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Sicilia: l’iperanomia di cui è affetta la Valle dei Templi. “Troppe leggi, nessuna legge”, fra abusivismo e danno all’immagine

1. Introduzione 2. La Valle dei Templi e la successione di norme 3. La potestà normativa della Regione Sicilia in materia di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” e successione delle norme. Effetti: antinomia e iperanomia 4. La giurisprudenza e i vincoli di inedificabilità assoluta e relativa 5. L’inerzia e il danno all’immagine della P.A. da abusivismo 6. Conclusioni

1. Introduzione
Il presente contributo prende spunto dalle recenti vicende che hanno riportato in massima evidenza un problema in realtà mai sopito, il quale, dalla metà degli anni Sessanta ad oggi, non ha ancora trovato soluzione, “sperduto” com’è nella stratificazione dei più svariati complessi normativi: ci si riferisce all’individuazione esatta del perimetro della Valle dei Templi, con le ricadute conseguenti sul tema dell’abusivismo in una delle aree archeologico-monumental-pesaggistiche più importanti e belle d’Italia.
L’attualità del tema deriva dalla concomitanza di alcuni eventi: la pronuncia di poche settimane fa della sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei Conti, che ha respinto il ricorso per revocazione della sentenza n. 548 del 2012[1]; il rilievo dato da alcuni amministratori della città di Agrigento, indipendentemente dalla spinta motivazionale che non forma oggetto d’indagine, e l’annullamento del PRG di Agrigento.
Ciò non toglie l’enorme portata generale dell’argomento, poiché interseca discipline del diritto pubblico oggi più che mai in auge ed all’attenzione dell’opinione, quali l’urbanistica-edilizia (di cui la disciplina sugli abusi è parte, così come l’espropriazione), la materia dei beni culturali e del paesaggio, la legalità e la correttezza dell’agére amministrativo, sfociante nella responsabilità per danno all’immagine e risarcitoria connesse all’abusivismo edilizio.
Pertanto, è da salutare come dato positivo il tema sollevato da alcuni amministratori sul farraginoso complesso normativo sotteso alla perimetrazione della Valle dei Templi, reso ancor più complicato dal reente annullamento del PRG della città, perchè lo studioso, l’appassionato della materia, può solo tentare di operare una ricostruzione super partes, lontana dalle polemiche politiche, ed ancorata ai soli principi di diritto ed ermeneutica fondata su scienza e coscienza.
Ciò detto, l’iperanomia è un termine ossimorico, ovvero una parola creata dalla somma di due termini antitetici, qual è “iper” (tanto, più del normale), con “anomia” (assenza di norme). Con ciò si vuole alludere al fenomeno per il quale, a fronte di una eccessiva produzione normativa, si determina l’impossibilità di concreta applicazione proprio in virtù della quantità.
In altre parole “tante leggi, nessuna legge”. Talmente è vero, che quando vi siano incertezze riguardo ai contenuti delle norme da applicare, laddove siano previste sanzioni, esse non si applicano se non è chiara la violazione.
La vicenda della corretta “perimetrazione” della Valle dei templi, come si è detto, è stata riportata agli onori delle cronache negli ultimissimi tempi, poiché il continuo susseguirsi di condoni, espropri e ordini di demolizioni mai attuati, ha reso “incerto” il diritto più “certo”, dimostrando così l’impellente necessità di stabilire un discrimen netto – anche a seguito delle recenti pronunce (fra cui si annovera anche la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale della Sicilia, n. 548 del 16 febbraio 2012, su cui pure ci si soffermerà) – su quali sono e fino dove operano i vincoli archeologici, urbanistici, idrogeologici, paesaggistici, panoramici sulla Valle dei Templi, per risolvere la querelle infinita delle centinaia di edifici costruiti abusivamente nell’area di maggior pregio ed ivi mantenuti.
Il tema sollevato recentemente punta il dito contro le diverse perimetrazioni dell’area – di differente ampiezza a seconda della norma impositiva (vale a dire, “speciale”, quella di protezione civile, dovuta al rischio idrogeologico; “generale”, quella relativa ai beni culturali) – a ragion delle quali la perimetrazione sarebbe stata eccessivamente estesa, al di là della delimitazione topografica della Valle, includendo edifici che, viceversa, valendo la perimetrazione “storico-archeologica” ne resterebbero esclusi, con salvezza delle singole proprietà ed effetti favorevoli sulle cause in corso.
Tanti e tali i risvolti non solo culturali ed ambientali, ma sociali ed economici, che in più occasioni era stata politicamente paventata – anche in tempi recenti – l’ipotesi del “ridimensionamento del perimetro della fascia di tutela assoluta”, con l’intento di escludere dal vincolo le zone in cui maggiormente si era concentrata l’edificazione abusiva, alimentando ovvie aspettative, il cui culmine coincise con il varo della legge n. 47 del 1985, in cui queste aspettative franarono categoricamente, vista la previsione di esclusione dalla sanatoria delle opere realizzate nelle zone di maggior pregio, fra cui, ai fini che qui interessano, la Zona della Valle dei Templi.
In disparte l’ingorgo normativo che caratterizza tale area geografica, e il relativo “disordine” applicativo, di cui si dirà nel prosieguo, neppure la copiosa giurisprudenza, più volte interpellata per dirimere i singoli casi portati alla sua attenzione, è mai intervenuta a riportare “ordine” con una ricostruzione normativa puntuale. Così come la recente pronuncia della Corte dei Conti, la quale poggia le proprie basi di giudizio su un dato generale - l’abusivismo “mappato” post L. 47 del 1985, i decreti di demolizione emessi di conseguenza e non eseguiti – senza, ancora una volta, interrogarsi sulla successione delle leggi nel tempo e nello spazio.
Eppure nel caso specifico si tratta di dirimere una querelle che dovrebbe appassionare, atteso il valore incredibile del locus de quo, patrimonio storico, di grande bellezza e rarità, dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1997, per il quale l’odierno dibattitonon è secondario da appianare, visto che appunta l’indice sulla necessità di verificare i confini sulla base delle vigenti norme al fine di incidere in misura maggiore o minore sulla legittimità (o abusivismo) di centinaia di edifici.

