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Riforma Fornero: tentativo obbligatorio di conciliazione

SOMMARIO: 1. L’articolo 1, COMMA 40, Legge 28 GIUGNO 2013 N. 92 (C.D. “RIFORMA FORNERO”) - 2. AMBITO SOGGETIVO DI APPLICAZIONE – 3. LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO – 4. CASISTICA – 5. LA PROCEDURA

1. Come ampiamente noto anche ai non addetti ai lavori, il Legislatore ha recentemente modificato numerosi istituti del sistema normativo giuslavorista italiano tramite la Legge n. 92/2012, ribattezzata “Riforma Fornero”.

Ai fini del presente elaborato giova analizzare in particolare l’articolo 7, comma 40, della Legge n. 92/2012. La disposizione citata ha inciso significativamente sul testo dell’articolo 7, Legge n. 604/1966, disciplinante il procedimento conciliativo obbligatorio a seguito di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo del lavoratore. L’intervento legislativo si proponeva l’ambizioso obiettivo di deflazionare i contenziosi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, istituendo un procedimento conciliativo obbligatorio dinanzi alla “Direzione Territoriale del Lavoro” (“D.T.Legge”), atto a contemperare fruttuosamente le esigenze di dipendenti e datori di lavoro.

L’applicazione quotidiana della normativa in oggetto fornirà i dati necessari a valutare l’effettiva incidenza del procedimento sul numero dei processi giudiziari. Allo stato è, però, possibile compiere alcune riflessioni preliminari sulla base di quanto affermato dalla dottrina giuslavorista e statuito dalle prime pronunce dei Giudici del lavoro.

2. In via preliminare giova individuare l’ambito soggettivo di applicazione della normativa oggetto del presente elaborato.

Sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupano alla proprie dipendenze più di 15 unità, ovvero più di 5 se imprenditori agricoli. La nuova procedura è parimenti applicabile nei confronti dei datori di lavoro che nello stesso ambito comunale occupino più di 15 lavoratori, anche se ciascuna unità produttiva non raggiunge tali limiti, ovvero a chi occupa più di 60 dipendenti sul territorio nazionale

Ai fini dei limiti numerici innanzi citati non devono essere computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado. Parimenti non computabili sono i dipendenti assunti a mezzo di determinate tipologie contrattuali, quali: gli apprendisti; gli assunti con contratto di inserimento; i lavoratori somministrati; gli assunti già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità e i dipendenti assunti con contratto di reinserimento. I dipendenti assunti con contratto part–time – verticale, orizzontale o misto – e gli “intermittenti”, invece, devono essere calcolati “pro quota”, in relazione all’orario di lavoro stabilito contrattualmente.

Per quanto concerne, infine, le imprese ove per ragioni di mercato o di attività svolta in un particolare periodo l’occupazione è c.d. “fluttuante”, non vi è una giurisprudenza univoca sulle modalità di calcolo del valore che deve fungere da discrimine. Le sentenze dei Giudici del lavoro oscillano dalla valorizzazione del concetto di “media” (Cass. Civ. sent. 2546/2004) a quello di “normalità”, riferita alla forza lavoro necessaria in quel specifico periodo dell’anno (Cass. Civ. sent. 2371/1986).

3. Per quanto concerne l’ambito di applicazione oggettivo, giova meglio definire i limiti del “giustificato motivo oggettivo” ex articolo 3, seconda parte, Legge n. 604/1966. La disposizione da ultimo citata recita quanto segue: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

A mero titolo esemplificativo, si riporta che il giustificato motivo oggettivo è stato ricondotto ad ipotesi di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e esternalizzazione di attività. Nei primi due casi innanzi citati la trasformazione del reparto, o la ristrutturazione dell’organico, oppure la cancellazione della posizione lavorativa, devono essere effettivi e non fittizi o pretestuosi. Non deve, inoltre, sussistere la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni simili a quella precedentemente svolta.

