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Opposizione agli atti esecutivi. Danno da lite temeraria e diritto al risarcimento del danno

1. Il caso. La Società Y S.p.a., con ricorso del 22.09.2010 proposto dinnanzi al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma, proponeva opposizione avverso la procedura esecutiva di pignoramento presso terzi proposta in suo danno da X,  creditore della suddetta Società, chiedendo all'autorità giudiziaria adita, previa sospensione dell’esecuzione ex articolo 481, comma 2 c.p.c., la dichiarazione di nullità, inefficacia o inesistenza dell’atto di pignoramento presso terzi.

Con ordinanza del 29.03.2011, il Giudice dell’esecuzione respingeva l’istanza di sospensione dell’esecuzione, chiudendo la fase interinale ex articolo 624 c.p.c., introdotta dalla debitrice, assegnando la somma pignorata all'opposto/creditore procedente.

Successivamente, con atto di citazione del 26.07.2011, era il creditore opposto X ad introdurre il facoltativo giudizio di merito (da cui trae spunto il presente commento) e chiedeva, oltre alla dichiarazione di inammissibilità e/o infondatezza dei motivi addotti dalla società opponente a supporto dell’opposizione, anche la condanna della stessa al risarcimento del danno ex articolo 96, comma 3 c.p.c., nella misura di euro 1.000,00, ovvero in quella diversa misura ritenuta di giustizia.

In particolare, il creditore opposto rilevava che la palese e manifesta inammissibilità dell’avversa opposizione all'esecuzione perseguisse finalità dilatorie e strumentali, costituendo ciò un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c., mirante esclusivamente a provocare un ingiustificato utilizzo dello strumento dell’opposizione  alla procedura esecutiva.

Per tali ragioni, l’istante, rinvenendo il fondamento di siffatta forma di responsabilità nell'atteggiamento evidentemente colposo della società opponente, costituito dalla plateale inammissibilità ed infondatezza dei motivi di opposizione, formulava domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 96, comma 3 c.p.c..

A tale prospettazione si opponeva la Società Y, la quale, costituendosi nell'ambito del giudizio di merito, chiedeva il rigetto della suddetta domanda, lamentando, da una parte, il mancato assolvimento da parte dell’attore dell’onere probatorio relativo all'avanzata richiesta risarcitoria e, dall’altra, eccependo l’infondatezza della domanda per lite temeraria azionata.

2. La decisione del Tribunale di Roma.  Il Tribunale ha ritenuto che il rigetto di un’opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 per inammissibilità e palese infondatezza dei motivi sollevati all'ambito esecutivo (poiché attinenti al merito della controversia presupposta all'azione esecutiva), costituisce un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c.. Ne discende, quindi, la sussistenza del diritto dell’attore al risarcimento del danno non patrimoniale, nella misura equitativamente determinata dal Giudice in via officiosa - peraltro esattamente coincidente all'ammontare richiesto dall'attore - nei termini di cui alla disposizione del codice di rito sopra citata (così come novellata dalla Legge 69/2009).

***

L’articolo 96, comma 3 c.p.c. dispone che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il Giudice anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Tale norma è stata introdotta nel codice di rito dalla Legge 69/2009 e ha recepito ed esteso a tutti i procedimenti il meccanismo di ripartizione delle spese processuali previsto originariamente esclusivamente per il processo di cassazione ex articolo 385, comma 4 c.p.c., ora definitivamente abrogato, il quale prevedeva anch'esso la facoltà del Giudice nel giudizio di cassazione di disporre, anche d’ufficio, la condanna della parte soccombente, che avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito con colpa grave, al pagamento in favore della controparte di una somma determinata equitativamente, non superiore al doppio dei massimi tariffari.

La generale applicabilità di tale disposizione è confermata dal pacifico assunto secondo il quale, sebbene la norma si riferisca alla “sentenza”, l’articolo 96, comma 3 sia applicabile a tutti i procedimenti in cui si pronunci sulle spese di lite.

La novella succitata ha, pertanto, introdotto la possibilità per il Giudice di pronunciarsi anche d’ufficio, consentendogli di procedere alla determinazione dell’importo in via equitativa, differentemente da quanto accadeva ex articolo 385, comma 4 c.p.c. ora abrogato.