2. La Valle dei Templi e la successione di norme

La ricerca della perfezione della norma a volte confligge con il naturale spirito della legge. In passato si diceva “ponete leggi semplici e norme essenziali, e lasciate alla giurisprudenza il compito di applicarle con equilibrio e duttilità alle possibili fattispecie”. E ciò aveva una sua logica: i tempi della produzione normativa sono più lunghi dell’adattamento di essa ai casi concreti, che invece mutano con la rapidità con cui muta il tessuto sociale.
Già nel 1984, un importante studioso, il professor Sabino Cassese, in occasione di un Convegno a Pavia su “Regolamentazione e deregolamentazione amministrativa e legislativa”, ebbe modo di affermare che l’ingovernabilità (di una determinata situazione) è causata da troppe leggi: una battuta, questa, che appariva quale esortazione e, al tempo stesso, constatazione delle difficoltà in cui si muove chiunque debba applicare una legge per regolare un caso specifico.
Non ogni ambito in cui vi è iper normazione può dirsi uguale: vi sono tuttavia materie per le quali l’incertezza normativa, la difficoltà di comprendere quale corpus applicare (per il fatto dell’intersecazione di numerose discipline), ecc., è più grave di altri e può produrre danni incommensurabili e, soprattutto, irrimediabili.
È il caso dei beni culturali, dell’ambiente, del paesaggio e di tutti quei beni che oggi vengono accomunati sotto la locuzione, oggi tanto di moda, di “beni comuni”, di cui il nostro Paese concentra all’interno del proprio territorio un notevole patrimonio, anzi, la quasi totalità del patrimonio culturale mondiale.
Di “beni comuni” si parla per lo più con un ruolo sempre più centrale nel dibattito pubblico e nella mobilitazione politica, in relazione a risorse naturali come l’acqua, l’ecosistema, le risorse non riproducibili (si pensi al recente referendum sull’acqua pubblica), ma è bene rammentare come in essi sono da ricomprendere anche il capitale storico, artistico, ambientale, interessati dalle conseguenze di una sregolata fruizione e della crisi economica che ne limita la tutela e conservazione, generandosi in tal modo minacce sulla stessa fisica esistenza di monumenti ed aree - che vanno dal degrado allo spreco, dall’abuso alla mancanza di cura. Questo stato oggettivo di cose ha sempre determinato uno stretto connubio tra settori, apparentemente molto distanti tra loro, ma nella sostanza e col passare del tempo, sempre più affini, quali la cultura, il territorio, l’economia, il turismo, le infrastrutture.
Fatta questa generale premessa, per un appassionato della materia, uno dei casi più emblematici - per la summa di questioni che in esso racchiude - è proprio quello della Valle dei Templi di Agrigento, Patrimonio Unesco dell’Umanità dal Novembre 1997.
In un importante scritto[2] l’autore ebbe modo di affermare che "quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con un complesso di inferiorità”, rendendo evidente il concetto secondo cui chi si accinge a trattare temi connessi in qualche modo con la „cultura” intesa nel significato vasto che le è proprio, deve limitarsi ad approfondire i temi legati al proprio ambito di competenza, senza tentare – per diletto personale – di travalicare in difficoltosi terreni teorico-filosofici die quali, spesso, non detiene specifiche o approfondite conoscenze[3].
Seguendo questo saggio consiglio, poiché sugli interessanti profili storici e culturali relativi al territorio in esame la bibliografia è ricca, ad essa si rinvia, concentrando l’attenzione su quanto d’interesse, e segnatamente sulla sulla legislazione - di natura e fonti differenti - che nell’ultimo secolo tempo si è prodotta e stratificata, formando una amalgama indistinta che, contrariamente all’intento originario di ampliare le tutele, ne ha reso così difficoltosa l’applicazione da determinare l’allargamento progressivo delle “maglie” di protezione fino a sconfinare nell’ampia prateria ove le “troppe leggi” sfociano in “nessuna legge”.
In siffatte situazioni proliferano le pronunce giurisprudenziali - amministrative, ordinarie, contabili - che tuttavia hanno il limite di arginare la situazione dedotta in giudizio a scapito dell’ordinata e coordinata azione complessiva dello stato dei luoghi.
Ovviamente ci si riferisce in primis alle problematiche determinate dall’abusivismo edilizio, le quali - in via diretta o indiretta - producono danni di tipologie varie e con conseguenze vaste. Senza obliterare in ogni caso i riflessi di ciò sulla “cultura” e il paesaggio, che in casi quali la Valle dei Templi, si sommano e spesso si fondono.
In Sicilia, come in tanti altri luoghi in Italia senza particolari distinzioni geografiche, negli anni passati (in particolare dagli anni sessanta), l’abusivismo edilizio non era vissuto con l’odierno disvalore, poiché - in assenza di norme specifiche - il fenomeno veniva per lo più “giustificato” dal fine intrinseco, connesso al raggiungimento di un determinato benessere legato a valori quali la casa e la famiglia.
Il caso della Valle dei Templi, si è detto, è emblematico proprio in considerazione dell’iper normazione che l’ha riguardata. Ciò, a partire dalle norme nazionali in materia di vincoli archeologici, idrogeologici, paesaggistici, passando per le norme regionali (perimetrazioni, parchi archeologici, urbanistiche), e per finire alle disposizioni regolamentari locali - che stratificando disordinatamente disposizioni le une sulle altre, delimentando aree e perimetri, ha condotto a quella che nella titolazione del presente contributo è stata definita “iperaomia”, ovvero l’ossimoro per eccellenza del „troppo” che finisce per divenire il “nulla”. Con la conseguenza che – nell’incertezza della vigenza/prevalenza (e della gerarchia delle fonti) dei complessi normativi "Gui-Mancini”, "Misasi-Lauricella”, “Nicolosi”, ecc., recanti perimetrazioni dell’area della Valle dei Templi diversificate a seconda del fine perseguito – gli assetti urbanistici delle zone in questione non trovano pace. Da qui la vexata quaestio: quale perimetro delimita l’area della c.d. “Valle dei Templi” ai fini della legittimità dell’edificazione?
La ricostruzione legislativa è d’obbligo per tentare di apportare un contributo chiaro e comprensibile nel panorama denso di cui si è sin qui detto, ove gli elementi di novità intervenuti nel tempo non hanno rarefatto il peso di una legislazione precedente, rispondente ad un concetto di cultura che non nasceva dall’alto ma da un dato di coscienza spontanea che si ritrova sin dalle primissime leggi (legge “Rosada” 20 giugno 1909, n. 364, che stabiliva e fissava norme per l’inalienabilità delle antichità e delle belle arti e del suo regolamento di attuazione del 1911), culminate in un accrescimento di sensibilità con l’emanazione della “Legge Bottai” 1 giugno 1939, n. 1089, sui beni culturali, di riconosciuta ispirazione liberale seppur nata in un periodo storico ben preciso, quello fascista, notoriamente molto attento alla cura della “bellezza”.
Coeva fu la legge relativa alla tutela delle "bellezze panoramiche e naturali”, n. 1497 del 1939, corollario e completamento della disciplina tutoria dei beni culturali e dell’ambiente in cui si collococa per il valore che gli uni traggono dall’altro in un rapporto di scambio vicendevole.
Le citate leggi, redatte da uno dei maggiori giuristi dell’epoca, Santi Romano, hanno costituito sino al 1999 il solo ed eccellente riferimento legislativo in materia di “cose d’interesse storico, artistico e paesaggistico”, nel cui vigore la Valle dei Templi è stata assoggettata a vincolo archeologico di zona – e quindi di inedificabilità assoluta – mediante il D.M. 12 giugno 1957, includendone l’area negli “elenchi” compilati ai sensi della Legge n. 1497 del 1939 (confluiti nell’odierno art. 157 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale dispone che conservano efficacia a tutti gli effetti “(...) gli elenchi compilati ai sensi della L. n. 1497 del 1939”, nonché “le dichiarazioni di notevole interesse pubblico”, notificate ai sensi della legge medesima).
Successivamente, a causa di un evento straordinario, la gravissima frana che nel 1966 sconvolse il territorio, venne emanato il decreto legge 30 luglio 1966, n. 590, convertito con la legge n. 749 del 1966, con cui la Valle dei Templi veniva dichiarata “zona archeologica di interesse nazionale”, e contemporaneamente si rimetteva ai competenti ministeri (Pubblica Istruzione e Lavori Pubblici) l’individuazione esatta della “zona”, al fine di ancorarvi le relative prescrizioni d’uso ed i vincoli di inedificabilità.
In esecuzione del citato decreto legge, vennero emanati molteplici provvedimenti, provenienti da soggetti istituzionali differenti, in epoche successive e per eventi-finalità diverse, raggruppabili sostanzialmente in gruppi sulla base di una particolare omogeneità di tipo “temporale” dei vincoli che in essi vi sono contenuti, e così:
a) vincoli imposti prima dell’evento franoso del 19 luglio 1966;
b) atti legislativi nazionali urgenti emessi in conseguenza dell’evento franoso;
c) norme regionali in adempimento degli atti legislativi nazionali;
d) atti legislativi nazionali connessi alla situazione successiva all’evento franoso;
e) vincoli paesaggistici di cui alle leggi n. 1497 del 1939 e n. 431 del 1985, e vincoli archeologici imposti dalla legge n. 1089 del 1939;
f) norme residuali, composte da disposizioni in materia di controllo edilizio (L. 28 febbraio 1985, n. 47), in materia culturale (Circolare ministeriale BB.CC. n. 3786 del 16 ottobre 1985 relativa all’applicazione della coeva L. 47 ai beni culturali; Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004, preceduto dal "decreto Melandri”, Testo unico in materia di beni culturali e ambientali, d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490), norme "taglia leggi” (L. 6 agosto 2008, n. 133, e relativo "salvataggio” mediante d.lgs. 179 del 2009, d.lgs. 13 dicembre 2010, n. 212), ecc.
Quanto al primo gruppo di disposizioni, è da osservare come prima degli eventi franosi dell’estate del 1966, la tutela della zona de qua era affidata esclusivamente alle norme del R.D. 31 dicembre 1923, n. 3267, di “Riordino e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani” (recepito molti anni dopo, nel 1958, dall’Ispettorato delle Foreste, con cui veniva estendeso il previgente vincolo idrogeologico).
Quanto al secondo gruppo di provvedimenti vincolistici, a causa della gravissima frana del 19 luglio 1966, venne emanato il decreto-legge 30 luglio 1966, n. 590 (“Dichiarazione di zona archeologica di interesse nazionale della Valle dei Templi di Agrigento”), convertito con legge n. 749 del 28 settembre 1966. È questo l’atto che si può definire fondamentale per il futuro urbanistico di Agrigento, poiché costituisce il fondamento normativo del complesso di tutele ad oggi vigenti. In esso, l’art. 2 bis precisava: “La Valle dei Templi di Agrigento e’ dichiarata zona archeologica di interesse nazionale. Il Ministro per la pubblica istruzione, di concerto con il Ministro per i lavori pubblici, determina, con proprio decreto, il perimetro della zona, le prescrizioni d’uso e i vincoli di inedificabilita”.
