x

x

Prime applicazioni della riforma della filiazione: la contestata riconoscibilità dei figli nati da incesto

1. Le massime

L’intervento riformatore attuato con Legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha espunto dal testo dell’articolo 251 del Codice Civile ogni riferimento alla buona o mala fede dei genitori, stabilendo che il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.

L’articolo 251 del Codice Civile ha confermato la necessità dell’autorizzazione del giudice, salvaguardando esclusivamente all’interesse del figlio, ma ha anche riaffermato la competenza del Tribunale per i minorenni, in caso di “riconoscimento di persona minore di età”, con ciò chiarendo qualsivoglia dubbio interpretativo in ordine alla necessità di autorizzazione in ogni caso; l’autorizzazione, inoltre, deve necessariamente precedere il riconoscimento, atteso che la sua funzione, come anticipato, consiste nel verificare che il riconoscimento corrisponda all’interesse del figlio e che non si produca per lui un qualunque pregiudizio

2. Il caso: un contesto familiare estremamente degradato, connotato da abusi e violenze

In considerazione della modifica legislativa dell’articolo 251 del Codice Civile, introdotta con Legge 10 dicembre 2012, n. 219, Tizia chiedeva al Tribunale per i minorenni nisseno l’autorizzazione al riconoscimento della minore Tizietta. Ella, in particolare, premesso che la riforma ha ampliato la possibilità di riconoscimento del figlio nato dall’unione naturale di persone legate da vincolo di parentela in linea retta all’infinito, ha chiesto il riconoscimento della bambina, nata da relazione incestuosa con Caio, deducendo che il riconoscimento fosse conforme all’interesse della minore ad essere tutelata dal padre naturale, responsabile di abusi sulla madre.

Nell’interesse di Tizietta e degli altri due figli minori di Tizia, segnalati in quanto appartenenti ad un nucleo familiare estremamente problematico, pendeva un procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Risultava, infatti, che il nonno Caio, convivente, era stato arrestato per presunti abusi sessuali ai danni della figlia Tizia. Quest’ultima, dunque, aveva manifestato l’intenzione di lasciare l’abitazione paterna e di trovare un’autonoma occupazione al fine di provvedere al sostentamento suo e dei figli.

In considerazione delle gravi difficoltà personali di Tizia, ne veniva disposto il collocamento d’urgenza presso una casa di accoglienza in territorio nisseno. Temendo la scarcerazione del padre, ella chiedeva ed otteneva di lasciare il territorio della provincia, venendo così ospitata presso un’altra comunità.

Al momento della nascita, avvenuta nei primi mesi del 2004, Tizietta veniva riconosciuta solo da Caio, il quale dichiarava all’Ufficiale di stato civile che lui era padre naturale della bambina e che la madre di lei non voleva essere nominata.

Dagli atti, inoltre, risultava che Caio era stato ritenuto responsabile, con sentenza divenuta esecutiva, di violenza sessuale continuata ed aggravata in danno della figlia Tizia; con la sentenza, si era disposta la contestuale applicazione, nei confronti di Caio, della pena detentiva e della pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale. Nell’ambito dell’attività di indagine espletata, emergeva un contesto familiare di sistematica vessazione e veniva accertato che Tizietta, con una percentuale probabilistica prossima a cento, era figlia biologica dell’unione di Tizio e Caia. Era emerso, infine, che il timore di essere stigmatizzata socialmente e quello di perdere la cura dei figli, avevano indotto Tizia a tacere la sua maternità, lasciando che fosse soltanto Caio a dichiarare la nascita all’Ufficiale di stato civile.

3. La decisione: una ricognizione storica delle pertinenti norme e la salvaguardia del minore nato da genitori incestuosi

Il Tribunale per i minorenni evidenzia come, sotto il regime del previgente articolo 251 del Codice Civile, non fosse possibile procedere al riconoscimento dei figli incestuosi – cioè per i figli nati da genitori fra i quali esiste un vincolo di parentela, anche soltanto naturale in linea retta all’infinito e in linea collaterale nel secondo grado, oppure un vincolo di affinità in linea retta – in forza di un espresso divieto.

Detto divieto conosceva limitate eccezioni, se i genitori “al tempo del concepimento ignorassero il vincolo esistente tra di loro” o “sia stato dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l’affinità”.

Investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 278, primo comma, del Codice Civile, la Corte Costituzionale – nel 2002 – aveva denunciato la portata discriminante, per il minore frutto di simili unioni, della disciplina predetta.

La Consulta evidenziava che, ai danni della prole, derivava una vera e propria capitis deminutio perpetua ed irrimediabile, causata dal comportamento di terzi, al quale il figlio incestuoso era estraneo, in spregio del principio costituzionale di eguaglianza e pari dignità sociale, nonché con il divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali. La Corte Costituzionale aveva inteso evidenziare la preminenza dell’interesse del figlio al riconoscimento rispetto alla condizione soggettiva del genitore sotto il profilo della sua buona o mala fede.

La novella legislativa, attuata con la Legge n. 219/2012, ha espunto ogni riferimento alla buona o mala fede dei genitori, così consentendo il riconoscimento dei “figli incestuosi”, a prescindere dalla condizione soggettiva del genitore, purché ciò risponda all’interesse del figlio.

La novella, perciò, pure innovando sotto il profilo segnalato, ha confermato la necessità dell’autorizzazione in ogni caso, riaffermando la competenza del Tribunale per i minorenni per l’ipotesi di riconoscimento di figlio minore; se ne ricava che, laddove il riconoscimento dovesse riguardare una persona maggiorenne, l’autorizzazione, comunque necessaria, dovrebbe promanare dal Tribunale ordinario. Va, tuttavia, segnalato come in dottrina siano emersi dubbi circa la legittimità costituzionale della norma, ove fosse interpretata nel senso di configurare la necessità dell’autorizzazione giudiziaria anche per l’ipotesi di maggiorenne capace.

Argomentando dalla funzione dell’autorizzazione, poi, il Collegio nisseno evidenzia che l’autorizzazione deve necessariamente precedere il riconoscimento, che è quanto si evince – del resto – già dal tenore letterale dell’articolo 251, comma 1, del Codice Civile, ove si richiede la “previa autorizzazione del giudice”.

Tanto premesso, il Tribunale per i minorenni adito, ritiene sussistente l’interesse della minore al riconoscimento da parte della madre, con la quale quest’ultima aveva sempre vissuto. Il Tribunale ritiene che nessun pregiudizio le possa derivare da una simile autorizzazione, essendo, al contrario, opportuno che la bambina possa avere come riferimento genitoriale proprio la madre, la quale costituisce, da sempre, l’unica figura parentale – socialmente riconosciuta ed accreditata – per la minore.

Quella dei giudici nisseni all’esame è una delle prime pronunce su quello che la Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina (la così detta “Commissione Bianca”) aveva definito una disposizione “contestata”, proprio in ragione della sua delicatezza sul piano etico. Il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha doverosamente applicato la disposizione novellata, che amplia la riconoscibilità dei figli nati da parenti, salvo il previo accertamento del Tribunale che nessun pregiudizio ne derivi loro.

La modifica intervenuta è “improntata all’idea che il riconoscimento deve essere precluso, non in base alla condizione giuridica di irriconoscibilità del figlio, ma esclusivamente in base alla considerazione del suo interesse, e che pertanto la preclusione non ha ragion d’essere quando sia accertato che il riconoscimento è per lui favorevole” (così il testo della richiamata relazione conclusiva, p. 8). I giudici nisseni, tuttavia, si mostrano consapevoli della delicatezza dell’autorizzazione, “necessaria” e sempre “previa” rispetto al riconoscimento. Tanto è esattamente quanto la Commissione evidenziava, ritenendo “che l’autorizzazione giudiziale, prevista dalla formulazione del nuovo articolo 251 (come novellato dalla Legge n. 219/2012), richieda sempre particolare attenzione, onde evitare che il figlio possa subire comunque pregiudizio anche dalla stessa richiesta di riconoscimento” (così a p. 9).

I giudici nisseni, pur doverosamente conformandosi alla nuova disciplina, tuttavia, seguitano a riferirsi ai “figli incestuosi”, dizione espunta dall’epigrafe dell’articolo 251 del Codice Civile e già duramente riprovata dalla Consulta in quanto “compendio di una discriminazione”, seppure con riferimento alla condizione giuridica di irriconoscibilità, oggi venuta meno; sarebbe più opportuno parlare, al limite di “figli nati da incesto”, come risulta dal disposto dell’articolo 128, comma 4, del Codice Civile, a proposito degli effetti del matrimonio dichiarato nullo in dipendenza di incesto rispetto ai figli.