Sul punto, la giurisprudenza di merito (in particolare Tribunale di Piacenza 07 dicembre 2010), dopo aver precisato che, in linea con quanto sostenuto da autorevole dottrina, la pronuncia resa ex articolo 96, comma 3, C.P.C., non abbisogna della previa instaurazione del contraddittorio ex articolo 101 C.P.C., essendo un posterius logico della decisione di merito, ha evidenziato che due sono le questioni controverse che tale disposizione di legge pone.

La principale questione che l’istituto pone riguarda la natura della responsabilità introdotta da siffatta disposizione: in particolare, si discute sulla natura risarcitoria ovvero sanzionatoria della stessa.

Il dibattito è posto sul punto relativo alla natura della condanna di cui al citato comma 3, in particolare, intorno alla natura risarcitoria della suddetta, necessitando, in tal caso, ai fini della sua pronuncia, dell’esistenza (e della relativa prova) di un danno della parte istante, nonché della sussistenza dell’elemento soggettivo, costituito dall'avere agito o resistito la parte soccombente con dolo o colpa grave, come sembrerebbe dalla mera lettura del comma 1 della medesima disposizione; oppure in ordine alla natura sanzionatoria, costituendo la relativa condanna, in tal caso, una vera e propria pena pecuniaria, riconducibile alla figura dei punitive o exemplary damages del diritto anglosassone e, pertanto, operi indipendentemente sia dalla domanda di parte sia dalla prova del danno causalmente derivato alla controparte.

Infatti, se, da un lato, è innegabile che la teoria del danno punitivo, conosciuta nell'ordinamento anglosassone, sia assolutamente estranea al nostro diritto civile, dall'altro è altrettanto innegabile che la struttura della norma non pare presupporre necessariamente l’esistenza di un danno; inoltre, come correttamente osservato dalla suddetta giurisprudenza di merito, non vi sono parametri costituzionali che vietino al legislatore di introdurre una siffatta tipologia di danno.

La giurisprudenza di legittimità, antecedente alla riscrittura della disposizione in esame (comma 3 dell’articolo 96) ha escluso il riconoscimento del danno punitivo nel nostro ordinamento, sostenendo che è sempre necessaria una corrispondenza tra il danno effettivamente subito (che va, dunque, provato) e l’ammontare del risarcimento, in quanto funzione della responsabilità civile è quella di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito il danno. Secondo tale ricostruzione, quindi, l’idea della sanzione è estranea alla responsabilità civile.

Per completezza, deve darsi atto che parte della dottrina, assestandosi su una posizione contrapposta, aveva screditato la bontà della suddetta tesi, proprio ponendo l’accento sulla previsione legislativa relativa alla responsabilità da lite temeraria.

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, nella Sentenza 30 dicembre 1987, n. 651, rilevava che la responsabilità civile possa, in certi casi, assumere contemporaneamente compiti preventivi e sanzionatori.

Ponendosi sul solco segnato dalla suddetta pronuncia, sia la dottrina maggioritaria che la giurisprudenza ad oggi prevalente sostengono che la condanna ex articolo 96, comma 3 c.p.c. abbia sia funzione sanzionatoria che risarcitoria e sia riconducibile alla figura dei punitive damages del diritto anglosassone.

La previsione di una siffatta tipologia di danno, quindi,  è volta a scoraggiar l’abuso del processo ed è, altresì, finalizzata a preservare la funzionalità del Sistema Giustizia, deflazionando il contenzioso ingiustificato (così: Tribunale dei Minori di Milano,  decisione 4 marzo 2011; Tribunale di Varese,  6 febbraio 2001 e  22 gennaio 2011, sezione distaccata di Luino,  ordinanze 23 gennaio 2010 e 30 ottobre 2009; Tribunale di Piacenza 7 dicembre 2010 e ordinanza 22 novembre 2010; Tribunale di Rovigo, sezione distaccata di Adria, 7 dicembre 2010; Tribunale di Verona, ordinanza 1 ottobre 2010, 20 settembre 2010, ordinanza 1 luglio 2010; Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, 9 dicembre 2010; Tribunale di Roma, 11 gennaio 2010; Tribunale di Prato 6 novembre 2009. In questi termini anche Cassazione n. 17902/2010).

