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Problematiche relative alla cessazione dell’assegnazione della casa familiare in comproprietà tra i coniugi

L’articolo 155 quater Codice Civile è la norma di riferimento per quanto riguarda l’assegnazione della casa familiare e la sua revoca. “Il godimento della casa familiare”, vi si legge, “è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”: se ne desume anzitutto che l’assegnazione non è più giustificata qualora la casa non sia più idonea a svolgere la funzione di tutela della prole [1]. Così, ad esempio, il giudice può revocare l’assegnazione dal momento in cui i figli abbiano raggiunto un’autonomia sufficiente da consentire loro un distacco non traumatico dall’ambiente familiare.

Alcune cause di estinzione del diritto vengono esplicitamente contemplate dalla norma in esame: sono la mancata utilizzazione della casa familiare da parte dell’assegnatario, l’instaurazione da parte di quest’ultimo di una relazione more uxorio e la contrazione di un nuovo matrimonio. In via interpretativa sono poi state individuate da dottrina e giurisprudenza altre ipotesi di estinzione, come la cessazione del prevalente bisogno in capo all’assegnatario, l’attribuzione del bene in proprietà esclusiva all’assegnatario in sede di divisione, la riconciliazione dei coniugi [2].

Ciò che in questa sede si vuole esaminare è la situazione giuridica che si viene a creare in seguito alla revoca da parte del giudice dell’assegnazione della casa familiare, nel caso in cui i coniugi siano comproprietari dell’immobile.

Venendo meno il diritto al godimento esclusivo, si ripresenta la situazione verificatasi con lo scioglimento della comunione legale a seguito della separazione personale, momento in cui il bene è ancora nella titolarità comune di entrambi i coniugi. Il primo problema che si pone è la qualificazione giuridica di tale contitolarità.

Secondo certa dottrina [3], sui beni che facevano parte della comunione legale, in seguito allo scioglimento della stessa, non si instaura una comunione ordinaria, ma continuano a trovare applicazione alcune norme del regime della comunione legale. Lo scioglimento comporterebbe la cessazione di ulteriori e automatiche acquisizioni di beni, ma per i beni già comuni resterebbero in vigore tutte o alcune delle regole previste. Tale tesi troverebbe conforto negli articoli 177 e 194 del Codice: più in particolare, l’articolo 177, laddove statuisce che al momento dello scioglimento alcuni beni (quelli di cui alle lettere “b” e “c”, cioè i frutti dei beni propri e i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi) costituiscono “oggetto della comunione”, si riferirebbe alla comunione legale e non a quella ordinaria, dato che quest’ultima non solo non è citata ma è anche collocata altrove nel sistema del Codice Civile; quanto all’articolo 194, esso nel trattare i beni della comunione legale considera ancora sussistente la stessa al momento della divisione.

La dottrina maggioritaria è però di altro avviso. A seguito dello scioglimento della comunione legale si costituisce una comunione ordinaria, quindi i singoli beni che facevano parte della comunione legale nonché quelli di cui all’articolo 177 lettere “b” e “c” sono soggetti alla disciplina dettata per la comunione ordinaria. Si sostiene infatti che il disposto dell’articolo 177 lettere “b” e “c” andrebbe interpretato secondo il suo valore effettivo, badando meno al dettato normativo e più alla logica giuridica: tale statuizione sancisce infatti semplicemente di aggiungere i beni de residuo a quelli che materialmente costituiscono l’oggetto della comunione, senza influire sulla definizione giuridica di quest’ultima [4]. Questa soluzione è in effetti la più aderente al sistema, dato che è la comunione ordinaria il modello generale previsto dall’ordinamento per i casi di appartenenza a più persone della proprietà o di altro diritto reale.

La giurisprudenza si è espressa a favore di tale quest’ultima tesi [5].

La contitolarità della casa familiare trova dunque disciplina normativa negli articoli 1100 e seguenti del Codice Civile.