Recentemente, i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato che il giustificato motivo oggettivo attiene a ragioni inerenti l’attività produttiva. Trattasi, altresì, di scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione economica e organizzativa dell’azienda. Il Giudicante, invero, non può sindacare l’opportunità e la congruità della decisione imprenditoriale ove la stessa risulti effettiva e non simulata o pretestuosa (Cass. Civ. sent. 11465/2012).

4. Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune ipotesi di interruzioni del rapporto di lavoro site in una zona grigia, la cui qualificazione quale “licenziamento per giustificato motivo oggettivo” è tutt’altro che univoca.

In primo luogo, giova citare l’ipotesi di licenziamento a causa del superamento del periodo di comporto di cui all’articolo 2110 del Codice Civile. Come noto, nella suddetta ipotesi il licenziamento può essere intimato dopo il decorso di un periodo di assenza dal lavoro per malattia, determinato dal del Codice CivileN.Legge di categoria, disciplinante anche il periodo di comporto per sommatoria e l’assenza per infortunio.

La giurisprudenza maggioritaria qualifica il caso in oggetto quale “tertium genus”, diverso sia dal licenziamento disciplinare che da quello per ragioni oggettive. Con la sentenza 1404/2012 la Suprema Corte ha adottato la tesi prevalente statuendo che “le regole dettate dall’articolo 2110 del Codice Civile per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono in quanto speciali sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali, che su quella degli artt. 1256 e 1464. Ne discende che, in forza della sua applicabilità, il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che è all’uopo non necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, ne della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, ne della correlata possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizione e principi costituzionali” (Cass. Civ. sent. N. 1404/2012).

Da quanto sostenuto dalla citata giurisprudenza deriverebbe la non applicabilità del procedimento conciliativo obbligatorio ai casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Ciò nonostante, la rilevabilità di un filone giurisprudenziale minoritario, ma opposto nelle conclusioni, avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro ad imboccare ugualmente la strada della nuova procedura conciliativa. Tale opzione era giustificata non solo dalla prudenza, ma altresì dalla possibilità di giungere ad un accordo che soddisfacesse le reciproche richieste. È utile osservare che a fronte di un’interpretazione non univoca della norma, in sede di prima applicazione della riforma, le D.T.Legge hanno acconsentito all’apertura di procedimenti inerenti le interruzioni del rapporto di lavoro a causa di superamento del periodo di comporto.

Per onere di completezza è doveroso sottolineare che il Legislatore è recentemente intervenuto nuovamente sulla materia in oggetto, chiarendo i dubbi interpretativi rilevati in merito all’interruzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto, e semplificando gli adempimenti inerenti alcune ipotesi strutturali ben definite. Il D.Legge n. 76/2013 convertito in Legge n. 99/2013 ha statuito che esulano dall’ambito applicativo della procedura di cui all’articolo 7, Legge n. 604/1966 le seguenti ipotesi di licenziamento: per superamento del periodo di comporto; conseguente al cambio di appalto, ove il dipendente licenziato è assunto dal nuovo appaltatore; per completamento delle attività e chiusura del cantiere, nel settore delle costruzioni edili.

Altro caso dubbio da segnalare è determinato dal licenziamento per infermità sopravvenuta. Dottrina e giurisprudenza qualificano l’ipotesi di interruzione del rapporto lavorativo da ultimo citata quale giustificato motivo oggettivo, in quanto oltre alle condizioni di salute del dipendente rileva anche l’impossibilità dell’azienda di riallocare il soggetto in una posizione lavorativa conforme al suo mutato stato. Di conseguenza, in tal caso dovrebbe ritenersi applicabile la procedura oggetto del presente elaborato.