L’immediata reazione fu l’emanazione del c.d. „decreto Gui-Mancini”, ovvero il “decreto” con cui definire “il perimetro della zona”, da cui scaturirono due rilevanti conseguenze: la prima fu la sottoposizione a vincolo di una vastissima area (intorno ai 1200-1300 ettari) di enorme pregio archeologico, che, per ciò stesso, venne dichiarata assolutamente non edificabile; la seconda conseguenza comportò l’ordine di demolizione di centinaia di edifici, che, non essendo mai stati eseguiti da parte della pubblica amministrazione, ha determinato riflessi rilevantissimi di cui ancora oggi si discute, e che formeranno oggetto della trattazione relativa alla responsabilità dell’amministratore del Comune per mancata adozione dei provvedimenti di polizia urbanistica, obbligatori ai sensi della L. 47/1985 e della LR 37/1985.
Questo gruppo di norme è da inquadrarsi nell’alveo dei provvedimenti urgenti, assegnati ad alcuni organi amministrativi – centrali o locali – per intervenire in deroga al diritto vigente per fronteggiare situazioni d’emergenza. Si tratta per lo più di disposizioni di livello legislativo che disciplinano in modo eterogeneo e (almeno dovrebbero), contingibile ed urgente, situazioni di natura e contenuto diversificato.
Da qui il problema dell’ultrattività di questo gruppo di norme trascorso il periodo di emergenza, e dello „scontro” che esse possono determinare nella sfera di competenza di altri provvedimenti, di natura ordinaria o speciale.
Nel terzo gruppo possono ricomprendersi gli atti legislativi regionali emessi in adempimento del “decreto Gui-Mancini”: si giunse così all’emanazione del decreto Assessorile 23 dicembre 1968, n. 567, di approvazione dei vincoli idrogeologici ed urbanistici proposti dalla commissione d’indagine tecnica sulla frana, la famosa “Commissione Grappelli”.
Al quarto gruppo sono riconducibili i provvedimenti legislativi (nazionali) necessari a fronteggiare il periodo successivo all’evento franoso, che portò all’emanazione del D.M. 7 ottobre 1971 (noto come “decreto Misasi-Lauricella”), di modifica del decreto “Gui-Mancini del 16 maggio 1968, a mezzo del quale la determinazione del perimetro della Valle dei Templi venne ampliata, inserendo nella c.d. Zona A, altre zone in quanto ritenute strettamente contigue alla zona archeologica e/o afferenti alla visuale (panoramica) dei monumenti, nell’ottica dell’“insieme”. Con il successivo „decreto Nicolosi” n. 91 del 16 giugno 1991 (allora presidente della Regione), le prescrizioni del D.M. 7 ottobre 1971 vennero ulteriormente modificate.
In particolare, mediante il testé citato decreto, il Presidente della Regione Siciliana Nicolosi intervenne - con la competenza legislativa primaria che gli era propria – sul perimetro della Valle dei Templi, disponendo, da un lato, che il confine del Parco archeologico coincideva con il confine della zona A fissato dal precedente D.M. 16 maggio 1968 (Gui-Mancini), come modificato con D.M. 7 ottobre 1971 (Misasi-Lauricella), dall’altro, venne ampliata la zona B (con l’unico neo dell’innalzamento dell’indice massimo fondiario), e dichiarate le altre zone (B, C, D, E), territorio di completamento e di rispetto necessario all’esistenza e al godimento del Parco e dei suoi valori.
Un quinto gruppo aggiunge a questi vincoli prettamente paesaggistici, idrogeologici ed urbanistici – che caratterizzano la normazione meglio nota come “Gui-Mancini-Nicolosi” - vincoli ulteriori, connessi alle dichiarazioni di notevole interesse pubblico di natura archeologica, apposti prevalentemente negli anni tra il 1967 e il 1983 ai sensi della legge n. 1089 del 1939, relativi ad alcune specifiche località della zona.
Infine, un gruppo definibile di “normazione residuale” che ha introdotto una discreta plurivocità e fumosità in materia, atteso che la legge n. 749 emanata successivamente alla frana del 1966 era stata dapprima abrogata mediante l’Allegato A, previsto dall’art. 24 della L. n. 133 del 2008, poi „salvata” con il d.lgs. 179 del 2009, e confermata nel 2010, con il d.lgs. 212 del 13 dicembre. Proprio la situazione determinata con i provvedimenti c.d. „taglia leggi”, ha ingenerato ulteriori dubbi sulla vigenza delle norme (uniti a quelli sulla prevalenza), sulla reviviscenza di provvedimenti di matrice differente ed aventi finalità differenti, e sulla certezza del diritto relativamente ai vincoli archeologici, paesaggistici, conservativi, panoramici e d’insieme sul territorio in esame, mantenendo non sopito il grave problema della definizione certa ed univoca di governo del territorio, al fine di individuare ciò che debba ritenenersi abusivo e ciò che al contrario debba ritenenrsi legittimo.
Ciò detto, la panoramica sul quadro normativo rilevante ai fini che qui interessano, trova completamento con i principali atti regionali al riguardo:
a) la Legge Regionale 1 settembre 1993 (Finanziaria regionale), con cui venne prevista l’istituzione di un sistema di parchi archeologici della Regione Siciliana (art. 107), per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale delle aree archeologiche di interesse primario. In essa è disposto che la perimetrazione di dette aree è proposta dalle Soprintendenze sentito il parere di alcuni organismi predefiniti, al fine di acquisire l’area così definita al demanio regionale (ex art. 21, L.R. n. 80 del 1977).
Tra le previsioni dettate nel 1993 e la definizione delle competenze del parco Archeologico al fine di dare avvio alla sua realizzazione concreta, si è dovuto attendere sino al 2000, quando è interventua l’approvazione della L.R. n. 20. In essa sono stati definiti i criteri e la perimetrazione delle zone in cui esso si articola (ed è dello scorso mese di novembre la nomina del Commissario Straordinario per il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei templi).
b) La legge regionale 3 novembre 2000, n. 20, molto importante in considerazione delle previsioni in essa contenute, atteso che la Regione Sicilia detiene in subiecta materia la potestà legislativa esclusiva. E, nell’esercizio di tale potestà, la regione ha precisato che il “perimetro” del Parco archeologico è quello delimitato dall’art. 1 del decreto del Presidente della Regione Siciliana del 13 giugno 1991, ai sensi dell’articolo 25 della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, e, soprattutto, ha precisato che i suoi confini non possono subire variazioni in diminuzione.
Con un “punto” successivo (il “c”), dovrebbe trovar spazio anche lo strumento normativo “locale”, il piano regolatore della Città di Agrigento, approvato con decreto del 28 ottobre 2009 (G.U. Regione Siciliana n. 60 del 24.12.2009), senonché, in conseguenza di un ricorso straordinario proposto dal Comune stesso, le Sezioni riunite del C.G.A., con parere n. 1229/11 del 6.3.2012, hanno accolto il ricorso e, per l’effetto, annullato il decreto dell’Assessorato regionale al Territorio e Ambiente con cui il piano regolatore era stato approvato.
Tale fatto assume rilievo particolare e specifico, laddove con l’annullamento del provvedimento regionale in questione, sono state travolte le prescrizioni introdotte dalla Regione relativamente alle autorizzazioni previe ex artt. 21 e 146 del Codice dei Beni culturali, d.lgs. n. 42/2004, per gli interventi ricadenti in determinate aree vincolate. Malgrado ciò, esso era stato applicato come nulla fosse, sino a quando, nei giorni scorsi, con sentenza n. 399 del 10 febbraio 2014, il TAR di Palermo ha evidenziato come il PRG 2009 di Agrigento “è già stato annullato, con efficacia erga omnes, con decreto del Presidente della Regione Siciliana del 14 giugno 2012, pubblicato nella G.U.R.S. n. 47 del 02.11.2012”, in conseguenza del parere del C.G.A. di cui si è detto.
Le conseguenze sono ovviamente gravissime. Soprattutto perchè si intersecano in un ambito già fortemente compromesso, in cui si aggiungono agli endemici problemi, ulteriore “abusivismo” indotto dal rilascio di titoli nell’arco di un decennio sulla base di uno strumento nullo e non più valido. In tale strumento urbanistico, infatti, è definita “area archeologica principale” l’ambito interno al perimetro del parco archeologico che coincide con la “zona A” (D.P.R.S. “Nicolosi”, art. 1, n. 91/1991), con la precisazione che, al riguardo, non sono comprese fra le prescrizioni del piano le decisioni in merito alla definizione del progetto di parco archeologico, attesa la loro importanza e peculiarità, ma vengono demandate a successivi interventi. Quanto alla “zona B”, denominata “parco archeologico”, in essa sono state ricomprese le aree delimitate e regolate dal D.M. 16 maggio 1968 (“Gui-Mancini”), e dal successivo D.P.R.S. n. 91/1991 (“Nicolosi”). In tale zona sono state individuate diverse “sottozone”, le cui caratteristiche territoriali differenti e le numerose “edificazioni spontanee” (per usare la terminologia di Piano), non possono prescindere dalle verifiche connesse ai processi di sanatoria per gli abusi edilizi, da parte degli organi a ciò deputati, ovvero la Soprintendenza e l’amministrazione comunale, tese a definire gli eventuali abbattimenti degli edifici privi di conformità edilizia, nonché le norme tecniche per la riqualificazione degli edifici.
Il Piano regolatore generale di Agrigento presenta una peculiarità: la previsione di una - seppur tenue – possibilità di utilizzo dello strumento perequativo nella c.d. “zona B”, benché la Sicilia ancora oggi tardi a regolarne l’uso.
Infatti, nel prevedere che in “zona B” è stata prevista la “possibilità di edificazione all’interno del lotto, con superficie inferiore ai lotti minimi stabiliti dalle NdA, purché tali lotti risultino costituiti prima del 31 maggio 2003” [in ciò recependo l’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003, n. 326 (c.d. “terzo condono”), con cui, rifacendosi alla legge 724 del 1994 che costituisce la normativa base del “secondo condono”, traccia la procedura amministrativa concernente la sanatoria: termini, oblazione, contributo concessorio, silenzio assenso, vincoli, indifferenza rispetto ai diritti dei terzi, effetti della sanatoria sui procedimenti penali. Si stabilisce la data dell’abuso (appunto, entro il 31 marzo 2003, poi prorogato fino al 31 luglio 2004, con il decreto legge 31 marzo 2004, n. 82, convertito in L. 28 maggio 2004, n.141) e la quantità massima di costruzione condonabile (30% della volumetria esistente; 750 metri cubi del nuovo)], il Piano ha aggiunto la possibilità di inserire meccanismi perequativi, i quali per la filosofia urbanistica che li permea, consentirebbero al comune – ad esempio nelle zone dedicate alla “città pubblica”, di acquisire gratuitamente una porzione maggioritaria delle aree destinate a pubblici servizi, lasciandone una quota in cambio al privato cittadino, che può realizzare sulla quota residua una parte di edificazione residenziale, prestando attenzione ad evitare sperequazioni fra ubicazioni e dimensioni dei lotti.
Le tipologie perequative contemplate riguardano i casi in cui le superfici disponibili siano di dimensioni insufficienti per l’edificazione, prevedendo che in tali casi il lotto o l’edificabilità possa essere accorpata se il proprietario possiede anche il lotto confinante (perequazione traslata orizzontalmente), oppure possa essere trasferita (decollo) in altra zona (atterraggio) in casi diversi (assenza di altre proprietà). E’ pure previsto l’utilizzo primario del modello consensuale partecipativo, a cui è in seconda battuta affiancato un modello vicario di perequazione, che consente al Comune di farsi parte attiva nella perequazione dei diritti dei proprietari inerti.