La prima conseguenza è che il coniuge che non era assegnatario potrà nuovamente utilizzare l’abitazione ai sensi dell’articolo 1102, cioè in modo tale da non alterarne la destinazione e non impedire al coniuge comproprietario di farne parimenti uso secondo il suo diritto. Salvo il caso della riconciliazione (che risolverebbe alla radice ogni problema), difficilmente però accadrà che due coniugi separati o due ex-coniugi vogliano nuovamente utilizzare l’abitazione in maniera promiscua. Lo stesso dicasi per il cosiddetto sistema turnario, cioè la divisione del godimento nel tempo, difficilmente attuabile nel caso di un’abitazione.

Quali soluzioni si prospettano quindi per il comproprietario che non abita più nella casa familiare?

Una prima ipotesi potrebbe essere quella di chiedere al coniuge (o ex-coniuge) il pagamento di un canone di locazione mensile relativo alla propria quota di comproprietà. Come afferma il Branca, “ogni difficoltà si può, e spesso si deve, girare con la rinunzia al godimento diretto, per es. dando in locazione la cosa comune. Si faccia il caso di un appartamento in comunione non suscettibile di uso per parti divise: dato che non si può imporre la coabitazione dei partecipanti o ad uno di loro neanche a norma dell’articolo 1105, è sano criterio amministrativo darlo in locazione a uno solo” [6].

Una simile soluzione sarebbe conforme al principio secondo cui nessuno può servirsi della cosa comune in modo da impedirne una più conveniente utilizzazione. Si tratterebbe cioè di perseguire il miglior godimento della cosa comune ai sensi dell’articolo 1106: la locazione rientra dunque nel terreno dell’ordinaria amministrazione (ad eccezione di quella ultranovennale ex articolo 1108). Questo significa che, nell’ipotesi in cui non si riesca a raggiungere un accordo sulla locazione, la stessa può essere imposta dalla maggioranza dei partecipanti ai dissenzienti.

Tale maggioranza può ovviamente non formarsi nel caso di due coniugi comproprietari per quote uguali: al partecipante che non abita la casa familiare è allora garantita dall’articolo 1105 la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria per imporre all’altro partecipante la locazione. Ma questa strada, ad avviso dello scrivente, è difficilmente percorribile. La Cassazione infatti ha recentemente affermato che “in tema di comunione, il criterio dell’uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall’articolo 1102 codice civile, richiede che ciascun partecipante abbia il diritto di utilizzare la cosa comune come può e non in qualunque modo voglia, atteso il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari facoltà di godimento degli altri comunisti. Ne consegue che, ove il godimento pregresso non sia possibile per uno dei partecipanti a causa del mutamento elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere nei confronti degli altri una diversa utilizzazione della cosa comune, sia perché il singolo condomino ha l’onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo, sia in quanto differenti opzioni di godimento comune possono essere realizzate in via autonoma, ma non già imposte tramite l’intervento eteronomo del giudice” [7].

Nella fattispecie concreta, si chiedeva la modifica dell’utilizzazione di uno spazio comune destinato a parcheggio condominiale, dettata esclusivamente dal sopravvenuto aumento di dimensioni dell’autovettura del ricorrente. Ma, mutatis mutandis, sembra che il principio espresso dalla Suprema Corte debba ben valere anche nel caso che ci occupa. Se quindi il godimento pregresso (cioè la coabitazione) non è più possibile per un partecipante a causa delle sue mutate condizioni (ovvero la separazione), egli non può pretendere nei confronti del coniuge ex-assegnatario che abita la casa una diversa utilizzazione della cosa comune, cioè il pagamento di un canone di locazione.

La seconda ipotesi offerta dal Codice è regolata dall’articolo 1103, secondo cui “ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota”. L’alienazione che il comproprietario fa del suo diritto determina l’ingresso nella comunione dell’acquirente, il quale diviene titolare delle facoltà di godimento e uso che aveva l’alienante; l’acquirente dunque, per quanto riguarda i rapporti con i comproprietari, è soggetto alle stesse limitazioni cui era soggetto il suo dante causa. Per questi motivi, nella pratica, è molto difficile per il coniuge che non abita la casa riuscire a trovare un acquirente interessato alla singola quota, e disposto a essere soggetto alle limitazioni di cui sopra.

