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Risarcimento danni e mancanza di consenso informato

La recente pronunzia della Corte di Cassazione (20 agosto 2013 n.19220) riaccende i riflettori su una questione (a dir il vero) mai sopita nella giurisprudenza e in dottrina: quella del consenso informato nell'ambito della pratica sanitaria.

Il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: infatti, in mancanza dello stesso, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando praticato nell'interesse del paziente.

Esso, dunque, è espressione di una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto va inteso come fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico.

Il principio del consenso informato, in quanto manifestazione del diritto di autodeterminazione, trova sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art. 2 che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell'art. 13 che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica; nell'art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta a una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano, a opera del rispetto del legislatore, tutte le cautele preventive possibili atte a evitare il rischio di complicanze.

Ed invero, la sentenza in commento richiama la nota pronunzia della Corte Costituzionale n. 438 del 2008, ove si dice che il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'articolo 2 della Carta costituzionale, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della medesima Carta, i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la libertà personale è inviolabile", e che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".

Inoltre, il Giudice delle leggi richiama le numerose norme internazionali che prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell'ambito dei trattamenti medici (v. articolo 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176; articolo 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con Legge 28 marzo 2001, n. 145; articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).

La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche (v. Legge 21 ottobre 2005, n. 219, articolo 3, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; Legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 6, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; Legge 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 33, Istituzione del servizio sanitario nazionale).

Ciò pone in risalto la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'articolo 32 Cost., comma 2.

Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute. Come è stato ben rimarcato dalla sentenza in commento, la responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo del consenso informato discende:

a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto;

b) dal verificarsi – in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.

Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, la circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (in argomento v.  anche Cass. 27 novembre 2012, n. 20984; Cass. 28 luglio 2011, n. 16543). Si precisa che il consenso, perché sia realmente consapevole, deve essere “informato”. Il che comporta una specifica e particolareggiata informazione, da parte del sanitario, tale da implicare “la piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative” (Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it. 2001, I, 2504 con nota di R. PARDOLESI; in Giust. civ. 2001, I, 2066; in Danno e resp. 2001, 12, 1165 con nota di M. ROSSETTI).

Deve, infine, essere reale ed effettivo, e non già presunto; attuale (non già anticipato), deve cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento, ed è sempre revocabile.

La giurisprudenza assolutamente prevalente nega, infatti, che assuma rilievo il c.d. consenso presunto, ovvero quello mancante ma che si ritiene sarebbe stato prestato se il paziente avesse potuto farlo (v.  Cass. 27 novembre 2012 n.20984, in  9 febbraio 2010 n.2847 , in Danno e resp., 2010, 685, con nota di R. Simone, Consenso informato e onere della prova; per altro caso più risalente v. Cass. 21 aprile 1992, Massimo, in Cass. pen., 1993, I, con nota di MELILLO, 63 e ss. Contra, Cass., sez. IV, 28 novembre 2003, n. 45976, nella quale si afferma “per quel che riguarda, infine, il consenso del paziente, (…) il consenso deve essere reale, informato, pacifico o, se ne ricorrono le condizioni, presunto… nelle ipotesi di impossibilità materiale di manifestazione del consenso e di urgente necessità terapeutica”).

La giurisprudenza si occupa anche della prova dell’intervenuto consenso da parte del paziente, e ritiene che questa pacificamente possa essere fornita mediante la sottoscrizione di moduli prestampati di consenso informato ampiamente diffusi nella prassi ospedaliera. La sentenza in commento rafforza la già granitica corrente giurisprudenziale che ha, peraltro, precisato come detta sottoscrizione non esonera affatto il sanitario dal fornire al paziente le dovute informazioni verbali, in termini comprensibili al suo livello culturale ed intellettuale ed inoltre, salvo i casi di interventi di routine, non esonera da responsabilità ove il modulo contenga “indicazioni generiche e non siano inserite postille che tengano conto delle peculiarità della patologia dell’assistito e della connessa terapia” (in tal senso già si esprimeva la giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano, sez. V, 29 marzo 2005, n. 3520, in Resp. civ. e prev., 2005, 751).

