello stato comprende infatti – secondo i giudici della Corte – la necessità di intervenire qualora emergano indebite violazioni della privacy degli individui da parte di enti operanti nel settore privato.

In questo senso, ad esempio, mentre le telefonate effettuate all’interno delle strutture aziendali sarebbero chiaramente da considerarsi ricomprese all’interno della nozione di “vita privata” e “corrispondenza” ex articolo 8, lo scambio di email può essere soggetto a sfumature diverse a seconda dei regimi di monitoraggio sull’utilizzo di internet cui i dipendenti vengono abitualmente sottoposti sul luogo di lavoro.

Nel caso di specie, oggetto della decisione sul ricorso non era tanto il controllo sul contenuto sostanziale delle comunicazioni private, né sulla loro indebita diffusione, bensì sulla sola ragionevole aspettativa del ricorrente che le stesse non fossero monitorate dal proprio datore di lavoro.

Inoltre, nel ricordare gli importanti orientamenti del Gruppo Articolo 29, istituito in seno alle istituzioni europee al fine di garantire una corretta implementazione della normativa privacy dell’Unione, la Corte ha sottolineato come le prassi di lecita sorveglianza del luogo di lavoro e dei lavoratori devono dimostrarsi in linea con rigidi parametri di rispetto della sfera privata delle persone in particolare attraverso quattro criteri fondamentali: trasparenza, necessità, equità e proporzionalità. Tuttavia, ciò non osterebbe all’applicazione di misure utili a controllare il dipendente entro i limiti prescritti dalle normative applicabili, nonché tramite strumenti che giustifichino l’interesse del datore ad una intrusione nella privacy del lavoratore.

Nel caso di specie, pertanto, come rilevato dai competenti tribunali interni, il datore di lavoro aveva ragione di agire entro i margini della propria prerogativa direzionale, purché non interferisse con la sfera privata del dipendente esponendolo ad indebite violazioni della propria privacy. In questo senso, non risultando tale comportamento dall’analisi delle corti nazionali, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto necessarie e proporzionate le modalità di sorveglianza poste in essere dal datore, nonché meramente funzionali allo scopo di controllare il livello di produttività del proprio dipendente nell’utilizzo degli strumenti di lavoro aziendali per scopi diversi da quelli preposti.

La Corte ha pertanto ritenuto, con la maggioranza di sei voti contri uno, che non si fosse manifestata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione e che la condotta posta in essere dal datore di lavoro non costituiva una violazione al libero esercizio del diritto alla privacy del ricorrente.

(Corte Europea dei Diritti Umani - Barbulescu v. Romania - 61496/08 [2016] ECHR 61- 12 Gennaio 2016)

Nel controverso caso Barbulescu v. Romania deciso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo scorso 12 gennaio, i giudici di Strasburgo hanno affermato che il controllo della corrispondenza email di un dipendente da parte del proprio datore di lavoro è in linea con l’articolo 8 della Convenzione EDU in materia di tutela della privacy e della corrispondenza privata.

I fatti del caso risalgono al 2008 e riguardano il licenziamento di un giovane ingegnere rumeno impiegato presso un’azienda di sistemi di riscaldamento, accusato di avere indebitamente utilizzato la propria casella di posta aziendale a scopo personale.

Nell’adire ai competenti tribunali nazionali, il ricorrente sosteneva che il licenziamento fosse fondato su una grave violazione della sua privacy e che le autorità giurisdizionali dovevano invalidare il provvedimento disciplinare del datore di lavoro, che si opponeva specificando che il ricorrente era stato debitamente informato della rigida policy aziendale in materia di utilizzo degli strumenti di lavoro a scopo personale, della quale aveva preso visione al momento dell’assunzione. Rispondevano i giudici rumeni, in primo grado e nel successivo appello, affermando la legittimità della decisione presa dal datore di lavoro e sottolineando come la possibilità di monitorare le attività dei dipendenti ricadesse all’interno delle prerogative della direzione aziendale, benché entro i limiti del solo riscontro dell’effettiva attività professionale svolta.