Di conseguenza, con la nuova formulazione, ad oggi, risulta esclusa la necessità di una prova del danno di controparte, pur se la condanna è stata comunque prevista a favore della parte e non dello Stato.

Ciononostante, se, da un lato, la giurisprudenza ha ritenuto pacificamente che, ai fini della condanna ex articolo 96, comma 3 c.p.c., si prescinda dalla prova relativa al danno subito dalla parte vittoriosa e,  in ordine al presupposto soggettivo costituito dalla mala fede o colpa grave nell’agire o resistere in giudizio, la stessa giurisprudenza, ha preferito seguire la tesi più garantista, postulando la necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo costituito dalla male fede o colpa grave (e non già della mera soccombenza o della colpa lieve).

Nello specifico, la funzione sanzionatoria risulta, comunque, dalla astratta officiosità della condanna e dal fatto che possa essere pronunciata pur in assenza di prova del danno.

Viceversa, la funzione risarcitoria sarà perseguita agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio, pur presunto, subito dalla parte vittoriosa (per lo più parametrando l’indennizzo in relazione alla durata concreta del processo secondo i criteri adottati in sede di liquidazione ex Legge Pinto).

Il Tribunale di Roma, come si rileva dalla Sentenza in commento, aderisce all'opinamento sopra indicato, giacché, previa qualificazione dell’opposizione proposta dalla società opponente quale opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 c.p.c., ne dichiara l’inammissibilità e condanna la Società Y ai sensi dell’articolo 96, comma 3 c.p.c., al risarcimento del danno in favore dell’opposto, proprio in virtù della responsabilità processuale aggravata della società opponente, sanzionandone la condotta processuale.

Concludendo, il principio di diritto espresso dalla Sentenza in commento può essere sintetizzato nei seguenti termini: “laddove le domande, formulate in sede di opposizione ex articolo 615 c.p.c., siano volte a provocare un riesame del titolo esecutivo di formazione giudiziale (di cui denunziano i difetti) sono inammissibili; sono parimenti inammissibili le domande formulate ex articolo 617 c.p.c. e volte a denunciare presunti vizi dell’atto di pignoramento del precetto e della procura alle liti, in quanto formulate tardivamente, ovvero oltre il termine di venti giorni stabilito a pena di decadenza”.

Pertanto, “alla luce del chiaro disposto dell’articolo 96, comma 3 c.p.c. sussiste il diritto dell’attore al pagamento di una somma che, equitativamente, viene determinata in euro 1.000,00, stante la palese inammisibilità (per evidente tardività o perché riservate al Giudice del merito) delle domande proposte dall’opponente”. 1. Il caso. La Società Y S.p.a., con ricorso del 22.09.2010 proposto dinnanzi al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma, proponeva opposizione avverso la procedura esecutiva di pignoramento presso terzi proposta in suo danno da X,  creditore della suddetta Società, chiedendo all'autorità giudiziaria adita, previa sospensione dell’esecuzione ex articolo 481, comma 2 c.p.c., la dichiarazione di nullità, inefficacia o inesistenza dell’atto di pignoramento presso terzi.

Con ordinanza del 29.03.2011, il Giudice dell’esecuzione respingeva l’istanza di sospensione dell’esecuzione, chiudendo la fase interinale ex articolo 624 c.p.c., introdotta dalla debitrice, assegnando la somma pignorata all'opposto/creditore procedente.

Successivamente, con atto di citazione del 26.07.2011, era il creditore opposto X ad introdurre il facoltativo giudizio di merito (da cui trae spunto il presente commento) e chiedeva, oltre alla dichiarazione di inammissibilità e/o infondatezza dei motivi addotti dalla società opponente a supporto dell’opposizione, anche la condanna della stessa al risarcimento del danno ex articolo 96, comma 3 c.p.c., nella misura di euro 1.000,00, ovvero in quella diversa misura ritenuta di giustizia.

