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Piccola storia d’amore

Amore
Ph. Arbër Arapi / Amore

Piccola storia d’amore

Stava lì, in ginocchio, davanti al suo letto. Gli sembrava impossibile che lei, la donna della sua vita, l’amore della sua vita, si stesse lasciando andare. Come avrebbe fatto senza di lei?

Pensò a quegli ultimi trentasei anni.

Non le perdonava la sua costanza nel non mettere il sale, mai una volta che lo avesse accontentato, mai. Sempre tutto insipido. E sapeva bene quanto lui volesse le pietanze ben condite. Non le perdonava quei bronci “da montanara”, inspiegabili e inspiegati.

Quando lui era pronto alle tenerezze, lei non lo era e voleva farsi pregare, voleva essere cercata a lungo, un po’ vezzeggiata, prima di rispondergli con un sorriso e chissà, magari sfiorarlo con una carezza complice. 

Era sempre dannatamente incoerente, forse per principio o perché era semplicemente un bastian contrario; adorava farlo impazzire, lui e i suoi sillogismi così aderenti da toglierti la possibilità del contraddittorio. Lui voleva solo conferme, quelle che gli servivano per la vita, ma lei lo stuzzicava e fingeva di non volerne sapere.

Lui voleva riposare e lei voleva uscire. Però lui preparava la pizza nel grande forno a legna e si ricordava, ogni santa volta, di quella che piaceva a lei, bianca e ripiena di indivia. Lei lo sapeva che gliel’avrebbe fatta. D’altronde lei gli portava il caffè a letto. Un dono corrisposto finalmente.

Discutevano per le cose da fare, per le diverse priorità, per la siepe da tagliare. Se fosse dipeso da lei, avrebbero viaggiato di più e comodamente, ma lui voleva scarrozzarla con tutta la famiglia dove e come aveva fantasticato, con i suoi tempi e magari sorprenderla con deviazioni in borghi pieni di storia e bellezza.

Lei era dove lui era. Questa era l’unica cosa che contava.

Il resto era fiorito da quell’incontro sotto un cielo che mescolava sole e nubi, tempesta e brezza.

Ma, si sa, “l’abitudine è un potente isolante” e si erano dati un po’ per scontati, si erano guardati a lungo i difetti e avevano ripetuto meccanicamente le battute di un copione scritto e interpretato allo stesso modo per troppo tempo.

Poi, d’un tratto, anzi, in quel preciso tratto della sua vita, Camillo aveva inteso l’unicità misteriosa e profonda di quella unione come mai l’aveva compresa prima.

“Perché capiamo il valore di qualcuno solo quando stiamo per perderlo?” si chiese. Forse perché, come direbbe Cioran, “vivere è perdere terreno”.

Rimase lì in ginocchio tutte le sere, per trenta giorni unì in preghiera quelle grandi mani, capaci di far tutto, ma non di salvarla. Pregò Dio che gli desse l’opportunità di rivivere l’incontro con lei. Questo era tutto ciò di cui aveva veramente bisogno.

E Dio, felice, lo accontentò.