Parimenti di difficile qualificazione risulta l’interruzione del rapporto di lavoro a causa del mancato superamento del periodo di prova contrattualmente previsto. Pur essendo palese la prevalente natura soggettiva della causa del suddetto licenziamento, alcune sentenze hanno evidenziato la possibilità che l’interruzione del rapporto avvenga anche per ragioni latu sensu oggettive, quali la sopraggiunta inutilità della mansione all’interno dell’organizzazione generale dell’azienda. Giova riportare che, nonostante le citate precisazioni di parte minoritaria della giurisprudenza, l’interruzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova possiede una natura prettamente soggettiva, e spesso consegue a ragioni di carattere disciplinare. Di conseguenza, in questo caso non dovrebbe trovare applicazione il nuovo articolo 7, Legge n. 604/1966.

L’ultima ipotesi dubbia da segnalare attiene al licenziamento del lavoratore assunto con contratto di apprendistato. Il “Testo Unico dell’Apprendistato”, Decreto Legislativo n. 167/2011, anch’esso modificato dalla c.d. “Riforma Fornero”, prevede che le parti possano recedere dal contratto in due ipotesi: durante il periodo di formazione esclusivamente ove sussista una giusta causa o un giustificato motivo, ed al termine dello stesso, previo preavviso, ai sensi dell’articolo 2118 del Codice Civile. Per quanto concerne la prima ipotesi di recesso: nulla questio. La procedura conciliativa troverà applicazione solo qualora il licenziamento sia intimato a causa di un giustificato motivo oggettivo. In ipotesi di recesso al termine del periodo di formazione, invece, il procedimento in oggetto non può essere applicato, in quanto trattasi di interruzione da applicarsi a norma dell’articolo 2118 del Codice Civile, a prescindere dalla qualificazione delle ragioni.

Da quanto sin qui riportato è chiaramente desumibile la necessità di un ulteriore intervento chiarificatore da parte del Legislatore, atto a dirimere le riportate controversie interpretative, in un settore molto delicato qual è quello del mercato del lavoro. Il D.Legge 76/2013, invero, ha risposto solo in parte alle osservazioni di dottrina e giurisprudenza. Persistono tutt’oggi contesti fattuali di difficile qualificazione che potrebbero dare la stura ad interpretazioni ed applicazioni difformi o a deleterie lungaggini burocratiche.

5. Premessa l’analisi dell’ambito applicativo, oggettivo e soggettivo, della normativa ex articolo 7, Legge n. 604/1966, è ora possibile esaminare le differenti fasi che costituiscono il procedimento in oggetto. La disposizione citata impone al datore di lavoro che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rientrante nell’ambito applicativo della norma, di inviare in primo luogo una comunicazione, a mezzo raccomandata a.r., alla D.T.Legge territorialmente competente, e per conoscenza al dipendente interessato. Il documento deve obbligatoriamente menzionare il motivo alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro, nonché le eventuali misure di assistenza finalizzate ad una eventuale ricollocazione del lavoratore. La Giurisprudenza ha specificato che sia le motivazioni, che le misure di assistenza - nella pratica solo eventuali - devono essere indicate con precisione e determinatezza (Cass. Civ. sent. 7046/2011; Cass. Civ. sent. 6625/2011).

La Direzione Territoriale del Lavoro, al fine di garantire tempi celeri per la conclusione della procedura, ha l’onere di convocare le parti dinanzi alla sottocommissione competente entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione datoriale. La Commissione territoriale è composta da rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati maggiormente rappresentative a livello territoriale. Le sottocommissioni, che nella prassi si occupano dello svolgimento della conciliazione, sono composte da un rappresentante di parte datoriale, uno di parte sindacale, ed un funzionario della D.T.Legge.

La partecipazione della parti alla procedura conciliativa è di capitale importanza. Tant’è vero che in ipotesi di legittimo e documentato impedimento del dipendente a presenziare all’incontro, il procedimento può essere sospeso per un massimo di 15 giorni. Qualora, invece, le parti non si presentino in assenza di un giustificato motivo, si procede alla redazione di un verbale. Il datore di lavoro, ed il lavoratore, hanno la facoltà di farsi rappresentare dalle associazioni di categoria a cui sono iscritti, o a cui hanno concesso mandato, ovvero da un avvocato, da un consulente del lavoro, o altresì da un componente delle R.S.A. e delle R.S.U..