4. I precedenti

La Corte Costituzionale, con sentenza 28 novembre 2002, n. 494, richiamata nel decreto in commento, aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 278, comma 1, del Codice Civile, nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’articolo 251, comma 1, del Codice Civile, il riconoscimento dei figli incestuosi era vietato.

5. L’incesto nell’attuale normativa: oltre al giudizio di riprovazione sociale, permane un giudizio di disvalore giuridico

Conclusivamente, occorre sottolineare che la riforma in nulla ha mutato l’articolo 564 del Codice Penale, collocato nel titolo “Dei delitti contro la famiglia” e nel capo II “Dei delitti contro la morale famigliare”, a mente del quale “Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”, con aggravamento della pena da due a otto anni per il caso di “relazione incestuosa” (articolo 564, comma 2, Codice Penale).

Rimanendo sempre in ambito civilistico, inoltre, il divieto di celebrazione del matrimonio, previsto dall’articolo 87 del Codice Civile, è rimasto anch’esso inalterato.

Il legislatore, con l’articolo 1, comma 3, della Legge n. 219/2012, nel disciplinare la riconoscibilità del figlio “nato da incesto” (espressione – come già detto – da preferire a quella, eliminata dalla riforma, di “figlio incestuoso”, pure ancora adoperata nel provvedimento in commento), ha rimosso dal testo dell’articolo 251 del Codice Civile ogni riferimento alla buona o alla mala fede dei genitori.

Infine, si ribadisce una importante precisazione lessicale, alla luce della mutata sensibilità espressa dal legislatore: si può seguitare, alla luce della riforma, a parlare di “genitori incestuosi”, verso il cui atto o rapporto permane un giudizio di disvalore, sia sul piano giuridico sia su quello etico-sociale, dovendo tuttavia astenersi da alcun giudizio di riprovazione verso il figlio, che sarebbe improprio definire “incestuoso”, così facendo, si seguiterebbe ad assoggettarlo ad un giudizio di stigmatizzazione per un comportamento riprovevole non imputabile a lui.

1. Le massime

L’intervento riformatore attuato con Legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha espunto dal testo dell’articolo 251 del Codice Civile ogni riferimento alla buona o mala fede dei genitori, stabilendo che il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.

L’articolo 251 del Codice Civile ha confermato la necessità dell’autorizzazione del giudice, salvaguardando esclusivamente all’interesse del figlio, ma ha anche riaffermato la competenza del Tribunale per i minorenni, in caso di “riconoscimento di persona minore di età”, con ciò chiarendo qualsivoglia dubbio interpretativo in ordine alla necessità di autorizzazione in ogni caso; l’autorizzazione, inoltre, deve necessariamente precedere il riconoscimento, atteso che la sua funzione, come anticipato, consiste nel verificare che il riconoscimento corrisponda all’interesse del figlio e che non si produca per lui un qualunque pregiudizio

2. Il caso: un contesto familiare estremamente degradato, connotato da abusi e violenze

In considerazione della modifica legislativa dell’articolo 251 del Codice Civile, introdotta con Legge 10 dicembre 2012, n. 219, Tizia chiedeva al Tribunale per i minorenni nisseno l’autorizzazione al riconoscimento della minore Tizietta. Ella, in particolare, premesso che la riforma ha ampliato la possibilità di riconoscimento del figlio nato dall’unione naturale di persone legate da vincolo di parentela in linea retta all’infinito, ha chiesto il riconoscimento della bambina, nata da relazione incestuosa con Caio, deducendo che il riconoscimento fosse conforme all’interesse della minore ad essere tutelata dal padre naturale, responsabile di abusi sulla madre.

Nell’interesse di Tizietta e degli altri due figli minori di Tizia, segnalati in quanto appartenenti ad un nucleo familiare estremamente problematico, pendeva un procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Risultava, infatti, che il nonno Caio, convivente, era stato arrestato per presunti abusi sessuali ai danni della figlia Tizia. Quest’ultima, dunque, aveva manifestato l’intenzione di lasciare l’abitazione paterna e di trovare un’autonoma occupazione al fine di provvedere al sostentamento suo e dei figli.