In particolare, il creditore opposto rilevava che la palese e manifesta inammissibilità dell’avversa opposizione all'esecuzione perseguisse finalità dilatorie e strumentali, costituendo ciò un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c., mirante esclusivamente a provocare un ingiustificato utilizzo dello strumento dell’opposizione  alla procedura esecutiva.

Per tali ragioni, l’istante, rinvenendo il fondamento di siffatta forma di responsabilità nell'atteggiamento evidentemente colposo della società opponente, costituito dalla plateale inammissibilità ed infondatezza dei motivi di opposizione, formulava domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 96, comma 3 c.p.c..

A tale prospettazione si opponeva la Società Y, la quale, costituendosi nell'ambito del giudizio di merito, chiedeva il rigetto della suddetta domanda, lamentando, da una parte, il mancato assolvimento da parte dell’attore dell’onere probatorio relativo all'avanzata richiesta risarcitoria e, dall’altra, eccependo l’infondatezza della domanda per lite temeraria azionata.

2. La decisione del Tribunale di Roma.  Il Tribunale ha ritenuto che il rigetto di un’opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 per inammissibilità e palese infondatezza dei motivi sollevati all'ambito esecutivo (poiché attinenti al merito della controversia presupposta all'azione esecutiva), costituisce un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c.. Ne discende, quindi, la sussistenza del diritto dell’attore al risarcimento del danno non patrimoniale, nella misura equitativamente determinata dal Giudice in via officiosa - peraltro esattamente coincidente all'ammontare richiesto dall'attore - nei termini di cui alla disposizione del codice di rito sopra citata (così come novellata dalla Legge 69/2009).

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L’articolo 96, comma 3 c.p.c. dispone che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il Giudice anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Tale norma è stata introdotta nel codice di rito dalla Legge 69/2009 e ha recepito ed esteso a tutti i procedimenti il meccanismo di ripartizione delle spese processuali previsto originariamente esclusivamente per il processo di cassazione ex articolo 385, comma 4 c.p.c., ora definitivamente abrogato, il quale prevedeva anch'esso la facoltà del Giudice nel giudizio di cassazione di disporre, anche d’ufficio, la condanna della parte soccombente, che avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito con colpa grave, al pagamento in favore della controparte di una somma determinata equitativamente, non superiore al doppio dei massimi tariffari.

La generale applicabilità di tale disposizione è confermata dal pacifico assunto secondo il quale, sebbene la norma si riferisca alla “sentenza”, l’articolo 96, comma 3 sia applicabile a tutti i procedimenti in cui si pronunci sulle spese di lite.

La novella succitata ha, pertanto, introdotto la possibilità per il Giudice di pronunciarsi anche d’ufficio, consentendogli di procedere alla determinazione dell’importo in via equitativa, differentemente da quanto accadeva ex articolo 385, comma 4 c.p.c. ora abrogato.

Sul punto, la giurisprudenza di merito (in particolare Tribunale di Piacenza 07 dicembre 2010), dopo aver precisato che, in linea con quanto sostenuto da autorevole dottrina, la pronuncia resa ex articolo 96, comma 3, C.P.C., non abbisogna della previa instaurazione del contraddittorio ex articolo 101 C.P.C., essendo un posterius logico della decisione di merito, ha evidenziato che due sono le questioni controverse che tale disposizione di legge pone.

La principale questione che l’istituto pone riguarda la natura della responsabilità introdotta da siffatta disposizione: in particolare, si discute sulla natura risarcitoria ovvero sanzionatoria della stessa.

Il dibattito è posto sul punto relativo alla natura della condanna di cui al citato comma 3, in particolare, intorno alla natura risarcitoria della suddetta, necessitando, in tal caso, ai fini della sua pronuncia, dell’esistenza (e della relativa prova) di un danno della parte istante, nonché della sussistenza dell’elemento soggettivo, costituito dall'avere agito o resistito la parte soccombente con dolo o colpa grave, come sembrerebbe dalla mera lettura del comma 1 della medesima disposizione; oppure in ordine alla natura sanzionatoria, costituendo la relativa condanna, in tal caso, una vera e propria pena pecuniaria, riconducibile alla figura dei punitive o exemplary damages del diritto anglosassone e, pertanto, operi indipendentemente sia dalla domanda di parte sia dalla prova del danno causalmente derivato alla controparte.