L’intera procedura deve compiersi entro 20 giorni dalla data di convocazione dell’incontro. Il termine può essere superato, anche su richiesta della commissione, esclusivamente ove necessario a raggiungere un accordo.

Qualora le parti non raggiungano un accordo, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore, previa redazione di un apposito verbale di mancata conciliazione. Parimenti, l’imprenditore può interrompere il rapporto di lavoro, ove trascorsi 7 giorni dalla ricezione della propria richiesta di incontro da parte della D.T.Legge, quest’ultima non abbia provveduto a convocare le parti interessate.

Il Legislatore specifica, inoltre, che “il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutata dal Giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 18, settimo comma, della legge n. 300/1970 e per l’applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile”.

Giova evidenziare che il licenziamento intimato al termine della procedura ha effetto dal giorno in cui il procedimento è stato avviato.

La procedura di cui all’articolo 7, Legge 604/1966 può concludersi positivamente, e le soluzioni posso essere plurime, anche alternative alla risoluzione del rapporto. In quest’ultimo caso, la Commissione redige un verbale contenente i contenuti dell’accordo, quali ad esempio il trasferimento del dipendente, ovvero la trasformazione della tipologia contrattuale. Qualora, invece, il tentativo di conciliazione si concluda con una risoluzione consensuale del contratto, la Commissione è onerata dalla redazione di un verbale che riporti tutti i dati assunti nelle more della procedura, nonché i contenuti di natura economica inerenti la risoluzione consensuale.

Secondo parte della dottrina, infine, in sede di procedura conciliativa sarebbe possibile anche addivenire alla composizione di altre questioni di natura economica, ove, però, il lavoratore fosse preventivamente edotto della definitività delle scelte ivi compiute.

SOMMARIO: 1. L’articolo 1, COMMA 40, Legge 28 GIUGNO 2013 N. 92 (C.D. “RIFORMA FORNERO”) - 2. AMBITO SOGGETIVO DI APPLICAZIONE – 3. LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO – 4. CASISTICA – 5. LA PROCEDURA

1. Come ampiamente noto anche ai non addetti ai lavori, il Legislatore ha recentemente modificato numerosi istituti del sistema normativo giuslavorista italiano tramite la Legge n. 92/2012, ribattezzata “Riforma Fornero”.

Ai fini del presente elaborato giova analizzare in particolare l’articolo 7, comma 40, della Legge n. 92/2012. La disposizione citata ha inciso significativamente sul testo dell’articolo 7, Legge n. 604/1966, disciplinante il procedimento conciliativo obbligatorio a seguito di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo del lavoratore. L’intervento legislativo si proponeva l’ambizioso obiettivo di deflazionare i contenziosi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, istituendo un procedimento conciliativo obbligatorio dinanzi alla “Direzione Territoriale del Lavoro” (“D.T.Legge”), atto a contemperare fruttuosamente le esigenze di dipendenti e datori di lavoro.

L’applicazione quotidiana della normativa in oggetto fornirà i dati necessari a valutare l’effettiva incidenza del procedimento sul numero dei processi giudiziari. Allo stato è, però, possibile compiere alcune riflessioni preliminari sulla base di quanto affermato dalla dottrina giuslavorista e statuito dalle prime pronunce dei Giudici del lavoro.

2. In via preliminare giova individuare l’ambito soggettivo di applicazione della normativa oggetto del presente elaborato.

Sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupano alla proprie dipendenze più di 15 unità, ovvero più di 5 se imprenditori agricoli. La nuova procedura è parimenti applicabile nei confronti dei datori di lavoro che nello stesso ambito comunale occupino più di 15 lavoratori, anche se ciascuna unità produttiva non raggiunge tali limiti, ovvero a chi occupa più di 60 dipendenti sul territorio nazionale

Ai fini dei limiti numerici innanzi citati non devono essere computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado. Parimenti non computabili sono i dipendenti assunti a mezzo di determinate tipologie contrattuali, quali: gli apprendisti; gli assunti con contratto di inserimento; i lavoratori somministrati; gli assunti già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità e i dipendenti assunti con contratto di reinserimento. I dipendenti assunti con contratto part–time – verticale, orizzontale o misto – e gli “intermittenti”, invece, devono essere calcolati “pro quota”, in relazione all’orario di lavoro stabilito contrattualmente.

Per quanto concerne, infine, le imprese ove per ragioni di mercato o di attività svolta in un particolare periodo l’occupazione è c.d. “fluttuante”, non vi è una giurisprudenza univoca sulle modalità di calcolo del valore che deve fungere da discrimine. Le sentenze dei Giudici del lavoro oscillano dalla valorizzazione del concetto di “media” (Cass. Civ. sent. 2546/2004) a quello di “normalità”, riferita alla forza lavoro necessaria in quel specifico periodo dell’anno (Cass. Civ. sent. 2371/1986).

3. Per quanto concerne l’ambito di applicazione oggettivo, giova meglio definire i limiti del “giustificato motivo oggettivo” ex articolo 3, seconda parte, Legge n. 604/1966. La disposizione da ultimo citata recita quanto segue: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

A mero titolo esemplificativo, si riporta che il giustificato motivo oggettivo è stato ricondotto ad ipotesi di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e esternalizzazione di attività. Nei primi due casi innanzi citati la trasformazione del reparto, o la ristrutturazione dell’organico, oppure la cancellazione della posizione lavorativa, devono essere effettivi e non fittizi o pretestuosi. Non deve, inoltre, sussistere la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni simili a quella precedentemente svolta.

Recentemente, i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato che il giustificato motivo oggettivo attiene a ragioni inerenti l’attività produttiva. Trattasi, altresì, di scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione economica e organizzativa dell’azienda. Il Giudicante, invero, non può sindacare l’opportunità e la congruità della decisione imprenditoriale ove la stessa risulti effettiva e non simulata o pretestuosa (Cass. Civ. sent. 11465/2012).

4. Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune ipotesi di interruzioni del rapporto di lavoro site in una zona grigia, la cui qualificazione quale “licenziamento per giustificato motivo oggettivo” è tutt’altro che univoca.

In primo luogo, giova citare l’ipotesi di licenziamento a causa del superamento del periodo di comporto di cui all’articolo 2110 del Codice Civile. Come noto, nella suddetta ipotesi il licenziamento può essere intimato dopo il decorso di un periodo di assenza dal lavoro per malattia, determinato dal del Codice CivileN.Legge di categoria, disciplinante anche il periodo di comporto per sommatoria e l’assenza per infortunio.

La giurisprudenza maggioritaria qualifica il caso in oggetto quale “tertium genus”, diverso sia dal licenziamento disciplinare che da quello per ragioni oggettive. Con la sentenza 1404/2012 la Suprema Corte ha adottato la tesi prevalente statuendo che “le regole dettate dall’articolo 2110 del Codice Civile per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono in quanto speciali sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali, che su quella degli artt. 1256 e 1464. Ne discende che, in forza della sua applicabilità, il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che è all’uopo non necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, ne della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, ne della correlata possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizione e principi costituzionali” (Cass. Civ. sent. N. 1404/2012).

