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Licenziamento - Cassazione Lavoro: il profitto riconosciuto giustificato motivo di licenziamento

Licenziamento - Cassazione Lavoro: il profitto riconosciuto giustificato motivo di licenziamento
Licenziamento - Cassazione Lavoro: il profitto riconosciuto giustificato motivo di licenziamento

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione estende la qualifica di giustificato motivo di licenziamento. Quest’ultimo infatti, oltre che per straordinari motivi, viene ora legittimato per aumentare il profitto dell’impresa. Il fine è non limitare l’autonomia organizzativa e decisionale dell’imprenditore, tutelata costituzionalmente.

Il caso

In data 11 giugno 2013 un dipendente di un resort di lusso viene licenziato. Si porta quale motivazione l’esigenza di rendere più agevole la gestione aziendale.

La procedura giudiziaria

Il giudice di primo grado conferma il licenziamento, considerandolo motivato dalla necessità aziendale di un miglioramento della catena di comando.

La Corte d’Appello di Firenze, in data 29 maggio 2015, riforma il giudizio di primo grado e dichiara illegittimo il licenziamento: risolve il rapporto di lavoro e condanna la società a corrispondere all’ex dipendente 15 mensilità.

Sostiene infatti che la decisione del datore di lavoro non sia sostenuta da vere esigenze di carattere straordinario, ma solamente dalla possibilità di trarre maggiore profitto economico. Seppur si riconosca il tentativo di rendere “più snella” la catena di comando, la Corte d’Appello non vi riconosce “sfavorevoli e contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva”, tali cioè da giustificare un licenziamento.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2016, accoglie due dei quattro motivi del ricorso presentato dalla società in causa. Cassa con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze. Quest’ultima dovrà conformarsi alla decisione per la quale, per legittimare il licenziamento, è sufficiente “che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.

Le norme di interesse

A norma dell’articolo 2119 del Codice Civile “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Ai sensi dell’articolo 3 legge 604/1966, inoltre: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”: si suole parlare di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, si è soliti riferirsi a riguardo a situazioni quali la crisi dell’impresa, l’interruzione dell’attività o l’impossibilità di ricollocare il lavoratore qualora le sue mansioni vengano meno. Nel 2012 inoltre vengono esplicitamente riconosciute due ipotesi, quali il superamento del periodo di comporto e l’inidoneità fisiche o psichica del dipendente.

Da tenere in considerazione, vi è poi l’articolo 41 Costituzione, per il quale “L’iniziativa economica privata è libera”.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione si ritrova ad esaminare quattro motivi di ricorso.

Innanzitutto, i primi due rilevano la violazione e falsa applicazione della Legge 604/1966 e dell’articolo 41 Costituzione. Quest’ultimo, in particolare, viene dunque interpretato dalla Corte come “quel principio per cui l’imprenditore è libero, pur nel rispetto della legge, di assumere quelle decisioni atte a rendere più funzionale ed efficiente la propria azienda, senza che il giudice possa entrare nel merito della decisione.

Limitare le scelte dell’imprenditore ai soli casi di crisi economica e necessità risulterebbe allora eccessivamente gravoso in relazione al diritto costituzionalmente garantito.

Di conseguenza, il licenziamento in questione è legittimo, in quanto espressione della libertà economica dell’imprenditore, la quale non richiede la necessaria esistenza di situazioni sfavorevoli o spese straordinarie. Nell’argomentare, la Cassazione richiama le precedenti sentenze Cass. n. 13516 del 2016 e Cass. n. 15082 del 2016.

Per quanto riguarda lo spazio di intervento del giudice, riportando precedenti sentenze si afferma che “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva (…) è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”. Il giudizio, quindi, deve tendere solo a verificare l’esistenza dei motivi addotti, senza poterne apprezzare discrezionalmente la scelta.

Passando poi agli altri motivi di ricorso, la Cassazione ritiene che il terzo sia inammissibile e il quarto da demandare alla Corte di rinvio, in quanto riguardante le spese di giudizio.

A sostegno di tutte queste convinzioni, si rinviene infine che l’art.4 Cost. non protegge un eventuale diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro, ma che invece l’art. 41 Cost. garantisce la libertà dell’imprenditore.