La centralità del consenso informato ai fini della liceità del trattamento medico chirurgico e, per converso, la sempre maggiore puntualizzazione degli obblighi informativi gravanti sul medico, hanno portato giurisprudenza e dottrina più recenti ad interrogarsi sui profili problematici inerenti sia la natura della responsabilità connessa alla violazione degli obblighi di informativa in campo medico che la ripartizione, in tali casi, dell’onere della prova; nonché ad analizzare le condizioni di sussistenza di detta responsabilità.

Se la responsabilità per omessa informativa del medico si configura ‘indipendentemente dalla valutazione della diligente esecuzione della prestazione medica’ e, addirittura, ‘indipendentemente dall'esito peggiorativo dell’intervento praticato’ deve porsi in risalto la conseguente problematicità del quantificare il risarcimento di tale omissione. Pertanto, non vi è ormai dubbio che la violazione del consenso informato costituisce fonte di autonoma pretesa risarcitoria (v.  da ultimo, oltre alla sentenza in commento, Cassazione Civile Sez. III, 31 gennaio 2013, n. 2253).

Ai fini della responsabilità civile si può affermare che il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico in assenza di consenso informato, ovvero diverso o ulteriore rispetto a quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, sarà comunque tenuto al risarcimento dei danni conseguenti (in argomento cfr. PINNA, Autodeterminazione e consenso, cit., 598 ss.; FACCI, Il dovere di informazione del sanitario, cit., 617 ss.; ID., Violazione del dovere di informazione e risarcimento del danno, in Resp. civ. prev., 2008, 409 ss.; GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, in Resp. civ. prev., 2007, 2135 ss.) patrimoniali e non patrimoniali, anche da perdita di chance (Cfr. Cass., 28 novembre 2007, n. 24742, in Foro it. on line, la quale ha statuito che «la responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nelle condizioni di esprimere un valido ed efficace consenso informato è ravvisabile sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti, sia quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all'assenza di rischi o complicazioni derivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere»; Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769; Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., 2001, I, 2504).

Ai fini della configurazione della responsabilità del medico per omessa o inesatta informazione, infatti, è del tutto indifferente che il trattamento medico sia stato eseguito correttamente o meno, dato che lo stesso trattamento è stato comunque eseguito in violazione tanto dell’art. 32, 2º co., Cost., quanto dell’art. 13 Cost. e dell’art. 33, l. 23 dicembre 1978, n. 833 (Cfr. Cass., 14 marzo 2006, n. 6444, in Giur. it., 2007, 343, con nota di PETRI) e il paziente ha conseguentemente perso il diritto inviolabile di accettare o rifiutare il trattamento, quale manifestazione di libertà (Cfr. GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, cit., 2140, secondo cui il diritto all’autodeterminazione è leso non perché è stata pregiudicata l’integrità fisica ma perché il paziente non è stato posto nelle condizioni di decidere come preservare la propria integrità fisica).

L’obbligo d’informazione, infatti, è volto a tutelare direttamente l’autodeterminazione e la libertà del paziente. Orbene, se il consenso informato è presupposto di legittimazione del trattamento medico, e se il diritto all'autodeterminazione è autonomo e distinto dal diritto alla salute, non vi è dubbio che la violazione del dovere di informazione e di autodeterminazione, anche nel caso in cui l’intervento chirurgico abbia avuto un esito fausto, nonostante l’assenza di un danno biologico. In precedenza la giurisprudenza, peraltro non in modo costante, affermava che l’inadempimento all'obbligo informativo non era idoneo, da solo, a fare sorgere l’obbligazione risarcitoria.