Infatti, se, da un lato, è innegabile che la teoria del danno punitivo, conosciuta nell'ordinamento anglosassone, sia assolutamente estranea al nostro diritto civile, dall'altro è altrettanto innegabile che la struttura della norma non pare presupporre necessariamente l’esistenza di un danno; inoltre, come correttamente osservato dalla suddetta giurisprudenza di merito, non vi sono parametri costituzionali che vietino al legislatore di introdurre una siffatta tipologia di danno.

La giurisprudenza di legittimità, antecedente alla riscrittura della disposizione in esame (comma 3 dell’articolo 96) ha escluso il riconoscimento del danno punitivo nel nostro ordinamento, sostenendo che è sempre necessaria una corrispondenza tra il danno effettivamente subito (che va, dunque, provato) e l’ammontare del risarcimento, in quanto funzione della responsabilità civile è quella di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito il danno. Secondo tale ricostruzione, quindi, l’idea della sanzione è estranea alla responsabilità civile.

Per completezza, deve darsi atto che parte della dottrina, assestandosi su una posizione contrapposta, aveva screditato la bontà della suddetta tesi, proprio ponendo l’accento sulla previsione legislativa relativa alla responsabilità da lite temeraria.

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, nella Sentenza 30 dicembre 1987, n. 651, rilevava che la responsabilità civile possa, in certi casi, assumere contemporaneamente compiti preventivi e sanzionatori.

. Il caso. La Società Y S.p.a., con ricorso del 22.09.2010 proposto dinnanzi al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma, proponeva opposizione avverso la procedura esecutiva di pignoramento presso terzi proposta in suo danno da X,  creditore della suddetta Società, chiedendo all'autorità giudiziaria adita, previa sospensione dell’esecuzione ex articolo 481, comma 2 c.p.c., la dichiarazione di nullità, inefficacia o inesistenza dell’atto di pignoramento presso terzi.

Con ordinanza del 29.03.2011, il Giudice dell’esecuzione respingeva l’istanza di sospensione dell’esecuzione, chiudendo la fase interinale ex articolo 624 c.p.c., introdotta dalla debitrice, assegnando la somma pignorata all'opposto/creditore procedente.

Successivamente, con atto di citazione del 26.07.2011, era il creditore opposto X ad introdurre il facoltativo giudizio di merito (da cui trae spunto il presente commento) e chiedeva, oltre alla dichiarazione di inammissibilità e/o infondatezza dei motivi addotti dalla società opponente a supporto dell’opposizione, anche la condanna della stessa al risarcimento del danno ex articolo 96, comma 3 c.p.c., nella misura di euro 1.000,00, ovvero in quella diversa misura ritenuta di giustizia.

In particolare, il creditore opposto rilevava che la palese e manifesta inammissibilità dell’avversa opposizione all'esecuzione perseguisse finalità dilatorie e strumentali, costituendo ciò un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c., mirante esclusivamente a provocare un ingiustificato utilizzo dello strumento dell’opposizione  alla procedura esecutiva.

Per tali ragioni, l’istante, rinvenendo il fondamento di siffatta forma di responsabilità nell'atteggiamento evidentemente colposo della società opponente, costituito dalla plateale inammissibilità ed infondatezza dei motivi di opposizione, formulava domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 96, comma 3 c.p.c..

A tale prospettazione si opponeva la Società Y, la quale, costituendosi nell'ambito del giudizio di merito, chiedeva il rigetto della suddetta domanda, lamentando, da una parte, il mancato assolvimento da parte dell’attore dell’onere probatorio relativo all'avanzata richiesta risarcitoria e, dall’altra, eccependo l’infondatezza della domanda per lite temeraria azionata.

2. La decisione del Tribunale di Roma.  Il Tribunale ha ritenuto che il rigetto di un’opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 per inammissibilità e palese infondatezza dei motivi sollevati all'ambito esecutivo (poiché attinenti al merito della controversia presupposta all'azione esecutiva), costituisce un’ipotesi di responsabilità processuale aggravata ex articolo 96, comma 3 c.p.c.. Ne discende, quindi, la sussistenza del diritto dell’attore al risarcimento del danno non patrimoniale, nella misura equitativamente determinata dal Giudice in via officiosa - peraltro esattamente coincidente all'ammontare richiesto dall'attore - nei termini di cui alla disposizione del codice di rito sopra citata (così come novellata dalla Legge 69/2009).