Da quanto sostenuto dalla citata giurisprudenza deriverebbe la non applicabilità del procedimento conciliativo obbligatorio ai casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Ciò nonostante, la rilevabilità di un filone giurisprudenziale minoritario, ma opposto nelle conclusioni, avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro ad imboccare ugualmente la strada della nuova procedura conciliativa. Tale opzione era giustificata non solo dalla prudenza, ma altresì dalla possibilità di giungere ad un accordo che soddisfacesse le reciproche richieste. È utile osservare che a fronte di un’interpretazione non univoca della norma, in sede di prima applicazione della riforma, le D.T.Legge hanno acconsentito all’apertura di procedimenti inerenti le interruzioni del rapporto di lavoro a causa di superamento del periodo di comporto.

Per onere di completezza è doveroso sottolineare che il Legislatore è recentemente intervenuto nuovamente sulla materia in oggetto, chiarendo i dubbi interpretativi rilevati in merito all’interruzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto, e semplificando gli adempimenti inerenti alcune ipotesi strutturali ben definite. Il D.Legge n. 76/2013 convertito in Legge n. 99/2013 ha statuito che esulano dall’ambito applicativo della procedura di cui all’articolo 7, Legge n. 604/1966 le seguenti ipotesi di licenziamento: per superamento del periodo di comporto; conseguente al cambio di appalto, ove il dipendente licenziato è assunto dal nuovo appaltatore; per completamento delle attività e chiusura del cantiere, nel settore delle costruzioni edili.

Altro caso dubbio da segnalare è determinato dal licenziamento per infermità sopravvenuta. Dottrina e giurisprudenza qualificano l’ipotesi di interruzione del rapporto lavorativo da ultimo citata quale giustificato motivo oggettivo, in quanto oltre alle condizioni di salute del dipendente rileva anche l’impossibilità dell’azienda di riallocare il soggetto in una posizione lavorativa conforme al suo mutato stato. Di conseguenza, in tal caso dovrebbe ritenersi applicabile la procedura oggetto del presente elaborato.

Parimenti di difficile qualificazione risulta l’interruzione del rapporto di lavoro a causa del mancato superamento del periodo di prova contrattualmente previsto. Pur essendo palese la prevalente natura soggettiva della causa del suddetto licenziamento, alcune sentenze hanno evidenziato la possibilità che l’interruzione del rapporto avvenga anche per ragioni latu sensu oggettive, quali la sopraggiunta inutilità della mansione all’interno dell’organizzazione generale dell’azienda. Giova riportare che, nonostante le citate precisazioni di parte minoritaria della giurisprudenza, l’interruzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova possiede una natura prettamente soggettiva, e spesso consegue a ragioni di carattere disciplinare. Di conseguenza, in questo caso non dovrebbe trovare applicazione il nuovo articolo 7, Legge n. 604/1966.

L’ultima ipotesi dubbia da segnalare attiene al licenziamento del lavoratore assunto con contratto di apprendistato. Il “Testo Unico dell’Apprendistato”, Decreto Legislativo n. 167/2011, anch’esso modificato dalla c.d. “Riforma Fornero”, prevede che le parti possano recedere dal contratto in due ipotesi: durante il periodo di formazione esclusivamente ove sussista una giusta causa o un giustificato motivo, ed al termine dello stesso, previo preavviso, ai sensi dell’articolo 2118 del Codice Civile. Per quanto concerne la prima ipotesi di recesso: nulla questio. La procedura conciliativa troverà applicazione solo qualora il licenziamento sia intimato a causa di un giustificato motivo oggettivo. In ipotesi di recesso al termine del periodo di formazione, invece, il procedimento in oggetto non può essere applicato, in quanto trattasi di interruzione da applicarsi a norma dell’articolo 2118 del Codice Civile, a prescindere dalla qualificazione delle ragioni.

Da quanto sin qui riportato è chiaramente desumibile la necessità di un ulteriore intervento chiarificatore da parte del Legislatore, atto a dirimere le riportate controversie interpretative, in un settore molto delicato qual è quello del mercato del lavoro. Il D.Legge 76/2013, invero, ha risposto solo in parte alle osservazioni di dottrina e giurisprudenza. Persistono tutt’oggi contesti fattuali di difficile qualificazione che potrebbero dare la stura ad interpretazioni ed applicazioni difformi o a deleterie lungaggini burocratiche.