A tal fine si riteneva necessario che alla lesione dell’interesse, costituzionalmente rilevante, all'autodeterminazione, si accompagnasse una lesione alla salute (Così Trib. Roma, 10 maggio 2005, in Resp. civ. prev., 2006, I, 149 ss., con nota di FACCI). Ora si dice che la mancanza di valido consenso informato determina comunque il risarcimento del danno sia per la privazione o la compromissione della libertà di autodeterminazione del paziente (Cfr. Trib. Genova, 10 gennaio 2006, in Danno e resp., 2006, 551, con nota di A. LANOTTE; App. Venezia, 4 ottobre 2004, in Danno e resp., 2005, 863, con nota di CACACE e GUERRA; Trib. Viterbo, 27 novembre 2006, in Resp. civ., 2007, 184; Trib. Milano, 14 maggio 1998, in Resp. civ. prev., 1998, 1623; Id., 4 marzo 2008, n. 2847, in La responsabilità civile, 2009, 75, con nota di ROMANA FANTELLI,) che comporta quasi sempre una conseguenza pregiudizievole nella sfera dell’individuo, sia per l’eventuale ed ulteriore pregiudizio al completo stato di benessere fisico, mentale e sociale (cfr. GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, cit., 2135 ss.; FACCI, Violazione del dovere di informazione, cit., 421 ss.).

Nell'ottica della funzione riparatoria delle responsabilità civile, se è vero che dalla lesione dell’interesse tutelato deve scaturire una perdita, una privazione di un valore non economico (Cfr. Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in Corr. giur., 2003, 1017, con nota di FRANZONI; Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, in Resp. civ. prev., 2007, 839), non vi è dubbio che per effetto della violazione del dovere di informazione, il paziente subisce una perdita della propria autodeterminazione, con conseguente privazione della libertà (può trattarsi anche di libertà religiosa, come nel caso del trattamento sanitario eseguito nonostante il legittimo rifiuto del paziente, Testimone di Geova, per motivi religiosi riportato in Trib. Milano, sez. V, 16 dicembre 2008, in Corr. merito, 2009, 493 ss., con nota di BUSI) anche di decidere se e quando e da chi sottoporsi all’intervento, nonché, in presenza di alternative diagnostiche o terapeutiche, di rifiutare ovvero differire nel tempo la scelta della terapia da seguire (cfr. Trib. Genova, 10 gennaio 2006, in Danno e resp., 2006, 551, con nota di A. LANOTTE).

La recente pronunzia della Corte di Cassazione (20 agosto 2013 n.19220) riaccende i riflettori su una questione (a dir il vero) mai sopita nella giurisprudenza e in dottrina: quella del consenso informato nell'ambito della pratica sanitaria.

Il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: infatti, in mancanza dello stesso, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando praticato nell'interesse del paziente.

Esso, dunque, è espressione di una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto va inteso come fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico.

Il principio del consenso informato, in quanto manifestazione del diritto di autodeterminazione, trova sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art. 2 che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell'art. 13 che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica; nell'art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta a una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano, a opera del rispetto del legislatore, tutte le cautele preventive possibili atte a evitare il rischio di complicanze.

Ed invero, la sentenza in commento richiama la nota pronunzia della Corte Costituzionale n. 438 del 2008, ove si dice che il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'articolo 2 della Carta costituzionale, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della medesima Carta, i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la libertà personale è inviolabile", e che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".

Inoltre, il Giudice delle leggi richiama le numerose norme internazionali che prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell'ambito dei trattamenti medici (v. articolo 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176; articolo 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con Legge 28 marzo 2001, n. 145; articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).

La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche (v. Legge 21 ottobre 2005, n. 219, articolo 3, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; Legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 6, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; Legge 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 33, Istituzione del servizio sanitario nazionale).

Ciò pone in risalto la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'articolo 32 Cost., comma 2.

Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute. Come è stato ben rimarcato dalla sentenza in commento, la responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo del consenso informato discende:

a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto;

b) dal verificarsi – in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.

Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, la circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (in argomento v.  anche Cass. 27 novembre 2012, n. 20984; Cass. 28 luglio 2011, n. 16543). Si precisa che il consenso, perché sia realmente consapevole, deve essere “informato”. Il che comporta una specifica e particolareggiata informazione, da parte del sanitario, tale da implicare “la piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative” (Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it. 2001, I, 2504 con nota di R. PARDOLESI; in Giust. civ. 2001, I, 2066; in Danno e resp. 2001, 12, 1165 con nota di M. ROSSETTI).