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L’articolo 96, comma 3 c.p.c. dispone che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il Giudice anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Tale norma è stata introdotta nel codice di rito dalla Legge 69/2009 e ha recepito ed esteso a tutti i procedimenti il meccanismo di ripartizione delle spese processuali previsto originariamente esclusivamente per il processo di cassazione ex articolo 385, comma 4 c.p.c., ora definitivamente abrogato, il quale prevedeva anch'esso la facoltà del Giudice nel giudizio di cassazione di disporre, anche d’ufficio, la condanna della parte soccombente, che avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito con colpa grave, al pagamento in favore della controparte di una somma determinata equitativamente, non superiore al doppio dei massimi tariffari.

La generale applicabilità di tale disposizione è confermata dal pacifico assunto secondo il quale, sebbene la norma si riferisca alla “sentenza”, l’articolo 96, comma 3 sia applicabile a tutti i procedimenti in cui si pronunci sulle spese di lite.

La novella succitata ha, pertanto, introdotto la possibilità per il Giudice di pronunciarsi anche d’ufficio, consentendogli di procedere alla determinazione dell’importo in via equitativa, differentemente da quanto accadeva ex articolo 385, comma 4 c.p.c. ora abrogato.

Sul punto, la giurisprudenza di merito (in particolare Tribunale di Piacenza 07 dicembre 2010), dopo aver precisato che, in linea con quanto sostenuto da autorevole dottrina, la pronuncia resa ex articolo 96, comma 3, C.P.C., non abbisogna della previa instaurazione del contraddittorio ex articolo 101 C.P.C., essendo un posterius logico della decisione di merito, ha evidenziato che due sono le questioni controverse che tale disposizione di legge pone.

La principale questione che l’istituto pone riguarda la natura della responsabilità introdotta da siffatta disposizione: in particolare, si discute sulla natura risarcitoria ovvero sanzionatoria della stessa.

Il dibattito è posto sul punto relativo alla natura della condanna di cui al citato comma 3, in particolare, intorno alla natura risarcitoria della suddetta, necessitando, in tal caso, ai fini della sua pronuncia, dell’esistenza (e della relativa prova) di un danno della parte istante, nonché della sussistenza dell’elemento soggettivo, costituito dall'avere agito o resistito la parte soccombente con dolo o colpa grave, come sembrerebbe dalla mera lettura del comma 1 della medesima disposizione; oppure in ordine alla natura sanzionatoria, costituendo la relativa condanna, in tal caso, una vera e propria pena pecuniaria, riconducibile alla figura dei punitive o exemplary damages del diritto anglosassone e, pertanto, operi indipendentemente sia dalla domanda di parte sia dalla prova del danno causalmente derivato alla controparte.

Infatti, se, da un lato, è innegabile che la teoria del danno punitivo, conosciuta nell'ordinamento anglosassone, sia assolutamente estranea al nostro diritto civile, dall'altro è altrettanto innegabile che la struttura della norma non pare presupporre necessariamente l’esistenza di un danno; inoltre, come correttamente osservato dalla suddetta giurisprudenza di merito, non vi sono parametri costituzionali che vietino al legislatore di introdurre una siffatta tipologia di danno.

La giurisprudenza di legittimità, antecedente alla riscrittura della disposizione in esame (comma 3 dell’articolo 96) ha escluso il riconoscimento del danno punitivo nel nostro ordinamento, sostenendo che è sempre necessaria una corrispondenza tra il danno effettivamente subito (che va, dunque, provato) e l’ammontare del risarcimento, in quanto funzione della responsabilità civile è quella di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito il danno. Secondo tale ricostruzione, quindi, l’idea della sanzione è estranea alla responsabilità civile.

Per completezza, deve darsi atto che parte della dottrina, assestandosi su una posizione contrapposta, aveva screditato la bontà della suddetta tesi, proprio ponendo l’accento sulla previsione legislativa relativa alla responsabilità da lite temeraria.

