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Riflessioni dal caso Bio on: AIM e il rischio di suicidio collettivo del sistema imprenditoriale

Sviluppo realtà imprenditoriale
Sviluppo realtà imprenditoriale

Molto è stato scritto nell’ultimo mese sul crollo in Borsa delle azioni della società Bio on, azienda bolognese che sta sviluppando un nuovo tipo di bio plastiche.

Non voglio assolutamente entrare nella disputa tra la società in questione ed il fondo americano Quintessential che con il suo rapporto ha acceso la miccia delle difficoltà del titolo in borsa. La rivista Wired ha pubblicato due articoli molto esplicativi sulla vicenda che ha comunque ancora molti punti interrogativi (1 / 2 ).

Mi vorrei però focalizzare su una riflessione che nasce dalla definizione (anche all’interno dello stesso articolo di Wired) di Bio On come startup e se quella della quotazione su un mercato borsistico (anche se parzialmente regolamentato com AIM) sia la via migliore per le società e per il mercato di finanziare e sostenere il proprio sviluppo.

Quando, nel 2014, Bio On è stata quotata all’AIM era già attiva da sette anni, essendo stata fondata nel 2007. Era una società nella quale non era presente alcun investitore terzo che avesse in precedenza finanziato lo sviluppo per arrivare (come obiettivo) alla quotazione in borsa. Il tutto era stato sostenuto dai soci fondatori. Questo di per sé non è assolutamente un difetto, ma pone le basi per una considerazione che svilupperò meglio in seguito.

Negli anni immediatamente precedenti alla quotazione (2012 e 2013) il fatturato di Bio On era stato rispettivamente di 1,33 e 1,27 Milioni di Euro (con un calo tra 2012 e 2013) e ammontava ad Euro 720.000 al 30 giugno 2014. Da notare soprattutto come questi ricavi fossero frutto di attività di ricerca e studi di fattibilità, non quindi ricavi ricorrenti da mercato.

La società ha raccolto in emissione 6.875.000 euro per una valutazione implicita di € 66.170.000. Pagando 1.100.000 euro di spese per la quotazione e 360.000 euro di commissioni per il collocamento.

Una valutazione ed un importo raccolto che la società non avrebbe mai potuto ottenere da un investitore di venture capital (business angel o fondo) a quello stadio di avanzamento della propria attività.

Se analizziamo gli elementi distintivi del business che emergono dal documento di ammissione, ci troviamo di fronte ad una società tecnologica, che opera in un campo molto specialistico con un team composto da due co-founder che non hanno alcun background tecnico. Questo, di solito è un segnale negativo per gli investitori, perché il vantaggio competitivo potrebbe non essere difendibile nel lungo termine se non in possesso di brevetti già molto solidi e non aggirabili.

Nulla di ciò si evince però dal documento, anzi, nell’elencazione dei numerosi rischi dell’investimento (praticamente tutto lo scibile umano) si dice chiaramente che la società non ha nemmeno una FTO (Freedom to Operate), non è cioè in grado di assicurare che i propri brevetti o proprietà intellettuale non violino brevetti di altri già esistenti.

Anche il modello di business pare abbastanza fumoso e poco attraente, in quanto si basa prevalentemente su attività di advisory e ricerca e sviluppo conto terzi, senza un diretto accesso (e quindi un presidio del mercato) ed il tutto operando contemporaneamente su molti diversi mercati (cosa sconsigliata a tutte le realtà in fase di startup che dovrebbero invece focalizzarsi inizialmente su un mercato specifico). I risultati economici poi, al momento della quotazione sono totalmente risibili e non determinano nessuna validazione del modello di business, in quanto ottenuti con attività di ricerca spot e per loro natura non ripetibili.

Insomma un quadro piuttosto fosco che avrebbe portato un investitore di venture capital a concludere che l’unico aspetto positivo, anche se di per sé non sufficiente a determinare una decisione d’investimento, era il probabile sviluppo del mercato delle bio plastiche negli anni a venire. Mercato sul quale stavano già allora puntando però anche altre startup oltre alle aziende big del settore.

Una realtà di questo tipo non poteva certo ambire a raccogliere capitali da investitori professionali nel mondo del venture capital, e nel caso le valutazioni sarebbero state almeno di un ordine di grandezza (10 volte) inferiori a quelle espresse dall’AIM.

Io non ho sinceramente idea se gli imprenditori a quel tempo avessero ricevuto dei no da altri tipi di investitori o non li avessero nemmeno interpellati e non è per me il punto, perché sto prendendo questo caso, sorto al clamore delle cronache, solo come esempio di come un ecosistema efficace dovrebbe supportare lo sviluppo di nuove imprese.

Non credo che la scorciatoia della quotazione all’AIM in fase di startup – che propone ad una platea di investitori non correttamente informata (e molto spesso non formata) investimenti che sono certificati da soggetti che ricavano ingenti cifre dal supporto alla quotazione e che palesemente non conoscono le regole basilari per la valutazione di questo tipo di business – sia il modo migliore per favorire lo sviluppo di nuove realtà imprenditoriali.

Un ecosistema virtuoso dovrebbe prevedere un percorso attraverso il quale più soggetti “esperti” validino in qualche modo (investendo soldi propri) il progetto imprenditoriale nelle sue fasi successive di sviluppo. In assenza di questo, o di risultati veramente rilevanti in alternativa, la quotazione in borse non dovrebbe essere ammessa.

Tutto quello che è avvenuto dopo, fino alla capitalizzazione di oltre un miliardo di euro, prova che gli investitori che hanno acquistato le azioni in IPO ci avevano visto giusto (se hanno venduto in tempo). Stento comunque a credere che una valutazione come quella raggiunta dalla società nei momenti migliori sia minimamente giustificabile, ma sicuramente mi sbaglierò.

Le ombre gettate da Quintessential sul business, più che sulla regolarità dei documenti di Bio On, lasciano però aperto il dibattito sulla creazione di valore nel medio/lungo termine che queste forme di finanziamento delle startup possono generare.

Anche Giovanni Natali, AD di Ambromobiliare all’epoca della quotazione di Bio On, si è spinto a dire in una recente intervista su Finanza On Line che: “a mio parere dovrebbe essere fatto un sub-segmento AIM riservato alle start-up, dove basterebbe dire che per i primi due anni la negoziazione sia riservata agli investitori con profilo non retail, ma professionale. Questo eviterebbe il ripetersi di quello che è successo su Bio On”.

Io non so se questa sia la migliore soluzione.

Sicuramente nel nostro ecosistema i fondi di Venture Capital sono ancora pochi e con una dotazione di capitale limitata e andrebbero maggiormente incentivati (come sembravano essere orientate a fare le nuove azioni intraprese dall’attuale governo, ora dimissionario), ma sopperire alla mancanza di capitali di rischio professionalmente adeguati e finanziariamente strutturati, scaricando sui risparmiatori l’onere di finanziare pure “idee di business”, mi sembra francamente la migliore via per il suicidio collettivo del nostro sistema imprenditoriale.