3. La potestà normativa della Regione Sicilia in materia di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” e successione delle norme. Effetti: antinomia e iperanomia

La Sicilia è una delle cinque regioni italiane a Statuto speciale, anzi la regione a statuto speciale per eccellenza. Il che comporta una potestà legislativa primaria (esclusiva) su una molteplicità di materie, che lo Statuto siciliano elenca all’art. 14[4] . Il successivo art. 33[5] - che del primo funge da completamento - individua quali sono i “beni” su cui esercitare il potere normativo diretto e completo.
Sulle attribuzioni o i limiti della competenza legislativa in subiecta materia, venne investita la Corte Costituzionale sin dall’emanazione della legge (contingibile e urgente) statale 28 settembre 1966, n. 749 (in forza della quale venne adottato il D.M. “Gui-Mancini” del 1968). In particolare, ad essa venne sottoposta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 bis della citata legge in relazione al decreto del Ministro per la pubblica istruzione 16 maggio 1968, emanato in base a detta legge.
La Consulta ritenne incontestabile la competenza legislativa esclusiva in materia di “tutela del paesaggio “e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche” della Regione siciliana ai sensi dell’art. 14, lett. n, del proprio Statuto. Tuttavia, precisò che per la soluzione delle questioni prospettate occorreva stabilire se l’art. 14 dello Statuto avesse attribuito “direttamente” alla Regione l’esercizio dei poteri relativi alle materie in esso elencate (ovvero senza bisogno di ulteriore integrazione), e se, di conseguenza, lo Stato dovesse astenersi dall’esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa in esse.
In proposito venne rilevato come la norma in esame non contenesse la puntuale precisazione della sfera di competenza attribuita alla Regione, in considerazione del fato che alla materia afferente la tutela delle “cose d’interesse artistico e storico”, la legge statale n. 1089 del 1939 dedica svariati capi, di cui la “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” é solo un aspetto della loro tutela; da ciò la Corte Costituzionale ne trasse la convinzione che fosse necessaria una precisazione dettagliata del contenuto e dei limiti della competenza regionale, e che dovesse essere stabilito un coordinamento della funzione di conservazione attribuita alla Regione, con le altre forme di tutela delle cose artistiche e storiche, previste dalla legislazione dello Stato.
L’esercizio della competenza regionale nelle materie della tutela del paesaggio e della conservazione delle cose storiche e artistiche, in quel periodo trovava pure ostacolo nel fatto che non era ancora intervenuto il passaggio delle funzioni dello Stato alla Regione quale conditio sine qua non per l’operatività della norma in questione, “non eliminata dal carattere esclusivo della competenza che, nelle materie in esame, costituisce un unicum, rispetto alle norme della Costituzione (articolo 117) e degli altri Statuti speciali, e va considerata nel quadro della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9). Discende dalle esposte considerazioni che, nell’attuale situazione normativa, non esiste, nei confronti della Regione siciliana, un obbligo negativo dello Stato, di astensione dall’esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa nelle materie in questione” (Corte Costituzionale, sentenza 11 maggio 1971, n. 94; sentenza 11 aprile 1969, n. 74).
Nella specie, l’art. 2 bis della L. 28 settembre 1966, n. 749 ha disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all’autorità amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966, ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e dell’interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell’evento. Per il suo stesso carattere speciale, la norma impugnata non poteva determinare alcuna sottrazione alla Regione “della materia genericamente attribuita dalla norma statutaria, né preclude l’esercizio futuro della sua competenza, nella sfera che sarà precisata con le norme di attuazione”, sicché anche tenuto conto della sua natura speciale, il denunziato art. 2 bis della legge n. 749 del 1966 non venne ritenuto lesivo della competenza regionale.
Né venne ritenuto esorbitante dai limiti di attribuzione per aver esteso il vincolo a zone estranee alle ricerche archeologiche, sino ad apparire più un decreto di vincolo paesistico che di tutela del patrimonio archeologico, e come tale, quindi, in contrasto col decreto del Presidente della Regione 6 agosto 1966, n. 807, che era già intervenuto apponendo il vincolo paesistico. Al riguardo, sempe la Consulta ebbe modo di chiarire che il “decreto Gui-Mancini” del 16 maggio 1968, dopo aver determinato il perimetro dell’intera zona sottoposta al vincolo, si occupò di suddividere “il territorio compreso in detto perimetro in cinque zone, disponendo per la prima di esse (zona A) una inedificabilità quasi assoluta, e per le altre una edificabilità limitata. La ragione della imposizione di vincoli a queste zone é indicata, nelle premesse del decreto, nella necessità di “salvaguardia dell’interesse archeologico nazionale del comprensorio”, e i vincoli stessi sono stati disposti in relazione alla distanza dai monumenti archeologici, allo scopo di non danneggiarne la prospettiva”, ponendo in essere unicamente prescrizioni tese alla tutela del valore archeologico della zona, in conformità all’art. 2 bis della legge n. 749.
Il decreto “Gui-Mancini” venne dunque ritenuto legittimamente emesso nell’esercizio dei poteri attribuiti dal precitato articolo al Ministro, per l’attuazione della tutela dei valori archeologici che il legislatore aveva voluto assicurare. Rimanevano comunque ferme, a parere della Consulta, in quanto compatibili con l’art. 2 bis della legge n. 749 del 1966, le disposizioni delle leggi nn. 1089 del 1939 3 n. 1487 del 1939, nonché il provvedimento del Presidente della Regione 6 agosto 1966, n. 807, emesso in qualità di organo decentrato dello Stato e, emanato in base ad esse.
Detto questo, non c’è dubbio che la regione Sicilia mantiene intatte tutte le competenze riconosciutele dallo Statuto, ancorché le stesse ricadano, in tutto o in parte, nell’area riservata allo Stato. Ma v’è altresì da tenere in considerazione che il problema in esame attiene a più discipline fra loro compenetrate, una su tutte quella degli edifici sorti nei diversi livelli di perimetrazione dell’area della Valle dei Templi al fine di identificarne la legittimità o abusività. Non è dunque secondario individuare il limite delle norme fondamentali e, sulla base del principio di sussiadiarietà, di quelle secondarie.
Lo statuto regionale, come si è osservato, attribuisce alla regione attraverso l’art. 14 competenze molto ampie che, tuttavia (come rimarcato dalla Consulta), ha potuto esercitare solo a partire dall’emanazione delle norme di attuazione (ad esempio, in materia di “paesaggio, antichità, musei, e belle arti” con il decreto n. 637 del 1975), con le quali sono state trasferite alla regione la pressoché totalità dei poteri già attribuiti allo Stato delle leggi del 1939. In particolare, poiché fu effettuata una operazione di tecnica legislativa ampia in base alla quale venne assegnato al “bene culturale” una nozione estesa fino a ricomprendere ogni “bene avente valore di civiltà”, la Sicilia anticipò di fatto la riforma costituzionale attuata con la legge n. 1 del 2003, attraendo a sè sia gli interventi di tutela, che gli interventi di valorizzazione del patrimonio paesaggistico-archeologico.
È stato correttamente[6] osservato che il filo conduttore della normazione siciliana si è “caratterizza per il fatto di essere conseguenza di eventi calamitosi e di rispondere, pertanto, ad esigenze particolari e contingenti, o di essere stata emanata a seguito del dibattito sul recepimento nella regione delle leggi statali di sanatoria del 1985 e del 1994, finalizzate alla repressione dell’abusivismo edilizio, abusivismo che in Sicilia è particolarmente grave anche per il fatto di colpire soprattutto aree di particolare interesse paesaggistico-culturale. Si pensi all’abusivismo nella Valle dei Templi di Agrigento”.
Sulla base del quadro sin qui tratteggiato, sono possibili alcune considerazioni conclusive, necessarie per chiarire la portata delle decisioni che hanno portato a ritenere valido un perimetro e, di conseguenza, abusivi gli edifici al suo interno ai fini risarcitori.