In considerazione delle gravi difficoltà personali di Tizia, ne veniva disposto il collocamento d’urgenza presso una casa di accoglienza in territorio nisseno. Temendo la scarcerazione del padre, ella chiedeva ed otteneva di lasciare il territorio della provincia, venendo così ospitata presso un’altra comunità.

Al momento della nascita, avvenuta nei primi mesi del 2004, Tizietta veniva riconosciuta solo da Caio, il quale dichiarava all’Ufficiale di stato civile che lui era padre naturale della bambina e che la madre di lei non voleva essere nominata.

Dagli atti, inoltre, risultava che Caio era stato ritenuto responsabile, con sentenza divenuta esecutiva, di violenza sessuale continuata ed aggravata in danno della figlia Tizia; con la sentenza, si era disposta la contestuale applicazione, nei confronti di Caio, della pena detentiva e della pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale. Nell’ambito dell’attività di indagine espletata, emergeva un contesto familiare di sistematica vessazione e veniva accertato che Tizietta, con una percentuale probabilistica prossima a cento, era figlia biologica dell’unione di Tizio e Caia. Era emerso, infine, che il timore di essere stigmatizzata socialmente e quello di perdere la cura dei figli, avevano indotto Tizia a tacere la sua maternità, lasciando che fosse soltanto Caio a dichiarare la nascita all’Ufficiale di stato civile.

3. La decisione: una ricognizione storica delle pertinenti norme e la salvaguardia del minore nato da genitori incestuosi

Il Tribunale per i minorenni evidenzia come, sotto il regime del previgente articolo 251 del Codice Civile, non fosse possibile procedere al riconoscimento dei figli incestuosi – cioè per i figli nati da genitori fra i quali esiste un vincolo di parentela, anche soltanto naturale in linea retta all’infinito e in linea collaterale nel secondo grado, oppure un vincolo di affinità in linea retta – in forza di un espresso divieto.

Detto divieto conosceva limitate eccezioni, se i genitori “al tempo del concepimento ignorassero il vincolo esistente tra di loro” o “sia stato dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l’affinità”.

Investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 278, primo comma, del Codice Civile, la Corte Costituzionale – nel 2002 – aveva denunciato la portata discriminante, per il minore frutto di simili unioni, della disciplina predetta.

La Consulta evidenziava che, ai danni della prole, derivava una vera e propria capitis deminutio perpetua ed irrimediabile, causata dal comportamento di terzi, al quale il figlio incestuoso era estraneo, in spregio del principio costituzionale di eguaglianza e pari dignità sociale, nonché con il divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali. La Corte Costituzionale aveva inteso evidenziare la preminenza dell’interesse del figlio al riconoscimento rispetto alla condizione soggettiva del genitore sotto il profilo della sua buona o mala fede.

La novella legislativa, attuata con la Legge n. 219/2012, ha espunto ogni riferimento alla buona o mala fede dei genitori, così consentendo il riconoscimento dei “figli incestuosi”, a prescindere dalla condizione soggettiva del genitore, purché ciò risponda all’interesse del figlio.

La novella, perciò, pure innovando sotto il profilo segnalato, ha confermato la necessità dell’autorizzazione in ogni caso, riaffermando la competenza del Tribunale per i minorenni per l’ipotesi di riconoscimento di figlio minore; se ne ricava che, laddove il riconoscimento dovesse riguardare una persona maggiorenne, l’autorizzazione, comunque necessaria, dovrebbe promanare dal Tribunale ordinario. Va, tuttavia, segnalato come in dottrina siano emersi dubbi circa la legittimità costituzionale della norma, ove fosse interpretata nel senso di configurare la necessità dell’autorizzazione giudiziaria anche per l’ipotesi di maggiorenne capace.

Argomentando dalla funzione dell’autorizzazione, poi, il Collegio nisseno evidenzia che l’autorizzazione deve necessariamente precedere il riconoscimento, che è quanto si evince – del resto – già dal tenore letterale dell’articolo 251, comma 1, del Codice Civile, ove si richiede la “previa autorizzazione del giudice”.