Deve, infine, essere reale ed effettivo, e non già presunto; attuale (non già anticipato), deve cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento, ed è sempre revocabile.

La giurisprudenza assolutamente prevalente nega, infatti, che assuma rilievo il c.d. consenso presunto, ovvero quello mancante ma che si ritiene sarebbe stato prestato se il paziente avesse potuto farlo (v.  Cass. 27 novembre 2012 n.20984, in  9 febbraio 2010 n.2847 , in Danno e resp., 2010, 685, con nota di R. Simone, Consenso informato e onere della prova; per altro caso più risalente v. Cass. 21 aprile 1992, Massimo, in Cass. pen., 1993, I, con nota di MELILLO, 63 e ss. Contra, Cass., sez. IV, 28 novembre 2003, n. 45976, nella quale si afferma “per quel che riguarda, infine, il consenso del paziente, (…) il consenso deve essere reale, informato, pacifico o, se ne ricorrono le condizioni, presunto… nelle ipotesi di impossibilità materiale di manifestazione del consenso e di urgente necessità terapeutica”).

La giurisprudenza si occupa anche della prova dell’intervenuto consenso da parte del paziente, e ritiene che questa pacificamente possa essere fornita mediante la sottoscrizione di moduli prestampati di consenso informato ampiamente diffusi nella prassi ospedaliera. La sentenza in commento rafforza la già granitica corrente giurisprudenziale che ha, peraltro, precisato come detta sottoscrizione non esonera affatto il sanitario dal fornire al paziente le dovute informazioni verbali, in termini comprensibili al suo livello culturale ed intellettuale ed inoltre, salvo i casi di interventi di routine, non esonera da responsabilità ove il modulo contenga “indicazioni generiche e non siano inserite postille che tengano conto delle peculiarità della patologia dell’assistito e della connessa terapia” (in tal senso già si esprimeva la giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano, sez. V, 29 marzo 2005, n. 3520, in Resp. civ. e prev., 2005, 751).

La centralità del consenso informato ai fini della liceità del trattamento medico chirurgico e, per converso, la sempre maggiore puntualizzazione degli obblighi informativi gravanti sul medico, hanno portato giurisprudenza e dottrina più recenti ad interrogarsi sui profili problematici inerenti sia la natura della responsabilità connessa alla violazione degli obblighi di informativa in campo medico che la ripartizione, in tali casi, dell’onere della prova; nonché ad analizzare le condizioni di sussistenza di detta responsabilità.

Se la responsabilità per omessa informativa del medico si configura ‘indipendentemente dalla valutazione della diligente esecuzione della prestazione medica’ e, addirittura, ‘indipendentemente dall'esito peggiorativo dell’intervento praticato’ deve porsi in risalto la conseguente problematicità del quantificare il risarcimento di tale omissione. Pertanto, non vi è ormai dubbio che la violazione del consenso informato costituisce fonte di autonoma pretesa risarcitoria (v.  da ultimo, oltre alla sentenza in commento, Cassazione Civile Sez. III, 31 gennaio 2013, n. 2253).

Ai fini della responsabilità civile si può affermare che il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico in assenza di consenso informato, ovvero diverso o ulteriore rispetto a quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, sarà comunque tenuto al risarcimento dei danni conseguenti (in argomento cfr. PINNA, Autodeterminazione e consenso, cit., 598 ss.; FACCI, Il dovere di informazione del sanitario, cit., 617 ss.; ID., Violazione del dovere di informazione e risarcimento del danno, in Resp. civ. prev., 2008, 409 ss.; GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, in Resp. civ. prev., 2007, 2135 ss.) patrimoniali e non patrimoniali, anche da perdita di chance (Cfr. Cass., 28 novembre 2007, n. 24742, in Foro it. on line, la quale ha statuito che «la responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nelle condizioni di esprimere un valido ed efficace consenso informato è ravvisabile sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti, sia quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all'assenza di rischi o complicazioni derivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere»; Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769; Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., 2001, I, 2504).