Sostiene uno studio[7] molto interessante che “è solo perché il perimetro della zona A non è stato modificato, in quanto ritenuto a tutti gli effetti valido per la tutela della Valle dei Templi” (ndr. Il perimetro fissato con il decreto “Gui-Mancini”, fatto proprio dalla legge regionale del 2000), “che le case non sono state sanate. Ed è solo perché queste case non sono state sanate che non ne sono state costruite altre”. Tale affermazione ha un significato che si estende oltre la locuzione posta: con essa l’autore intende evidenziare come il perimetro posto mediante decretazione d’urgenza post emergenziale (frana idrogeologica), sia tutt’ora valido indipendendentemente dalla gerarchia “decreto ministeriale/legge” delle fonti normative, ma perché non è stato modificato dalla fonte normativa che avrebbe potuto farlo: la legge regionale.
In sostanza, in assenza di diversa indicazione da parte del legislatore, l’analisi si deve appuntare sullo ius superveniens - al di là dell’incapacità di modificare situazioni consolidate - derivante da fonti istituzionali differenti ed emessa in tempi differenti. In altre parole, cosa accade se, come nel caso di specie, più norme si susseguono nel tempo aventi ad oggetto la medesima materia?
È il caso classico dell’antinomia che, per la Valle dei Templi, sfocia addirittura in quella che si è definita iperanomia. Infatti, di norma è al criterio cronologico che occorre volgersi, espresso dal brocardo lex posterior derogat priori. Ma se lex posterior è prodotta da un soggetto istituzionale diverso o per una situazione particolare da lex priori, vale la presunzione derogatoria o abrogratrice?
In tal caso, oltre al criterio codificato nell’art. 15 delle Preleggi del codice civile, soccorrono altri criteri interpretativi come nel caso in cui opera la “specialità” di una norma rispetto ad un’altra, espresso dal brocardo lex specialis derogat generali, per il quale il criterio cronologico recede e lascia il passo alla norma speciale, ad eccezione del caso in cui dalla lettera o dalla ratio si evinca la volontà abrogativa o vi sia discordanza tra le due norme tale da rendere impossibile la loro coesistenza. Parimenti è recessivo rispetto al criterio di interpretazione “gerarchico”, secondo cui lex superior derogat inferiori, in virtù del quale la norma posta da una fonte inferiore o non dotata dello stesso potere normativo non può abrogare o derogare quella posta da una fonte superiore anche qualora fosse posteriore.
La diatriba che vede contrapposta la legge statale generale (perimetrazione fissata con D.M. 12.6.1957 in attuazione delle leggi di matrice storico-culturale-paesaggistica nn. 1089 e 1497 del 1939), alla legge statale speciale (perimetrazione imposta con D.M. Gui-Mancini 16.5.1968 per rischio geologico), successiva, sulla base dei principi generali del diritto dovrebbe trovare soluzione nell’esatta applicazione di essi, determinando che il complesso normativo “Gui-Mancini”, successivo e speciale, sarebbe dotato di ultrattività, essendo in aderente antinomia con il D.M. del 1957.
Appurato il primo passaggio, avallato dalla Consulta, come sopra precisato, in virtù del quale il D.M. 16.5.1968 era da ritenere valido ed efficace, occorre vagliare l’antinomia determinatasi dopo l’emanzione delle norme regionali di cui al decreto “Nicolosi” del 1991 e, particolarmente, della L.R. 20 del 2000, secondo il criterio gerarchico d’interpretazione e sulla base dei principi espressi antecedentemente dalla Consulta.
Le particolari condizioni di autonomia godute dalle regioni ad autonomia speciale si riverberano soprattutto, come anticipato, nella potestà di emanare norme secondo i dettami e i limiti indicati dal proprio statuto, individuabili, per alcune materie, direttamente nella Costituzione, nei principi dell’ordinamento giuridico dello Stato, negli obblighi internazionali e negli interessi nazionali.
Ebbene, se in prima battuta si sarebbe potuto osservare che la norma specifica per la materia de qua fosse prevalente sulle disposizioni emergenziali di protezione civile (D.M. 16.5.1968), per le quali il perimetro della Valle era stato ampliato, cosicché venute meno le contingibilità che lo avevano determinato, il D.M. 12.6.1957 avrebbe dispiegato una vis espansiva sul complesso vincolato, schiacciando il decreto “Gui-Mancini”, la “specialità” della legislazione siciliana in materia porta a diverse conclusioni.
Ed infatti, l’analisi più approfondita porta a far emergere che - indipendentemente dalla natura giuridica del provvedimento normativo sussunto nella legge regionale siciliana n. 20 del 2000 - è a quest’ultima che occorre volgersi, essendo la Regione titolare del potere legislativo esclusivo in materia di conservazione delle antichità presenti sul proprio territorio.
Ciò porta a caducare l’ostacolo in precedenza evidenziato dalla Consulta per l’esercizio della competenza regionale nelle materie della tutela del paesaggio e della conservazione delle cose storiche e artistiche, rimosso con l’emanazione del decreto “Nencini” del 1991, decreto del presidente della regione contenente le norme di attuazione per l’operatività della norma statutaria di cui agli articoli 14 e 43 dello Statuto speciale.
Ma non ci si deve illudere che la strada tracciata (con l’emanazione della L.R. 20 del 2000) sia stata lineare e priva di insidie. Infatti, all’indomani del varo della norma, venne richiesta al Commissario dello Stato la formale impugnativa di essa innanzi alla Corte costituzionale in parte qua, in particolare dell’art. 18, che sospendeva per il periodo massimo di due anni le procedure sanzionatorie di cui alla L.R. n. 37 del 1985 (di recepimento ed applicazione in Sicilia la legge n. 47 del 1985), relative all’acquisizione degli immobili abusivi ed alla demolizione degli stessi. Ciò perchè sarebbe stato in evidente contrasto con la legge nazionale, recepita appunto dal legislatore regionale, secondo cui tutte le costruzioni realizzate abusivamente nell’area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi del D.M. di tutela della Valle di Templi del 1968 (“Gui-Mancini”), sarebbero state destinate alla demolizione. Tanto più che gran parte dei manufatti abusivi a quella data erano già stati oggetto di provvedimenti demolitori esecutivi emesso dalla Sovrintendenza ai BB.CC.AA., motivo per cui ne era disposta la sospensione biennale.
Dall’esame dei dati normativi in connessione fra loro e con la legge regionale n. 20, effettivamente emergeva una evidenza: sospendendo l’art. 18 “genericamente” le sanzioni (acquisitorie e demolitorie) per gli abusi edilizi, esso comportava l’inglobamento di qualsiasi abuso e qualunque epoca di realizzazione, neutralizzando i principi della legge statale sia quanto al tempo di riferimento dell’abuso, consentendo il superamento dei termini cronologici per beneficiare del condono, sia quanto al fine perseguito di ripristino della legalità violata, poiché solo in detta zona il limite temporale, in luogo del 31.12.1993, era fissato per saltum alla fine del 2000.
Tuttavia, il Commissario dello Stato non impugnò tale norma che divenne in tal modo definitiva.
Pertanto, da quanto sin qui argomentato è possibile concludere che la perimetrazione attualmente da ritenere valida ai fini che qui rilevano, alla luce delle fonti del diritto e della loro gerarchia, debba essere quella contenuta nel decreto P.R.S. del 1991 e nella legge regionale n. 20 del 2000.
Giuste le precedenti considerazioni, il tema assume connotati particolarmente rilevanti sul tema dell’abusivismo ed all’evoluzione dei concetti – dovuta anche all’interpretazione giurisprudenziale degli articoli 9 e 42 Cost. - secondo cui vi sono “complessi di beni e aree individuati direttamente dal legislatore in forza del loro particolare interesse ambientale determinato in funzione della loro singolarità geologica ed ecologica, connotando la struttura del territorio nazionale nella sua percezione visibile (...)”, il cui valore diviene primario, ovvero insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro (Cass. Civ., I, sentenza 22.11.2012, n. 20383).
Connatozioni che divengono maggiormente aspre se messe in relazione con l’accentuazione delle tutele apposte mediante la legge “Galasso” (L. n. 431 del 1985), che per i beni culturali e ambientali sottoposti a vincolo vietò, fino all’adozione da parte delle regioni dei piani paesistici, “ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché ogni opera edilizia (...)”, come peraltro sancito dalla (coeva) legge regionale siciliana del 10 agosto 1985, n. 37[8] , che congelò l’esame delle richieste di concessione o autorizzazione in sanatoria per le opere eseguite non conformi nell’ ambito delle zone vincolate con il D.M. 16 maggio 1968, come modificato dal D.M. 7 ottobre 1971.