La strada verosimilmente più percorribile è dunque quella dello scioglimento della comunione, che può essere sempre richiesto al giudice da ciascuno dei partecipanti ai sensi dell’articolo 1111: secondo consolidata dottrina si tratta di un diritto potestativo di esercizio giudiziale [8]. Lo scioglimento altro non è che la divisione giudiziale, che ha luogo in natura se la cosa può essere comodamente divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti (articolo 1114); in caso contrario trovano applicazione le norme sulla divisione ereditaria, ed in particolare l’articolo 720, secondo cui l’immobile viene attribuito a uno dei partecipanti con corrispondente compenso in denaro in favore dell’altro, ovvero alienato a terzi mediante vendita all’incanto con distribuzione del ricavato in proporzione delle quote.

[1] L’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro “habitat” domestico inteso come centro della vita e degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha più ragion d’essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più idonea a svolgere tale, essenziale funzione. (Cassazione civile Sezione I, 23/05/2000, n. 6706).

[2] Per una più esaustiva trattazione sulla durata del diritto e sulle cause di estinzione si veda AULETTA in Commentario del Codice Civile, Della Famiglia, vol. 1, UTET, 2010, pag. 734 e ss.

[3] MASTROPAOLO e PITTER, Scioglimento della Comunione, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN-OPPO-TRABUCCHI, III, CEDAM.

[4] ROSSI, in Gli aspetti di separazione e divorzio nella famiglia, a cura di OBERTO, 2012, CEDAM.

[5] “Lo scioglimento della comunione legale tra coniugi, per effetto della separazione personale degli stessi, e il conseguente passaggio ad un regime di comunione ordinaria tra i separati, decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione” (Tribunale Bologna, 01/10/2003); “È ammissibile la domanda di scioglimento della comunione relativa all’immobile adibito a casa coniugale proposta dal coniuge non assegnatario, in quanto - intervenuta la separazione personale - viene a cessare la comunione legale fra i coniugi, con conseguente applicabilità delle norme in materia di comunione ordinaria e, in sede di divisione, delle norme sulla divisione in genere e, in specie, sulla divisione ereditaria” (Tribunale Roma, 03/06/1996).

[6] BRANCA, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja e Branca, sub articolo 1102, Zanichelli.

[7] Cassazione civile Sezione II, 11/07/2011, n. 15203.

[8] LENER, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, vol. 8, UTET, pag. 360.

L’articolo 155 quater Codice Civile è la norma di riferimento per quanto riguarda l’assegnazione della casa familiare e la sua revoca. “Il godimento della casa familiare”, vi si legge, “è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”: se ne desume anzitutto che l’assegnazione non è più giustificata qualora la casa non sia più idonea a svolgere la funzione di tutela della prole [1]. Così, ad esempio, il giudice può revocare l’assegnazione dal momento in cui i figli abbiano raggiunto un’autonomia sufficiente da consentire loro un distacco non traumatico dall’ambiente familiare.

Alcune cause di estinzione del diritto vengono esplicitamente contemplate dalla norma in esame: sono la mancata utilizzazione della casa familiare da parte dell’assegnatario, l’instaurazione da parte di quest’ultimo di una relazione more uxorio e la contrazione di un nuovo matrimonio. In via interpretativa sono poi state individuate da dottrina e giurisprudenza altre ipotesi di estinzione, come la cessazione del prevalente bisogno in capo all’assegnatario, l’attribuzione del bene in proprietà esclusiva all’assegnatario in sede di divisione, la riconciliazione dei coniugi [2].

Ciò che in questa sede si vuole esaminare è la situazione giuridica che si viene a creare in seguito alla revoca da parte del giudice dell’assegnazione della casa familiare, nel caso in cui i coniugi siano comproprietari dell’immobile.

Venendo meno il diritto al godimento esclusivo, si ripresenta la situazione verificatasi con lo scioglimento della comunione legale a seguito della separazione personale, momento in cui il bene è ancora nella titolarità comune di entrambi i coniugi. Il primo problema che si pone è la qualificazione giuridica di tale contitolarità.