5. Premessa l’analisi dell’ambito applicativo, oggettivo e soggettivo, della normativa ex articolo 7, Legge n. 604/1966, è ora possibile esaminare le differenti fasi che costituiscono il procedimento in oggetto. La disposizione citata impone al datore di lavoro che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rientrante nell’ambito applicativo della norma, di inviare in primo luogo una comunicazione, a mezzo raccomandata a.r., alla D.T.Legge territorialmente competente, e per conoscenza al dipendente interessato. Il documento deve obbligatoriamente menzionare il motivo alla base dell’interruzione del rapporto di lavoro, nonché le eventuali misure di assistenza finalizzate ad una eventuale ricollocazione del lavoratore. La Giurisprudenza ha specificato che sia le motivazioni, che le misure di assistenza - nella pratica solo eventuali - devono essere indicate con precisione e determinatezza (Cass. Civ. sent. 7046/2011; Cass. Civ. sent. 6625/2011).

La Direzione Territoriale del Lavoro, al fine di garantire tempi celeri per la conclusione della procedura, ha l’onere di convocare le parti dinanzi alla sottocommissione competente entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione datoriale. La Commissione territoriale è composta da rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati maggiormente rappresentative a livello territoriale. Le sottocommissioni, che nella prassi si occupano dello svolgimento della conciliazione, sono composte da un rappresentante di parte datoriale, uno di parte sindacale, ed un funzionario della D.T.Legge.

La partecipazione della parti alla procedura conciliativa è di capitale importanza. Tant’è vero che in ipotesi di legittimo e documentato impedimento del dipendente a presenziare all’incontro, il procedimento può essere sospeso per un massimo di 15 giorni. Qualora, invece, le parti non si presentino in assenza di un giustificato motivo, si procede alla redazione di un verbale. Il datore di lavoro, ed il lavoratore, hanno la facoltà di farsi rappresentare dalle associazioni di categoria a cui sono iscritti, o a cui hanno concesso mandato, ovvero da un avvocato, da un consulente del lavoro, o altresì da un componente delle R.S.A. e delle R.S.U..

L’intera procedura deve compiersi entro 20 giorni dalla data di convocazione dell’incontro. Il termine può essere superato, anche su richiesta della commissione, esclusivamente ove necessario a raggiungere un accordo.

Qualora le parti non raggiungano un accordo, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore, previa redazione di un apposito verbale di mancata conciliazione. Parimenti, l’imprenditore può interrompere il rapporto di lavoro, ove trascorsi 7 giorni dalla ricezione della propria richiesta di incontro da parte della D.T.Legge, quest’ultima non abbia provveduto a convocare le parti interessate.

Il Legislatore specifica, inoltre, che “il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutata dal Giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 18, settimo comma, della legge n. 300/1970 e per l’applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile”.

Giova evidenziare che il licenziamento intimato al termine della procedura ha effetto dal giorno in cui il procedimento è stato avviato.

La procedura di cui all’articolo 7, Legge 604/1966 può concludersi positivamente, e le soluzioni posso essere plurime, anche alternative alla risoluzione del rapporto. In quest’ultimo caso, la Commissione redige un verbale contenente i contenuti dell’accordo, quali ad esempio il trasferimento del dipendente, ovvero la trasformazione della tipologia contrattuale. Qualora, invece, il tentativo di conciliazione si concluda con una risoluzione consensuale del contratto, la Commissione è onerata dalla redazione di un verbale che riporti tutti i dati assunti nelle more della procedura, nonché i contenuti di natura economica inerenti la risoluzione consensuale.

Secondo parte della dottrina, infine, in sede di procedura conciliativa sarebbe possibile anche addivenire alla composizione di altre questioni di natura economica, ove, però, il lavoratore fosse preventivamente edotto della definitività delle scelte ivi compiute.