4. La giurisprudenza e i vincoli di inedificabilità assoluta e relativa

Non può essere trascurata la giurisprudenza ai fini dell’analisi qui svolta.
L’abusivismo edilizio non è soltanto un fenomeno negativo relativo alla gestione del territorio, ma è soprattutto un reato contro l’ambiente e, come tale, reca un gravissimo vulnus al patrimonio pubblico, che è “bene comune”.
Ma, soprattutto quando perpetrato in aree sottoposte a vincoli, è il tipico illecito penale dal contenuto plurivoco, e cioè di disvalore sociale da un lato e, dall’altro pregno di risvolti economicamente valutabili in termini di evasione fiscale e mancati introiti.
La giurisprudenza amministrativa in merito all’abusivismo in zona vincolata ha sempre ritenuto – anche in contrasto, a volte, con l’orientamento giurisprudenziale di Palazzo Spada che ammette la sanatoria degli abusi edilizi in aree sottoposte a vincolo – che la legge impone al “dirigente comunale il diretto e repentino abbattimento dell’opera illecita” (TAR Napoli, sez. IV, n. 3780/05), in considerazione del fatto che l’art. 4, comma 2 della legge 47/1985 (ora sostituito dall’art. 27, comma 2, d.P.R. 380/2001), già allora imponeva al Sindaco (ora al Dirigente dell’ufficio), la demolizione “(…) quando accerti l’inizio di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica (…) nonché alle aree di cui alle leggi 1° giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni, il sindaco provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi (…).
L’utilizzo della forma verbale attiva (“provvede”), rende evidente l’intenzione del legislatore di ordinare che demolizione e ripristino dello status quo ante l’intervento illecito debbano “avvenire senza dilazione, senza potere discrezionale, senza analisi della dimensione e della gravità dell’opera o del danno arrecato, senza necessità di comunicazione di avvio del procedimento, senza alcuna considerazione di alternativa all’abbattimento, senza alcuna valutazione in merito alla sanabilità dell’intervento e senza alcuna analisi del pregiudizio cagionato alla rimanente parte del lavoro eventualmente regolare o del danno subito dal privato responsabile dell’abuso”[9].
Conforme all’orientamento evidenziato anche la Corte Costituzionale (ordinanza 6.3. 2001, n. 46, e la Cassazione Penale.
Tornando al caso specifico, come è stato anticipato, il tema dell’abusivismo nella Valle dei Templi è emerso con fragore in questi giorni a causa della concomitanza di alcuni eventi, quali il rigetto del ricorso per revocazione del Sindaco di Agrigento avverso la sentenza della Corte dei Conti n. 548 del 16.2.2012, e la discussione avviata dalle massime istituzioni siciliane in merito alla possibilità di varare norme per la sanatoria edilizia di immobili realizzati nelle aree gravate da vincoli paesaggistici e storico-archeologici, innescata da un recente parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa[10], originato dal convincimento della “non completa applicazione nel territorio siciliano di tutte le disposizioni richiamate nell’art. 32 della legge n. 326/2003”.
Una recente analisi[11] svolge una ampia e articolata indagine giurisprudenziale sugli orientamenti tesi a riconoscere ammissibilità “alle procedure di condono, in aree gravate da vincoli paesaggistici, per le sole opere minori” (Cass. penale, sez. IV, 12/01/2005, n. 12577; Tar Campania Napoli, sez. VI, 3/08/2005 n. 10563), dando atto nel contempo l’insuscettibilità della sanatoria per le costruzioni realizzate in area assoggettata a vincolo paesaggistico in assenza di permesso di costruire, malgrado qualche “posizione dottrinarie divergenti che avevano prospettato una interpretazione più permissiva delle disposizioni menzionate” (Cass. penale, sez. III, 28/03/2012, n. 14746).
D’altra parte, l’esclusione dalla sanatoria di tutte le opere abusive emerge per tabulas dall’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30 settembre 2003 n. 269, conv. con l. 24 novembre 2003, n. 326, laddove dispone che “le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”. Tale disposizione ha trovato pedissequa applicazione nella giurisprudenza costante (T.A.R. Veneto, sez. II, 19 giugno 2006 n. 1884; T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 16 marzo 2006 n. 3043; 8 febbraio 2007 n. 963), la quale rileva un dato oggettivamente apprezzabile nell’applicazione della previsione anzidetta subordinatamente al ricorrere di due condizioni: in primis, che il vincolo sia stato istituito prima dell’esecuzione delle opere abusive, e secondariamente che le opere, realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio siano non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Una recente pronuncia del massimo consesso della giusitizia amministrativa[12] ha precisato che sulla base della disciplina di cui al d.l. 269 del 2003, “la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purchè ricorrano le condizioni previste dall’art. 32, comma 27, lett. D), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003, vale a dire che non si tratti di opere realizzate dopo l’imposizione del vincolo ed in assenza o in difformità del titolo abilitativo che risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
A questo orientamento pare essersi uniformata la giurisprudenza consultiva siciliana, anche più recente, poiché – con pronunce pressoché costanti, assunte anche a Sezioni riunite – ha sottolineato come l’art. 32, comma 27, lett. d) del d.l. cit., preveda espressamente fra gli interventi esclusi dalla sanatoria quelli eseguiti in aree vincolate (ove il vincolo sia stato imposto prima della esecuzione degli interventi) e non conformi alla normativa urbanistica ed edilizia (C.G.A. parere n. 1140 del 19/02/2013; C.G.A. parere n. 291 del 31/01/2012; C.G.A. parere n. 1014/10 del 21/09/2010; C.G.A. parere n. 1001/10 del 14/12/2010), propendendo per una posizione, dunque, meno rigida del passato, e fondata sulla distinzione fra vincolo relativo e vincolo assoluto, ai fini dell’applicabilità del c.d. terzo condono anche agli abusi realizzati in aree soggette a vincoli relativi di inedificabilità, alle condizioni previste dall’art. 32-33 della legge n. 47/1985, recepita e modificata in Sicilia dall’art. 23 della L.R. n. 37/1985.
Gli effetti di tale distinzione fra vincolo relativo e vincolato assoluto ai fini della sanabilità di un’opera realizzata in zona vincolata, possono essere multiformi.
Generalmente i vincoli assoluti sono quelli previsti da leggi speciali a tutela di valori di particolare rilevanza, come da sempre sostenuto dalla giurisprudenza. A tale riguardo, la Cassazione ha avuto cura di precisare che quando la pubblica amministrazione appone “un vincolo di inedificabilità assoluta di alcune aree adiacenti al monumento direttamente vincolato al fine di conservare l’integrità del fondale e la vista del bene, il proprietario dell’area circostante non può apportare al suolo di sua proprietà alcuna modificazione in contrasto con la prescrizione”. La Cassazione ha operato la distinzione in esame, fra vincoli assoluti e relativi, precisando che “I divieti possono essere assoluti o relativi. Se il divieto è assoluto, l’attività vietata non può essere svolta neppure con la preventiva autorizzazione amministrativa. Nessuno può ad esempio essere autorizzato ad aprire una cava nella zona di rispetto del Colosseo o a costruire rispettando le sole distanze previste dal codice civile. La natura istantanea o permanente del reato dipende dalla natura della condotta che offende il bene tutelato. Il vincolo di inedificabilità assoluta e il divieto assoluto di svolgere una determinata attività danno solitamente luogo a reati permanenti perché l’offesa si protrae fino al ripristino della situazione ambientale precedente. Se invece trattasi di prescrizioni relative a limitazioni del diritto di edificazione, il quale potrebbe tuttavia essere esercitato previa autorizzazione preventiva dell’autorità preposta alla tutela del bene, non v’è ragione per adottare, a parità di condotta, un orientamento diverso da quello adottato da questa sezione in materia di tutela dei beni paesaggistici ossia in materia di vincoli diretti. In tali casi il reato ha sì natura permanente, ma la permanenza cessa con l’ultimazione dell’opera [13].
Quanto affermato dalla Cassazione è talmente puntuale che se ne deduce una univoca lettura: in presenza di un vincolo assoluto l’unica possibilità che l’ordinamento appronta è il ripristino della situazione ambientale quo ante, a differenza di ciò che accade nel caso di vincolo relativo, nel qual caso si assiste ad una pregnanza degli obblighi e/o pareri delle autorità preposte al vincolo.
Il tema è rilevante perchè la citata giurisprudenza del C.G.A. ha, appunto, ritenuto che in Sicilia, sulla base delle speciali norme di settore, il divieto di sanatoria va riferito esclusivamente ai vincoli di natura assoluta, e non anche a quelli di natura relativa (CGA, parere 31.1.2012, n. 291).
In conseguenza del parere anzidetto – e per arginare gli allarmismi - la regione ha adottato una circolare, la n. 2/2014[14] con la duplice funzione, di diffondere da un lato il d.P.R.S. relativo al ricorso straordinario n. 465/2013 di cui al parere del Cga, e, dall’altro lato, di precisare l’ambito applicativo della “sanatoria” consentita dal giudice amministrativo locale, delimitandola alle sole opere oggetto di condono edilizio già presentate ai sensi della L. n. 326/2013.
Resta comunque un tema di fondo, di cui si è dato atto anche in una precedente analisi[15] in materia di perequazione urbanistica, ovvero l’assenza di una moderna ed efficace gestione del governo del territorio regionale siciliano, da attuarsi mediante una riforma organica della legge urbanistica in grado di pianificare in maniera organica (e non episodica) il futuro di una delle più spettacolari regioni italiane.
Terminata la divagazione, e chiarita la differenza esegetica fra vincoli, quando si versi nel caso di un intervento abusivo accertato in un’area soggetta a vincolo assoluto e sia stata acclarata l’inerzia dell’amministrazione comunale nel disporne la demolizione (ndr. Com’è accaduto nel caso delle opere abusive realizzate nella Valle dei Templi), “è legittimo l’esercizio di poteri surrogatori da parte dell’assessorato regionale ai beni culturali e ambientali, a nulla rilevando la competenza dell’assessorato regionale per il territorio e l’ambiente per i profili edilizi ed urbanistici”[16].
Con riguardo, invece, alla specifica applicabilità nella regione siciliana della speciale disciplina dei beni culturali ed ambientali (Codice), il C.G.A. ha ritenuto che detto corpus normativo “trova applicazione in Sicilia, pur in mancanza di formale recepimento in sede regionale, in quanto la disciplina attiene specificamente non alla materia urbanistica, ma quella della tutela delle bellezze naturali, in relazione alla quale la regione siciliana ha legiferato facendo riferimento alla disciplina sostanziale statale, del resto comunque applicabile in assenza di disposizoni specifiche fonti regionali. Di talché in Sicilia le soprintendenze ai beni culturali ed ambientali hanno natura giuridica di “organi periferici” dello specifico assessorato (ndr: beni culturali e ambientali), con la conseguenza che sono organi muniti del potere-dovere di applicare e attivare le relative procedure coercitive e sanzionatorie”[17].
Ciò detto, con l’entrata in vigore del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ed in particolare dell’art. 146, comma 10, d.lgs. n. 42 del 22.1.2004, come modificato dal d.l. n. 70/2011, conv. in legge 12.7.2011, n. 106, la vera novità da registrare risiede nel fatto che l’autorizzazione paesaggistica postuma per le opere edilizie realizzate sine titulo[18] in sanatoria, ovvero “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi” edilizi (lett. c), non può più essere rilasciata, invertendosi in tal modo una “rotta”, sin lì più permissiva, che consentiva la sanatoria, anche agli effetti penali, dei c.d. “abusi minori” o “piccoli abusi”. Questo principio - costituente ius novum - trovava un limite invalicabile nel “tempo” trascorso, non consentendo più, dopo l’entrata in vigore del Codice, l’autorizzazione ex post di interventi edilizi realizzati in assenza di certificazione paesaggistica o in difformità da essa.
È questo il momento che ha segnato, in un certo senso, il punto di rottura del sistema, poiché in siffatto mutato (e chiarito) quadro normativo – statale e regionale - sono giunti a conclusione una molteplicità di giudizi inerenti i casi di abusivismo nella zona de qua, con le conseguenze note in materia, che vanno dall’ordine di demolizione da parte del Comune e, in caso di inottemperanza dell’ingiunto, all’acquisizione al patrimonio comunale al mero scopo di ripristinare la legalità violata con la successiva demolizione degli immobili. Tuttavia, le riodette conseguenze sono rimaste mere esercizi linguistici, atteso che le opere abusive nelle zone sottoposte a vincolo archeologico nella Valle dei Templi dal 1986 ad oggi, non sono state abbattute, permanendo le violazioni delle norme urbanistiche, sui cui comportamenti omissivi si è pronunciata la Corte dei Conti, dapprima con una rilevante sentenza che si andrà ad analizzare, e nei giorni scorsi, con la decisione sul giudizio di revocazione, ponendo fine alla diatriba.
Risulta tuttavia dai recenti interventi della magistratura ordinaria, come sia in atto una vera e propria ricognizione degli abusi al fine di perfezionare i relativi provvedimenti giudiziari contenenti l’ordine di demolizione. Al riguardo, è la Procura della Repubblica ad aver preso in carico l’onere di eseguire le sentenze (e, ovviamente, la legge), partendo da un censimento di tutti gli immobili risultati costruiti abusivamente, affinché il privato, in primis, ovvero l’Ente locale in caso di inadempienza, proceda alla demolizione, con le conseguenze penali e, dato rilevante, anche erariali per i danni arrecati, come dimostra la recente giurisprudenza contabile.
Proprio in materia di responsabilità contabile, con una sentenza dei giorni scorsi, la Corte dei Conti della Regione siciliana ha respinto un ricorso straordinario del pubblico amministratore (Sindaco), per la “revocazione” di una precedente sentenza, che pertanto diviene esecutiva, poiché è stato ritenuto dalla Sezione giurisdizionale d’appello che ricorressero irregolarità procedurali che si frapponevano all’accoglimento del ricorso, determinando l’effetto per cui l’ex sindaco dovrà pagare al Comune (ndr.:di Agrigento) un consistente risarcimento del danno arrecato all’immagine della città, per non avere contrastato l’abusivismo edilizio nell’area della Valle dei Templi.