Tanto premesso, il Tribunale per i minorenni adito, ritiene sussistente l’interesse della minore al riconoscimento da parte della madre, con la quale quest’ultima aveva sempre vissuto. Il Tribunale ritiene che nessun pregiudizio le possa derivare da una simile autorizzazione, essendo, al contrario, opportuno che la bambina possa avere come riferimento genitoriale proprio la madre, la quale costituisce, da sempre, l’unica figura parentale – socialmente riconosciuta ed accreditata – per la minore.

Quella dei giudici nisseni all’esame è una delle prime pronunce su quello che la Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina (la così detta “Commissione Bianca”) aveva definito una disposizione “contestata”, proprio in ragione della sua delicatezza sul piano etico. Il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha doverosamente applicato la disposizione novellata, che amplia la riconoscibilità dei figli nati da parenti, salvo il previo accertamento del Tribunale che nessun pregiudizio ne derivi loro.

La modifica intervenuta è “improntata all’idea che il riconoscimento deve essere precluso, non in base alla condizione giuridica di irriconoscibilità del figlio, ma esclusivamente in base alla considerazione del suo interesse, e che pertanto la preclusione non ha ragion d’essere quando sia accertato che il riconoscimento è per lui favorevole” (così il testo della richiamata relazione conclusiva, p. 8). I giudici nisseni, tuttavia, si mostrano consapevoli della delicatezza dell’autorizzazione, “necessaria” e sempre “previa” rispetto al riconoscimento. Tanto è esattamente quanto la Commissione evidenziava, ritenendo “che l’autorizzazione giudiziale, prevista dalla formulazione del nuovo articolo 251 (come novellato dalla Legge n. 219/2012), richieda sempre particolare attenzione, onde evitare che il figlio possa subire comunque pregiudizio anche dalla stessa richiesta di riconoscimento” (così a p. 9).

I giudici nisseni, pur doverosamente conformandosi alla nuova disciplina, tuttavia, seguitano a riferirsi ai “figli incestuosi”, dizione espunta dall’epigrafe dell’articolo 251 del Codice Civile e già duramente riprovata dalla Consulta in quanto “compendio di una discriminazione”, seppure con riferimento alla condizione giuridica di irriconoscibilità, oggi venuta meno; sarebbe più opportuno parlare, al limite di “figli nati da incesto”, come risulta dal disposto dell’articolo 128, comma 4, del Codice Civile, a proposito degli effetti del matrimonio dichiarato nullo in dipendenza di incesto rispetto ai figli.

4. I precedenti

La Corte Costituzionale, con sentenza 28 novembre 2002, n. 494, richiamata nel decreto in commento, aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 278, comma 1, del Codice Civile, nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’articolo 251, comma 1, del Codice Civile, il riconoscimento dei figli incestuosi era vietato.

5. L’incesto nell’attuale normativa: oltre al giudizio di riprovazione sociale, permane un giudizio di disvalore giuridico

Conclusivamente, occorre sottolineare che la riforma in nulla ha mutato l’articolo 564 del Codice Penale, collocato nel titolo “Dei delitti contro la famiglia” e nel capo II “Dei delitti contro la morale famigliare”, a mente del quale “Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”, con aggravamento della pena da due a otto anni per il caso di “relazione incestuosa” (articolo 564, comma 2, Codice Penale).

Rimanendo sempre in ambito civilistico, inoltre, il divieto di celebrazione del matrimonio, previsto dall’articolo 87 del Codice Civile, è rimasto anch’esso inalterato.

Il legislatore, con l’articolo 1, comma 3, della Legge n. 219/2012, nel disciplinare la riconoscibilità del figlio “nato da incesto” (espressione – come già detto – da preferire a quella, eliminata dalla riforma, di “figlio incestuoso”, pure ancora adoperata nel provvedimento in commento), ha rimosso dal testo dell’articolo 251 del Codice Civile ogni riferimento alla buona o alla mala fede dei genitori.

Infine, si ribadisce una importante precisazione lessicale, alla luce della mutata sensibilità espressa dal legislatore: si può seguitare, alla luce della riforma, a parlare di “genitori incestuosi”, verso il cui atto o rapporto permane un giudizio di disvalore, sia sul piano giuridico sia su quello etico-sociale, dovendo tuttavia astenersi da alcun giudizio di riprovazione verso il figlio, che sarebbe improprio definire “incestuoso”, così facendo, si seguiterebbe ad assoggettarlo ad un giudizio di stigmatizzazione per un comportamento riprovevole non imputabile a lui.