Secondo certa dottrina [3], sui beni che facevano parte della comunione legale, in seguito allo scioglimento della stessa, non si instaura una comunione ordinaria, ma continuano a trovare applicazione alcune norme del regime della comunione legale. Lo scioglimento comporterebbe la cessazione di ulteriori e automatiche acquisizioni di beni, ma per i beni già comuni resterebbero in vigore tutte o alcune delle regole previste. Tale tesi troverebbe conforto negli articoli 177 e 194 del Codice: più in particolare, l’articolo 177, laddove statuisce che al momento dello scioglimento alcuni beni (quelli di cui alle lettere “b” e “c”, cioè i frutti dei beni propri e i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi) costituiscono “oggetto della comunione”, si riferirebbe alla comunione legale e non a quella ordinaria, dato che quest’ultima non solo non è citata ma è anche collocata altrove nel sistema del Codice Civile; quanto all’articolo 194, esso nel trattare i beni della comunione legale considera ancora sussistente la stessa al momento della divisione.

La dottrina maggioritaria è però di altro avviso. A seguito dello scioglimento della comunione legale si costituisce una comunione ordinaria, quindi i singoli beni che facevano parte della comunione legale nonché quelli di cui all’articolo 177 lettere “b” e “c” sono soggetti alla disciplina dettata per la comunione ordinaria. Si sostiene infatti che il disposto dell’articolo 177 lettere “b” e “c” andrebbe interpretato secondo il suo valore effettivo, badando meno al dettato normativo e più alla logica giuridica: tale statuizione sancisce infatti semplicemente di aggiungere i beni de residuo a quelli che materialmente costituiscono l’oggetto della comunione, senza influire sulla definizione giuridica di quest’ultima [4]. Questa soluzione è in effetti la più aderente al sistema, dato che è la comunione ordinaria il modello generale previsto dall’ordinamento per i casi di appartenenza a più persone della proprietà o di altro diritto reale.

La giurisprudenza si è espressa a favore di tale quest’ultima tesi [5].

La contitolarità della casa familiare trova dunque disciplina normativa negli articoli 1100 e seguenti del Codice Civile.

La prima conseguenza è che il coniuge che non era assegnatario potrà nuovamente utilizzare l’abitazione ai sensi dell’articolo 1102, cioè in modo tale da non alterarne la destinazione e non impedire al coniuge comproprietario di farne parimenti uso secondo il suo diritto. Salvo il caso della riconciliazione (che risolverebbe alla radice ogni problema), difficilmente però accadrà che due coniugi separati o due ex-coniugi vogliano nuovamente utilizzare l’abitazione in maniera promiscua. Lo stesso dicasi per il cosiddetto sistema turnario, cioè la divisione del godimento nel tempo, difficilmente attuabile nel caso di un’abitazione.

Quali soluzioni si prospettano quindi per il comproprietario che non abita più nella casa familiare?

Una prima ipotesi potrebbe essere quella di chiedere al coniuge (o ex-coniuge) il pagamento di un canone di locazione mensile relativo alla propria quota di comproprietà. Come afferma il Branca, “ogni difficoltà si può, e spesso si deve, girare con la rinunzia al godimento diretto, per es. dando in locazione la cosa comune. Si faccia il caso di un appartamento in comunione non suscettibile di uso per parti divise: dato che non si può imporre la coabitazione dei partecipanti o ad uno di loro neanche a norma dell’articolo 1105, è sano criterio amministrativo darlo in locazione a uno solo” [6].

Una simile soluzione sarebbe conforme al principio secondo cui nessuno può servirsi della cosa comune in modo da impedirne una più conveniente utilizzazione. Si tratterebbe cioè di perseguire il miglior godimento della cosa comune ai sensi dell’articolo 1106: la locazione rientra dunque nel terreno dell’ordinaria amministrazione (ad eccezione di quella ultranovennale ex articolo 1108). Questo significa che, nell’ipotesi in cui non si riesca a raggiungere un accordo sulla locazione, la stessa può essere imposta dalla maggioranza dei partecipanti ai dissenzienti.

Tale maggioranza può ovviamente non formarsi nel caso di due coniugi comproprietari per quote uguali: al partecipante che non abita la casa familiare è allora garantita dall’articolo 1105 la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria per imporre all’altro partecipante la locazione. Ma questa strada, ad avviso dello scrivente, è difficilmente percorribile. La Cassazione infatti ha recentemente affermato che “in tema di comunione, il criterio dell’uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall’articolo 1102 codice civile, richiede che ciascun partecipante abbia il diritto di utilizzare la cosa comune come può e non in qualunque modo voglia, atteso il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari facoltà di godimento degli altri comunisti. Ne consegue che, ove il godimento pregresso non sia possibile per uno dei partecipanti a causa del mutamento elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere nei confronti degli altri una diversa utilizzazione della cosa comune, sia perché il singolo condomino ha l’onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo, sia in quanto differenti opzioni di godimento comune possono essere realizzate in via autonoma, ma non già imposte tramite l’intervento eteronomo del giudice” [7].