Nella successiva istanza alla Corte di Strasburgo, il ricorrente adduceva dunque, a fondamento del proprio ricorso, la presunta violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, che tutela il diritto alla riservatezza e alla vita privata degli individui da interferenze pubbliche e private. In particolare, chiedeva alla Corte di pronunciarsi sulla sua presunta “aspettativa di privacy” nell’utilizzo della mail aziendale per scopi strettamente personali e se tale diritto alla riservatezza fosse stato violato dall’ex-datore di lavoro.

I giudici di Strasburgo, riuniti in seduta plenaria nel valutare l’ammissibilità del ricorso, hanno affermato innanzitutto che una interpretazione in senso estensivo dell’articolo 8 della Convenzione, in combinato disposto con il dettato della Convenzione n. 108 in materia di protezione dei dati personali e dalla normativa privacy UE, è da considerarsi essenzialmente a tutela delle invasioni della sfera privata degli individui prevalentemente da parte delle autorità pubbliche. Tuttavia, tali autorità non possono considerarsi esentate dal dovere di adottare idonee misure a protezione della riservatezza degli individui nella sfera delle relazioni tra privati. Tale obbligo positivo nei confronti dello stato comprende infatti – secondo i giudici della Corte – la necessità di intervenire qualora emergano indebite violazioni della privacy degli individui da parte di enti operanti nel settore privato.

In questo senso, ad esempio, mentre le telefonate effettuate all’interno delle strutture aziendali sarebbero chiaramente da considerarsi ricomprese all’interno della nozione di “vita privata” e “corrispondenza” ex articolo 8, lo scambio di email può essere soggetto a sfumature diverse a seconda dei regimi di monitoraggio sull’utilizzo di internet cui i dipendenti vengono abitualmente sottoposti sul luogo di lavoro.

Nel caso di specie, oggetto della decisione sul ricorso non era tanto il controllo sul contenuto sostanziale delle comunicazioni private, né sulla loro indebita diffusione, bensì sulla sola ragionevole aspettativa del ricorrente che le stesse non fossero monitorate dal proprio datore di lavoro.

Inoltre, nel ricordare gli importanti orientamenti del Gruppo Articolo 29, istituito in seno alle istituzioni europee al fine di garantire una corretta implementazione della normativa privacy dell’Unione, la Corte ha sottolineato come le prassi di lecita sorveglianza del luogo di lavoro e dei lavoratori devono dimostrarsi in linea con rigidi parametri di rispetto della sfera privata delle persone in particolare attraverso quattro criteri fondamentali: trasparenza, necessità, equità e proporzionalità. Tuttavia, ciò non osterebbe all’applicazione di misure utili a controllare il dipendente entro i limiti prescritti dalle normative applicabili, nonché tramite strumenti che giustifichino l’interesse del datore ad una intrusione nella privacy del lavoratore.

Nel caso di specie, pertanto, come rilevato dai competenti tribunali interni, il datore di lavoro aveva ragione di agire entro i margini della propria prerogativa direzionale, purché non interferisse con la sfera privata del dipendente esponendolo ad indebite violazioni della propria privacy. In questo senso, non risultando tale comportamento dall’analisi delle corti nazionali, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto necessarie e proporzionate le modalità di sorveglianza poste in essere dal datore, nonché meramente funzionali allo scopo di controllare il livello di produttività del proprio dipendente nell’utilizzo degli strumenti di lavoro aziendali per scopi diversi da quelli preposti.

La Corte ha pertanto ritenuto, con la maggioranza di sei voti contri uno, che non si fosse manifestata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione e che la condotta posta in essere dal datore di lavoro non costituiva una violazione al libero esercizio del diritto alla privacy del ricorrente.

(Corte Europea dei Diritti Umani - Barbulescu v. Romania - 61496/08 [2016] ECHR 61- 12 Gennaio 2016)