x

x

Non essere social al tempo dei social

Social network
Social network

Non essere social al tempo dei social

Era il novembre del 2018 allorché Riccardo Luna pubblicava il seguente articolo: “Il capo del digitale italiano non ha profili social, ma è una buona notizia”, che – lo ammetto – mi inorgoglì parecchio, tenuto anche conto della caratura dell’autore.

Insomma, rappresentavo il profilo professionale di un manager informatico con una provenienza propriamente tecnica, che decideva deliberatamente di non avere profili personali sui social media, che invece, ad oggi, simboleggiano inequivocabilmente una delle massime espressioni della trasformazione digitale della civiltà contemporanea. Ovviamente, questo fatto risultava incomprensibile ai più.

Nel confermare quanto scritto allora da Riccardo – specifico che considero quell’articolo parte integrante di questo – sottolineo che non ho mai cambiato idea e che quindi non ho mai debuttato sui social media con profili personali, né ho pianificato di farlo a breve.

Rispetto all’analisi svolta da Riccardo Luna sul sito di Agi voglio però aggiungere qualche ulteriore riflessione.

Desidero, anzitutto, premettere che non ritengo affatto inutili i social media e che non nutro alcuna avversione aprioristica di carattere personale nei confronti di tutto quel vasto gruppo di applicazioni che consentono la creazione e la condivisione di contenuti sul Web: Facebook, Instagram, X (ex Twitter), LinkedIn, Pinterest, TikTok, eccetera eccetera. Ne comprendo la potenza, le enormi opportunità – o, quantomeno, mi sforzo di farlo –, ma anche i potenziali, elevatissimi rischi, direttamente proporzionali alle opportunità. Comunque, osservo l’universo social media da lontano con discrezione e rispetto. Tra l’altro, le mie attività lavorative e il mio ruolo di genitore non mi consentirebbero davvero di ignorarli.

La mia è stata, fin da subito, una precisa scelta di tipo personale. Figurarsi che non appaio neppure su LinkedIn: tenuto conto del mio profilo professionale, ritengo di essere una vera e propria anomalia. Si tratta, quindi, di una scelta consapevolmente radicale.

Ho sempre ritenuto che le attività legate alla propria professione si debbano espletare con la diligenza propria del buon padre di famiglia, dedicando ad esse il giusto impegno, tempo e passione, altrimenti è preferibile non fare nulla. Gestire adeguatamente i profili sui social media è lavoro decisamente complesso, estremamente time consuming, e che necessita di specifiche competenze; ho sempre ritenuto che ciò non si conciliasse al meglio con il mio profilo di civil servant. Sebbene sia un maniaco della delega, soprattutto nel corso della mia permanenza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, avrei potuto delegare l’attività ad un Social Media Manager, ma non l’ho fatto. Vediamo nello specifico quali sono state le motivazioni:

  • Anzitutto, non reputavo eticamente corretto utilizzare le risorse pubbliche per gestire la mia immagine, la mia reputazione e il mio consenso;
  • Francamente, non sono mai stato interessato a questo tipo di immagine, reputazione e consenso;
  • Ho spesso ritenuto, e talvolta verificato con mano, che diversi politici – o pseudo tecnici tangenziali alla politica –, anche quando assegnatari di importanti incarichi pubblici, ritenessero la gestione dei social media – e del consenso da questi derivante – il loro lavoro principale, con impatti devastanti per la “Res publica”. I dipendenti pubblici, a mio avviso, vengono pagati dalla collettività per altri scopi.

Ritengo utile sottolineare che non scrivo queste mie righe allo scopo di consigliare di intraprendere il mio stesso percorso radicale: non è certo in questo modo che si risolve la questione “social media”, se così vogliamo chiamarla.

Alcuni recenti fatti di cronaca – sempre più numerosi, ma anche meno recenti –, direttamente collegati ad un utilizzo mal gestito dei social media fanno venire letteralmente i brividi. Non credo ci sia bisogno di fare esempi, così come non mi sembra il caso di fare commenti su casi specifici, ma, di fatto, per molte persone la vita si è quasi completamente trasferita su queste piattaforme ed è quindi ineludibile interrogarsi, dal punto di vista educativo e sociologico, sul tema complessivo, anche perché – come già detto in altre occasioni – non è possibile arginare un’inondazione con il solo uso delle mani.

Nella scuola italiana contesto da anni l’assenza dell’insegnamento dell’informatica e dell’educazione alla cittadinanza digitale. In considerazione dell’elevato numero di ore che la gran parte degli adolescenti passa sulle piattaforme social, il tema della gestione del rapporto con questi media e della ricerca di fonti informative affidabili non può non rientrare in questo filone. Certo è che, se non riusciamo a reperire – forse perché non li cerchiamo? – docenti specifici che insegnino le basi della programmazione, figuriamoci quando, e se, saremo mai in grado di porci il problema di identificare delle specifiche professionalità ibride in grado di supportare i ragazzi a districarsi in questo universo social estremamente complesso.

L’essere umano va da un estremo all’altro: è capace di grande umanità, di gesti di altruismo e di straordinaria generosità, ma anche delle bassezze più malvagie. Tutto ciò ha sempre caratterizzato la storia di questo nostro pianeta. E, manco a dirlo, proprio sui social media spesso emergono gli istinti più primitivi dell’essere umano, per lo più favoriti dall’anonimato che stimola il rilascio dei propri freni inibitori; che incoraggia la comunicazione anche in quei soggetti vittime delle proprie frustrazioni e paranoie, i quali, convinti di questo presunto anonimato, da dietro lo schermo e la tastiera pensano di avere il diritto di calpestare tutto e tutti. Come sempre il Web genera opportunità e rischi: tante persone sono riuscite ad uscire positivamente, piano piano, dal proprio guscio arrivando finalmente ad esprimere le proprie potenzialità; altre hanno concretizzato il loro odio – non a caso vengono chiamati “hater” – in azioni malvagie atte a provocare solo l’altrui dolore.

Chi fosse abituato a leggere i miei editoriali si potrebbe essere sorpreso della totale assenza di ironia e battutine sarcastiche. E dire che solo parlando della “mia immagine social” ci avrei potuto sguazzare a mani basse con facilità. Tuttavia, ritengo che la questione trattata in questo mio articolo sia estremamente seria ed esiga da parte mia il mantenere un profilo più compassato, quasi austero. I social media rappresentano un tema in cui la linea sottile tra il considerarlo argomento leggero, frivolo e, in certi casi, solo appannaggio dei più giovani, rischia di farne sottovalutare la portata e gli effetti. Un differente stile nel mio solito modo di scrivere anche come forma di rispetto per le numerosissime vittime quotidiane dei social media: non mi riferisco solo ai casi eclatanti che assurgono alla ribalta delle cronache, ma anche ai tanti “casi” anonimi; persone che avrebbero potuto essere aiutate almeno in parte, o forse salvate del tutto, se solo la società – intesa nella sua globalità – fosse riuscita ad affrontare la questione “social media” con maggior impegno e determinazione. Impegno e determinazione che, ad oggi, purtroppo ancora non ci sono.