Al di là dei limiti di utilità sociale e di sicurezza, non si può riscontrare infatti nessuna norma che vieti a quest’ultimo di licenziare al di fuori di condizioni di crisi, neanche in campo europeo. Ecco dunque perché, secondo la Cassazione, inseguire un maggior profitto può considerarsi un legittimo motivo di licenziamento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201)

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione estende la qualifica di giustificato motivo di licenziamento. Quest’ultimo infatti, oltre che per straordinari motivi, viene ora legittimato per aumentare il profitto dell’impresa. Il fine è non limitare l’autonomia organizzativa e decisionale dell’imprenditore, tutelata costituzionalmente.

Il caso

In data 11 giugno 2013 un dipendente di un resort di lusso viene licenziato. Si porta quale motivazione l’esigenza di rendere più agevole la gestione aziendale.

La procedura giudiziaria

Il giudice di primo grado conferma il licenziamento, considerandolo motivato dalla necessità aziendale di un miglioramento della catena di comando.

La Corte d’Appello di Firenze, in data 29 maggio 2015, riforma il giudizio di primo grado e dichiara illegittimo il licenziamento: risolve il rapporto di lavoro e condanna la società a corrispondere all’ex dipendente 15 mensilità.

Sostiene infatti che la decisione del datore di lavoro non sia sostenuta da vere esigenze di carattere straordinario, ma solamente dalla possibilità di trarre maggiore profitto economico. Seppur si riconosca il tentativo di rendere “più snella” la catena di comando, la Corte d’Appello non vi riconosce “sfavorevoli e contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva”, tali cioè da giustificare un licenziamento.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2016, accoglie due dei quattro motivi del ricorso presentato dalla società in causa. Cassa con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze. Quest’ultima dovrà conformarsi alla decisione per la quale, per legittimare il licenziamento, è sufficiente “che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.

Le norme di interesse

A norma dell’articolo 2119 del Codice Civile “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Ai sensi dell’articolo 3 legge 604/1966, inoltre: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”: si suole parlare di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, si è soliti riferirsi a riguardo a situazioni quali la crisi dell’impresa, l’interruzione dell’attività o l’impossibilità di ricollocare il lavoratore qualora le sue mansioni vengano meno. Nel 2012 inoltre vengono esplicitamente riconosciute due ipotesi, quali il superamento del periodo di comporto e l’inidoneità fisiche o psichica del dipendente.

Da tenere in considerazione, vi è poi l’articolo 41 Costituzione, per il quale “L’iniziativa economica privata è libera”.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione si ritrova ad esaminare quattro motivi di ricorso.

Innanzitutto, i primi due rilevano la violazione e falsa applicazione della Legge 604/1966 e dell’articolo 41 Costituzione. Quest’ultimo, in particolare, viene dunque interpretato dalla Corte come “quel principio per cui l’imprenditore è libero, pur nel rispetto della legge, di assumere quelle decisioni atte a rendere più funzionale ed efficiente la propria azienda, senza che il giudice possa entrare nel merito della decisione.

Limitare le scelte dell’imprenditore ai soli casi di crisi economica e necessità risulterebbe allora eccessivamente gravoso in relazione al diritto costituzionalmente garantito.

Di conseguenza, il licenziamento in questione è legittimo, in quanto espressione della libertà economica dell’imprenditore, la quale non richiede la necessaria esistenza di situazioni sfavorevoli o spese straordinarie. Nell’argomentare, la Cassazione richiama le precedenti sentenze Cass. n. 13516 del 2016 e Cass. n. 15082 del 2016.

Per quanto riguarda lo spazio di intervento del giudice, riportando precedenti sentenze si afferma che “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva (…) è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”. Il giudizio, quindi, deve tendere solo a verificare l’esistenza dei motivi addotti, senza poterne apprezzare discrezionalmente la scelta.

Passando poi agli altri motivi di ricorso, la Cassazione ritiene che il terzo sia inammissibile e il quarto da demandare alla Corte di rinvio, in quanto riguardante le spese di giudizio.

A sostegno di tutte queste convinzioni, si rinviene infine che l’art.4 Cost. non protegge un eventuale diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro, ma che invece l’art. 41 Cost. garantisce la libertà dell’imprenditore.

Al di là dei limiti di utilità sociale e di sicurezza, non si può riscontrare infatti nessuna norma che vieti a quest’ultimo di licenziare al di fuori di condizioni di crisi, neanche in campo europeo. Ecco dunque perché, secondo la Cassazione, inseguire un maggior profitto può considerarsi un legittimo motivo di licenziamento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201)