Nella fattispecie concreta, si chiedeva la modifica dell’utilizzazione di uno spazio comune destinato a parcheggio condominiale, dettata esclusivamente dal sopravvenuto aumento di dimensioni dell’autovettura del ricorrente. Ma, mutatis mutandis, sembra che il principio espresso dalla Suprema Corte debba ben valere anche nel caso che ci occupa. Se quindi il godimento pregresso (cioè la coabitazione) non è più possibile per un partecipante a causa delle sue mutate condizioni (ovvero la separazione), egli non può pretendere nei confronti del coniuge ex-assegnatario che abita la casa una diversa utilizzazione della cosa comune, cioè il pagamento di un canone di locazione.

La seconda ipotesi offerta dal Codice è regolata dall’articolo 1103, secondo cui “ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota”. L’alienazione che il comproprietario fa del suo diritto determina l’ingresso nella comunione dell’acquirente, il quale diviene titolare delle facoltà di godimento e uso che aveva l’alienante; l’acquirente dunque, per quanto riguarda i rapporti con i comproprietari, è soggetto alle stesse limitazioni cui era soggetto il suo dante causa. Per questi motivi, nella pratica, è molto difficile per il coniuge che non abita la casa riuscire a trovare un acquirente interessato alla singola quota, e disposto a essere soggetto alle limitazioni di cui sopra.

La strada verosimilmente più percorribile è dunque quella dello scioglimento della comunione, che può essere sempre richiesto al giudice da ciascuno dei partecipanti ai sensi dell’articolo 1111: secondo consolidata dottrina si tratta di un diritto potestativo di esercizio giudiziale [8]. Lo scioglimento altro non è che la divisione giudiziale, che ha luogo in natura se la cosa può essere comodamente divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti (articolo 1114); in caso contrario trovano applicazione le norme sulla divisione ereditaria, ed in particolare l’articolo 720, secondo cui l’immobile viene attribuito a uno dei partecipanti con corrispondente compenso in denaro in favore dell’altro, ovvero alienato a terzi mediante vendita all’incanto con distribuzione del ricavato in proporzione delle quote.

[1] L’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro “habitat” domestico inteso come centro della vita e degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha più ragion d’essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più idonea a svolgere tale, essenziale funzione. (Cassazione civile Sezione I, 23/05/2000, n. 6706).

[2] Per una più esaustiva trattazione sulla durata del diritto e sulle cause di estinzione si veda AULETTA in Commentario del Codice Civile, Della Famiglia, vol. 1, UTET, 2010, pag. 734 e ss.

[3] MASTROPAOLO e PITTER, Scioglimento della Comunione, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN-OPPO-TRABUCCHI, III, CEDAM.

[4] ROSSI, in Gli aspetti di separazione e divorzio nella famiglia, a cura di OBERTO, 2012, CEDAM.

[5] “Lo scioglimento della comunione legale tra coniugi, per effetto della separazione personale degli stessi, e il conseguente passaggio ad un regime di comunione ordinaria tra i separati, decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione” (Tribunale Bologna, 01/10/2003); “È ammissibile la domanda di scioglimento della comunione relativa all’immobile adibito a casa coniugale proposta dal coniuge non assegnatario, in quanto - intervenuta la separazione personale - viene a cessare la comunione legale fra i coniugi, con conseguente applicabilità delle norme in materia di comunione ordinaria e, in sede di divisione, delle norme sulla divisione in genere e, in specie, sulla divisione ereditaria” (Tribunale Roma, 03/06/1996).

[6] BRANCA, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja e Branca, sub articolo 1102, Zanichelli.

[7] Cassazione civile Sezione II, 11/07/2011, n. 15203.

[8] LENER, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, vol. 8, UTET, pag. 360.