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, nella Sentenza 30 dicembre 1987, n. 651, rilevava che la responsabilità civile possa, in certi casi, assumere contemporaneamente compiti preventivi e sanzionatori.

Ponendosi sul solco segnato dalla suddetta pronuncia, sia la dottrina maggioritaria che la giurisprudenza ad oggi prevalente sostengono che la condanna ex articolo 96, comma 3 c.p.c. abbia sia funzione sanzionatoria che risarcitoria e sia riconducibile alla figura dei punitive damages del diritto anglosassone.

La previsione di una siffatta tipologia di danno, quindi,  è volta a scoraggiar l’abuso del processo ed è, altresì, finalizzata a preservare la funzionalità del Sistema Giustizia, deflazionando il contenzioso ingiustificato (così: Tribunale dei Minori di Milano,  decisione 4 marzo 2011; Tribunale di Varese,  6 febbraio 2001 e  22 gennaio 2011, sezione distaccata di Luino,  ordinanze 23 gennaio 2010 e 30 ottobre 2009; Tribunale di Piacenza 7 dicembre 2010 e ordinanza 22 novembre 2010; Tribunale di Rovigo, sezione distaccata di Adria, 7 dicembre 2010; Tribunale di Verona, ordinanza 1 ottobre 2010, 20 settembre 2010, ordinanza 1 luglio 2010; Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, 9 dicembre 2010; Tribunale di Roma, 11 gennaio 2010; Tribunale di Prato 6 novembre 2009. In questi termini anche Cassazione n. 17902/2010).

Di conseguenza, con la nuova formulazione, ad oggi, risulta esclusa la necessità di una prova del danno di controparte, pur se la condanna è stata comunque prevista a favore della parte e non dello Stato.

Ciononostante, se, da un lato, la giurisprudenza ha ritenuto pacificamente che, ai fini della condanna ex articolo 96, comma 3 c.p.c., si prescinda dalla prova relativa al danno subito dalla parte vittoriosa e,  in ordine al presupposto soggettivo costituito dalla mala fede o colpa grave nell’agire o resistere in giudizio, la stessa giurisprudenza, ha preferito seguire la tesi più garantista, postulando la necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo costituito dalla male fede o colpa grave (e non già della mera soccombenza o della colpa lieve).

Nello specifico, la funzione sanzionatoria risulta, comunque, dalla astratta officiosità della condanna e dal fatto che possa essere pronunciata pur in assenza di prova del danno.

Viceversa, la funzione risarcitoria sarà perseguita agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio, pur presunto, subito dalla parte vittoriosa (per lo più parametrando l’indennizzo in relazione alla durata concreta del processo secondo i criteri adottati in sede di liquidazione ex Legge Pinto).

Il Tribunale di Roma, come si rileva dalla Sentenza in commento, aderisce all'opinamento sopra indicato, giacché, previa qualificazione dell’opposizione proposta dalla società opponente quale opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 c.p.c., ne dichiara l’inammissibilità e condanna la Società Y ai sensi dell’articolo 96, comma 3 c.p.c., al risarcimento del danno in favore dell’opposto, proprio in virtù della responsabilità processuale aggravata della società opponente, sanzionandone la condotta processuale.

Concludendo, il principio di diritto espresso dalla Sentenza in commento può essere sintetizzato nei seguenti termini: “laddove le domande, formulate in sede di opposizione ex articolo 615 c.p.c., siano volte a provocare un riesame del titolo esecutivo di formazione giudiziale (di cui denunziano i difetti) sono inammissibili; sono parimenti inammissibili le domande formulate ex articolo 617 c.p.c. e volte a denunciare presunti vizi dell’atto di pignoramento del precetto e della procura alle liti, in quanto formulate tardivamente, ovvero oltre il termine di venti giorni stabilito a pena di decadenza”.

Pertanto, “alla luce del chiaro disposto dell’articolo 96, comma 3 c.p.c. sussiste il diritto dell’attore al pagamento di una somma che, equitativamente, viene determinata in euro 1.000,00, stante la palese inammisibilità (per evidente tardività o perché riservate al Giudice del merito) delle domande proposte dall’opponente”.