5. L’inerzia e il danno all’immagine della P.A. da abusivismo
Chiariti i termini della corretta individuazione normativa del perimetro entro il quale considerare abusivamente realizzati i manufatti privi di titolo o difformi dal titolo stesso, e precisata la linea di demarcazione della liceizzazione di essi fondata sulla qualificazione giuridica del vincolo (assoluto o relativo), resta il tema che il fenomeno dell’abusivismo edilizio costituisce una ferita profonda dell’ordinamento, il cui disvalore sociale colpisce molteplici ambiti.
Uno degli aspetti involge la responsabilità di coloro che, detenendo il potere-dovere di controllo edilizio e ripristino della legalità violata, non l’hanno esercitato, determinando un danno alla pubblica amministrazione consistente anche nella perdita di fiducia nei confronti degli amministrati, di credibilità delle istituzioni, ecc., che per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione costituisce danno economicamente valutabile, e quindi sub specie del danno erariale, poiché ancorato “alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica, che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso” (Cass. S.U., sent. n. 5668 del 1997).
Quanto al tema della corretta individuazione della giurisdizione, sempre le S.U. Della Cassazione hanno precisato come essa spetti alla Corte dei Conti, ritenendo all’uopo che “il danno cagionato all’immagine dell’ente da pubblici dipendenti o altri soggetti facenti parte dell’apparato organizzativo di una pubblica amministrazione, benché non implichi una diretta diminuzione patrimoniale, è, ciononostante, passibile di valutazione economica, sotto il profilo della spesa necessaria alla ricostituzione del bene giuridico offeso. La relativa azione di responsabilità, pertanto, rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti” (Cass. S.U. n. 20886 del 2006; S.U., n. 8098 del 2007).
Con l’entrata in vigore della legge “anticorruzione” del 6 novembre 2012, n. 190 (“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”), il legislatore ha provveduto ad ampliare le attribuzioni della Corte dei Conti, anche nella materia che qui interessa, ovvero sulle azioni di merito tese a tutelare il credito erariale conseguente alla lesione dell’immagine della persona giuridica pubblica a fronte di reati commessi da parte di appartenenti alla stessa[19].
Ebbene, acclarato il dato normativo espansivo, e le novità che esso introduce nel giudizio di responsabilità con l’espressione “accertato con sentenza passata in giudicato”, la Corte dei Conti della Sicilia ha affrontato il tema della responsabilità degli amministratori con riferimento ai poteri-doveri da esercitare in materia di repressione dell’abusivismo urbanistico-edilizio nelle zone vincolate del territorio comunale, ritenendo responsabile il sindaco non solo dell’adozione “di singoli atti per cui è prevista la sua sottoscrizione, ma dell’esercizio di una funzione articolata e complessa a lui attribuita a prioritaria, ineludibile tutela della corretta osservanza delle procedure in materia urbanistico-edilizia”.
La Corte dei Conti siciliana, preso atto che con sentenza n. 262/2001 del 18/1/2002, il Giudice penale aveva condannato il sindaco ed altri amministratori della città, per i reati previsti e puniti dagli artt. 81 cpv., 110 e 323 c.p. perché, in concorso tra loro, e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusavano, del loro ufficio avendo “omesso di adottare i definitivi provvedimenti di polizia urbanistica, obbligatori ai sensi della L. 47/1985 e della LR 37/1985, in relazione a molteplici manufatti, abusivi alcuni dei quali realizzati nella zona A della Valle dei Templi”, con condanna al risarcimento dei danni, confermata dalla Corte d’Appello.
Il primo elemento degno di nota è la determinazione cui i giudici erano pervenuti nel qualificare il danno come “produttivo di un concreto risvolto patrimoniale”, a causa della mancata eliminazione del degrado paesaggistico (quale conseguenza dell’omessa repressione dell’abusivismo edilizio), il cui ripristino “richiede l’impiego di ingenti risorse economiche, tenuto conto delle vaste proporzioni del fenomeno illecito – oltre mille manufatti abusivi – nell’intero territorio del comune di Agrigento. Dall’anno 1985 al 1993 sono stati accertati n. 1136 abusi edilizi (…). Sul punto si deve tuttavia rilevare che gli abusi effettivamente commessi nell’ambito Comunale devono essere indicati in un numero di molto superiore in ragione del mancato controllo e del difetto di ogni monitoraggio del territorio (…)”. Il danno veniva poi dettagliato e suddiviso per “voci” dall’organo requirente e recepito ai fini della concreta valutazione dalla Corte contabile: “danno per scorretto utilizzo del territorio, con conseguente violazione della vivibilità ambientale e paesaggistica, “danno all’immagine”, “danno all’efficacia della pubblica amministrazione”.
Mentre sul “danno ambientale”, la Corte dei Conti ha declinato la propria giurisdizione a favore di quella del giudice ordinario[20], essa si è concentrata sul “danno all’immagine” subito dall’amministrazione comunale, ritenuto sussistere in virtù del fatto che “l’opinione pubblica ha identificato la città di Agrigento con l’abusivismo edilizio, agevolato, in dispregio ai principi di legalità, correttezza ed imparzialità, dalla spregiudicatezza di amministratori compiacenti”.
Dopo aver esaminato l’impianto normativo in materia, la Corte è pervenuta alla conclusione che, per la definizione del caso, assume rilievo applicativo la disciplina dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. 78/2009, il quale “circoscrive i casi nei quali è azionabile la pretesa risarcitoria per il ristoro del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, prevedendo che le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”, con la conseguenza che laddove sia intervenuta, a carico del convenibile innanzi alla Corte dei Conti, sentenza definitiva di condanna, la condizione è rispettata. Ed infatti, motiva la Corte, “con tale previsione è stata data valenza normativa all’orientamento giurisprudenziale secondo cui per la configurabilità di un danno all’immagine non è sufficiente la pubblica divulgazione della notizia, assistita da un sufficiente grado di attendibilità, circa le condotte lesive che ne sono alla base (indirizzo più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: tra le tante Sezione d’Appello per la Regione Siciliana sentenze nn. 61/2005, 89/2006, 162-174-308/2008 e 7-253/2009). Le condotte cui è normativamente riconosciuta l’astratta idoneità a generare danni di quella tipologia necessitano, invece, per costituire valida condizione per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa, dell’asseverazione della pronuncia penale definitiva”, circostanza prodottasi nel caso di specie.
Pertanto, è stato riconosciuto che, ai fini risarcitori, “il coinvolgimento diretto ed inequivoco del Sindaco del Comune di Agrigento, risulta per tabulas dalla stessa lettura degli artt. 4 e 7 L. 47/85 che, come motivatamente dimostrato in sentenza (…), riferisce proprio al Sindaco non solo il potere-dovere di ingiunzione della demolizione (correttamente estensibile sia alla zona A che a quella B) ex art. 8 L. cit., ma anche quello di emettere ordinanza di demolizione, una volta verificate le condizioni, anche di tempo, legittimanti detta misura. In sostanza, come puntualmente si rileva in sentenza, in subiecta materia la competenza sindacale assume caratteri di procedura “complessa”, non solo esprimentesi attraverso le richiamate ordinanze di ingiunzione alla demolizione e quelle di demolizione conseguenti, ma anche e soprattutto attraverso un potere di controllo e di direttiva nei confronti degli Uffici tecnici ed amministrativi comunali, proprio per effetto di essere il Sindaco in primis titolare e responsabile della procedura attinente l’attività urbanistico- edilizia.
Del resto, che questa sia la corretta lettura della norma, si evince proprio dallo stesso testo dell’art. 4 L. 47/85 in combinato disposto con quello di cui allo art. 7 L. cit., secondo cui è evidente che, al potere di vigilanza e controllo sull’attività urbanistico- edilizia nel territorio comunale, corrisponde un potere-dovere di sospensione dei lavori eseguiti in violazione di prescrizioni e modalità richieste in rapporto al tempo e luogo della costruzione, nonché un potere-dovere di ripristino dei luoghi stessi, mediante esecuzione della ordinanza di demolizione, conseguente alla inevasa ingiunzione a tanto, in danno dei responsabili dell’abuso. In conclusione, come motivatamente e correttamente osserva la Corte territoriale palermitana, il sindaco non risponde solo dell’adozione di singoli atti per cui è prevista la sua sottoscrizione, ma dell’esercizio di una funzione articolata e complessa a lui attribuita a prioritaria, ineludibile tutela della corretta osservanza delle procedure in materia urbanistico-edilizia”.
Chiarita la prospettiva dell’indagine, la Corte contabile ha ritenuto che il pregiudizio all’immagine dell’Ente, peraltro attuato durante un ampio arco temporale, abbia finito per incidere sugli attributi reputazionali dell’Ente, pregiudicandoli: “la compromissione dell’immagine, insomma, deriva dal fatto che è stato irritrattabilmente accertato che per un periodo prolungato l’azione amministrativa del Comune non è stata, come invece avrebbe dovuto essere, improntata al buon andamento ed all’imparzialità e ha determinato quell’effetto che la Procura ha individuato nella minore credibilità e prestigio per la P.A., ingenerando altresì nei cittadini la convinzione di una distorta organizzazione dei pubblici poteri”.