Ai fini della configurazione della responsabilità del medico per omessa o inesatta informazione, infatti, è del tutto indifferente che il trattamento medico sia stato eseguito correttamente o meno, dato che lo stesso trattamento è stato comunque eseguito in violazione tanto dell’art. 32, 2º co., Cost., quanto dell’art. 13 Cost. e dell’art. 33, l. 23 dicembre 1978, n. 833 (Cfr. Cass., 14 marzo 2006, n. 6444, in Giur. it., 2007, 343, con nota di PETRI) e il paziente ha conseguentemente perso il diritto inviolabile di accettare o rifiutare il trattamento, quale manifestazione di libertà (Cfr. GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, cit., 2140, secondo cui il diritto all’autodeterminazione è leso non perché è stata pregiudicata l’integrità fisica ma perché il paziente non è stato posto nelle condizioni di decidere come preservare la propria integrità fisica).

L’obbligo d’informazione, infatti, è volto a tutelare direttamente l’autodeterminazione e la libertà del paziente. Orbene, se il consenso informato è presupposto di legittimazione del trattamento medico, e se il diritto all'autodeterminazione è autonomo e distinto dal diritto alla salute, non vi è dubbio che la violazione del dovere di informazione e di autodeterminazione, anche nel caso in cui l’intervento chirurgico abbia avuto un esito fausto, nonostante l’assenza di un danno biologico. In precedenza la giurisprudenza, peraltro non in modo costante, affermava che l’inadempimento all'obbligo informativo non era idoneo, da solo, a fare sorgere l’obbligazione risarcitoria.

A tal fine si riteneva necessario che alla lesione dell’interesse, costituzionalmente rilevante, all'autodeterminazione, si accompagnasse una lesione alla salute (Così Trib. Roma, 10 maggio 2005, in Resp. civ. prev., 2006, I, 149 ss., con nota di FACCI). Ora si dice che la mancanza di valido consenso informato determina comunque il risarcimento del danno sia per la privazione o la compromissione della libertà di autodeterminazione del paziente (Cfr. Trib. Genova, 10 gennaio 2006, in Danno e resp., 2006, 551, con nota di A. LANOTTE; App. Venezia, 4 ottobre 2004, in Danno e resp., 2005, 863, con nota di CACACE e GUERRA; Trib. Viterbo, 27 novembre 2006, in Resp. civ., 2007, 184; Trib. Milano, 14 maggio 1998, in Resp. civ. prev., 1998, 1623; Id., 4 marzo 2008, n. 2847, in La responsabilità civile, 2009, 75, con nota di ROMANA FANTELLI,) che comporta quasi sempre una conseguenza pregiudizievole nella sfera dell’individuo, sia per l’eventuale ed ulteriore pregiudizio al completo stato di benessere fisico, mentale e sociale (cfr. GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, cit., 2135 ss.; FACCI, Violazione del dovere di informazione, cit., 421 ss.).

Nell'ottica della funzione riparatoria delle responsabilità civile, se è vero che dalla lesione dell’interesse tutelato deve scaturire una perdita, una privazione di un valore non economico (Cfr. Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in Corr. giur., 2003, 1017, con nota di FRANZONI; Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, in Resp. civ. prev., 2007, 839), non vi è dubbio che per effetto della violazione del dovere di informazione, il paziente subisce una perdita della propria autodeterminazione, con conseguente privazione della libertà (può trattarsi anche di libertà religiosa, come nel caso del trattamento sanitario eseguito nonostante il legittimo rifiuto del paziente, Testimone di Geova, per motivi religiosi riportato in Trib. Milano, sez. V, 16 dicembre 2008, in Corr. merito, 2009, 493 ss., con nota di BUSI) anche di decidere se e quando e da chi sottoporsi all’intervento, nonché, in presenza di alternative diagnostiche o terapeutiche, di rifiutare ovvero differire nel tempo la scelta della terapia da seguire (cfr. Trib. Genova, 10 gennaio 2006, in Danno e resp., 2006, 551, con nota di A. LANOTTE).