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Marchio - Tribunale di Milano: l’utilizzo del segno distintivo come parola chiave di AdWords non costituisce un illecito né integra condotta concorrenziale sleale

Marchio - Tribunale di Milano: l’utilizzo del segno distintivo come parola chiave di AdWords non costituisce un illecito né integra condotta concorrenziale sleale
Marchio - Tribunale di Milano: l’utilizzo del segno distintivo come parola chiave di AdWords non costituisce un illecito né integra condotta concorrenziale sleale

Il Tribunale di Milano ha stabilito che l’uso del termine costituente un marchio di un’impresa come parola-chiave per una migliore visibilità in rete da parte di concorrenti commerciali non costituisce di per sé violazione del marchio stesso, né concorrenza sleale.

Nel caso in esame, una società agiva in giudizio nei confronti di una società concorrente per l’accertamento della violazione dei diritti di marchio di cui all’articolo 20 del Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (“Codice della proprietà industriale”), avendo quest’ultima utilizzato il marchio come metatag del sito internet e come key word nell’ambito del servizio AdWords di Google, nonché per concorrenza sleale ex articolo 2598 nn. 1, 2 e 3 del Codice Civile, con conseguente domanda di risarcimento del danno, quantificato per un importo pari a euro 820.000,00.

Costituitasi in giudizio, la convenuta contestava di aver usato il marchio della controparte come metatag del proprio sito internet, trattandosi di sistema di indicizzazione dei contenuti della rete ampiamente superato, a fronte dell’algoritmo PageRank che privilegia nella collocazione i siti più “linkati, ma non negava di aver utilizzato il marchio come key word nell’ambito del servizio di advertising di Google, al fine di far visualizzare il proprio annuncio al fruitore della rete che avesse digitato sulla tastiera tale termine.

Esclusa la legittimazione passiva e ogni responsabilità del gestore del motore di ricerca in ordine a qualsiasi pretesa di violazione del marchio, per il fatto che il prestatore del servizio non fa un uso del marchio ma, diversamente, permette ad altri di usarlo come parola-chiave (sentenza 23/3/10 in C-236/08 e C-238/08, Google France, CGUE), il giudice ha valutato nel merito la fondatezza della domanda attorea, richiamando un’ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia.

In particolare, ha ritenuto che “il titolare del marchio non può opporsi all’uso quale parola chiave di un segno identico al suo marchio qualora non ricorrano tutte le condizioni previste a tal fine dagli artt. 5 della direttiva 89/104 e 9 del regolamento n. 40/94, nonché dalla giurisprudenza pertinente, vale a dire se l’uso stesso possa compromettere una delle funzioni del marchio. La Corte [di Giustizia] ha da ciò ricavato che l’esercizio del diritto esclusivo conferito dal marchio deve essere riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto, oppure di una delle altre funzioni di quest’ultimo, quali quelle consistenti nel garantire la qualità di detto prodotto o servizio, oppure di comunicazione, investimento o pubblicità”.

Centrale è, altresì, il concetto di utente informato di Internet.

Quest’ultimo scrive in motivazione il giudice di merito è un soggetto che ben conosce l’esistenza del sistema di pubblicità a pagamento ADWords e sa che il servizio di posizionamento offerto mira a far sì che, digitando un segno identico ad un marchio altrui come parola chiave quale termine di ricerca, vengono selezionati non solo i link che provengono dal titolare del marchio, ma anche quelli di altri inserzionisti”.

Conseguentemente, se il messaggio dell’annuncio non genera confusione sulla provenienza del prodotto e non sfrutta l’altrui reputazione commerciale, né impedisce, in questo modo, l’acquisizione e la fidelizzazione della clientela da parte dell’azienda titolare del marchio, all’utente informato di Internet appare immediatamente evidente che il link sponsorizzato offre un prodotto alternativo a quello commercializzato dal titolare del marchio.

Tale pratica, secondo il Collegio giudicante, soddisfa un interesse pro-concorrenziale, in quanto offre all’utilizzatore di Internet “un panorama completo delle offerte di prodotti o servizi analoghi”.

Nel caso in oggetto, la condotta della convenuta non solo non costituirebbe violazione del marchio ma, in virtù delle riportate motivazioni, non integrerebbe una condotta illecita ex articolo 2598 del Codice Civile. Al contrario, risulterebbe meritevole di apprezzamento in quanto idonea a soddisfare un interesse pro-concorrenziale, fondamentale nel libero mercato. Il Tribunale di Milano ha, per questi motivi, rigettato la domanda attorea, compensando tra le parti le spese di lite.

La sentenza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza della imprese.

(Tribunale di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sentenza 1 luglio 2015, n. 8150)

Il Tribunale di Milano ha stabilito che l’uso del termine costituente un marchio di un’impresa come parola-chiave per una migliore visibilità in rete da parte di concorrenti commerciali non costituisce di per sé violazione del marchio stesso, né concorrenza sleale.

Nel caso in esame, una società agiva in giudizio nei confronti di una società concorrente per l’accertamento della violazione dei diritti di marchio di cui all’articolo 20 del Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (“Codice della proprietà industriale”), avendo quest’ultima utilizzato il marchio come metatag del sito internet e come key word nell’ambito del servizio AdWords di Google, nonché per concorrenza sleale ex articolo 2598 nn. 1, 2 e 3 del Codice Civile, con conseguente domanda di risarcimento del danno, quantificato per un importo pari a euro 820.000,00.

Costituitasi in giudizio, la convenuta contestava di aver usato il marchio della controparte come metatag del proprio sito internet, trattandosi di sistema di indicizzazione dei contenuti della rete ampiamente superato, a fronte dell’algoritmo PageRank che privilegia nella collocazione i siti più “linkati, ma non negava di aver utilizzato il marchio come key word nell’ambito del servizio di advertising di Google, al fine di far visualizzare il proprio annuncio al fruitore della rete che avesse digitato sulla tastiera tale termine.

Esclusa la legittimazione passiva e ogni responsabilità del gestore del motore di ricerca in ordine a qualsiasi pretesa di violazione del marchio, per il fatto che il prestatore del servizio non fa un uso del marchio ma, diversamente, permette ad altri di usarlo come parola-chiave (sentenza 23/3/10 in C-236/08 e C-238/08, Google France, CGUE), il giudice ha valutato nel merito la fondatezza della domanda attorea, richiamando un’ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia.

In particolare, ha ritenuto che “il titolare del marchio non può opporsi all’uso quale parola chiave di un segno identico al suo marchio qualora non ricorrano tutte le condizioni previste a tal fine dagli artt. 5 della direttiva 89/104 e 9 del regolamento n. 40/94, nonché dalla giurisprudenza pertinente, vale a dire se l’uso stesso possa compromettere una delle funzioni del marchio. La Corte [di Giustizia] ha da ciò ricavato che l’esercizio del diritto esclusivo conferito dal marchio deve essere riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto, oppure di una delle altre funzioni di quest’ultimo, quali quelle consistenti nel garantire la qualità di detto prodotto o servizio, oppure di comunicazione, investimento o pubblicità”.

Centrale è, altresì, il concetto di utente informato di Internet.

Quest’ultimo scrive in motivazione il giudice di merito è un soggetto che ben conosce l’esistenza del sistema di pubblicità a pagamento ADWords e sa che il servizio di posizionamento offerto mira a far sì che, digitando un segno identico ad un marchio altrui come parola chiave quale termine di ricerca, vengono selezionati non solo i link che provengono dal titolare del marchio, ma anche quelli di altri inserzionisti”.

Conseguentemente, se il messaggio dell’annuncio non genera confusione sulla provenienza del prodotto e non sfrutta l’altrui reputazione commerciale, né impedisce, in questo modo, l’acquisizione e la fidelizzazione della clientela da parte dell’azienda titolare del marchio, all’utente informato di Internet appare immediatamente evidente che il link sponsorizzato offre un prodotto alternativo a quello commercializzato dal titolare del marchio.

Tale pratica, secondo il Collegio giudicante, soddisfa un interesse pro-concorrenziale, in quanto offre all’utilizzatore di Internet “un panorama completo delle offerte di prodotti o servizi analoghi”.

Nel caso in oggetto, la condotta della convenuta non solo non costituirebbe violazione del marchio ma, in virtù delle riportate motivazioni, non integrerebbe una condotta illecita ex articolo 2598 del Codice Civile. Al contrario, risulterebbe meritevole di apprezzamento in quanto idonea a soddisfare un interesse pro-concorrenziale, fondamentale nel libero mercato. Il Tribunale di Milano ha, per questi motivi, rigettato la domanda attorea, compensando tra le parti le spese di lite.

La sentenza è integralmente consultabile sulla Rivista Giurisprudenza della imprese.

(Tribunale di Milano - Sezione specializzata in materia di impresa, Sentenza 1 luglio 2015, n. 8150)