6. Conclusioni

“Tante leggi, nessuna legge”. L’incipit della presente analisi costituisce anche valido termine di conclusione.
Infatti, la cavillosità delle norme che hanno riguardato l’area della Valle dei Templi, l’anomia della disciplina urbanistica e l’iper produzione legislativa dell’emergenza, unita alla proverbiale tendenza a rimanere inerti di fronte alle questioni estremamente complesse, ha consentito di mantenere uno stato di immobilità che, nel tempo, con l’evoluzione della sensibilità sociale e della protesta civile, ha presentato il conto all’improvviso.
Le soluzioni esistono, sono numerose e valide, ma scontano un difetto, quello di scontrarsi con interessi molto forti e variegati, che potrebbero tuttavia essere mitigati con una seria politica di governo del territorio, in primis, mediante l’adozione della filosofia perequativa di pianificazione.
Il dato oggettivo, in tutto ciò, è che la Valle dei Templi è una zona di notevole interesse pubblico, dove l’aggettivo “notevole” non deve essere inteso solo quale sterile appellativo legislativo, ma nel senso proprio del termine, ovvero quale obiettivo da proteggere e valorizzare, anche mediante un’adeguata pianificazione, che sia idonea a contemperare gli interessi pubblici (culturali, paesaggistici), con gli interessi privati. Sicché è lodevole l’iniziativa degli odierni amministratori tesa a voler far luce sul complesso normativo che nel tempo ha riguardato la perimetrazione dell’area, per giungere ad una univoca lettura dei vincoli ivi operanti.
La sensazione è che la sistemazione definitiva della materia in esame (sia dal punto di vista normativo, che - in un parallelo “curioso” – pratico e concreto), sia ancora lontana, anche perchè in una sola “area” sono concentrate una varietà enorme di materie, la cui “messa a sistema” capillare meriterebbe un tavolo di competenze – tecniche, giuridiche, scientifiche e politiche - (pre)disposte al confronto ed alla discussione sui temi aperti e maggiormente controversi.
L’auspicio (e lo scopo) della presente analisi, lungi da pretese di esaustività, è dunque quello di aver apportato un ulteriore contributo alla discussione aperta in materia e, ove occorrer possa, aver offerto un metodo di lettura normativa e giurisprudenziale.

 

[1] Sul punto, cfr. un interessante contributo su questa Rivista di L.Piazza, in nota alla sentenza della Corte dei Conti, Sez. Giurisd. Sicilia, 16.2.2012, n. 548
[2] G.P. Cirillo, La "cultura" nell'ordinamento giuridico, Atti Giornata mondiale del Libro e del Diritto d’autore, Roma, 28 aprile 2003
[3] A.Trentini, Codice dei beni culturali e del paesaggio. Commentario ragionato del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Maggioli Editore
[4] Art. 14 - L'Assemblea, nell'ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie:
a) agricoltura e foreste;
b) bonifica;
c) usi civici;
d) industria e commercio, salva la disciplina dei rapporti privati;
e) incremento della produzione agricola ed industriale; valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali;
f) urbanistica;
g) lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale;
h) miniere, cave, torbiere, saline;
i) acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere pubbliche di interesse nazionale;
l) pesca e caccia;
m) pubblica beneficenza ed opere pie;
n) turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche;
o) regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative;
p) ordinamento degli uffici e degli enti regionali;q) stato giudico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione, in ogni caso non inferiore a quello del personale dello Stato;
r) istruzione elementare, musei, biblioteche, accademie;
s) espropriazione per pubblica utilità.

[5] Art. 33 - Sono altresì assegnati alla Regione e costituiscono il suo patrimonio, i beni dello Stato oggi esistenti nel territorio della Regione e che non sono della specie di quelli indicati nell'articolo precedente. Fanno parte del patrimonio indisponibile della Regione: le foreste, che a norma delle leggi in materia costituiscono oggi il demanio forestale dello Stato nella Regione; le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo; le cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico ed artistico, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale; gli edifici destinati a sede di uffici pubblici della Regione coi loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della Regione.
[6] M. Immordino, Beni culturali e ambiente nella regione Sicilia, Aedon, n. 1/2003
[7] G. Gucciardo, Regolazione sociale e abusivismo edilizio: il caso della Valle dei Templi di Agrigento

[8] Art. 25 - Entro il 31 ottobre 1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l' ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente Commissione legislativa dell'Assemblea regionale siciliana.
I pareri del Sovrintendente e del Consiglio regionale dei beni culturali devono essere espressi entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta; trascorso infruttuosamente tale termine il Presidente della Regione provvede secondo il disposto del primo comma.
La gestione, l' organizzazione, la fruizione del Parco archeologico della Valle dei Templi saranno regolati con apposita legge.
Fermi restando i termini previsti dal primo comma dell' art. 26 della presente legge, l'esame delle richieste di concessione o autorizzazione in sanatoria per le opere eseguite nell' ambito delle zone vincolate con decreto ministeriale 16 maggio 1968 modificato con decreto ministeriale 7 ottobre 1971 rimane sospeso, fino all' emanazione del predetto decreto del Presidente della Regione.

[9] G.Rusconi, Demolizione degli abusi in zone vincolate, 30.1.2006
[10] CGA, parere 31.1.2012, n. 291
[11] M.Greco, La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano, 5.2.2014, Diritto.it
[12] Cons. Stato, sez. IV°, sent. n. 3174/2010
[13] Cass. pen., sez. III, sent. 2.10.2008, n. 37470
[14] Circolare Assessorile Territorio e Ambiente n. 2/2014, prot. n. 2302 del 31.01.2014
[15] A. Trentini, Perequazione Urbanistica, Filodiritto Editore, 2013; Codice dell'Espropriazione e della perequazione urbanistica, AAVV, NelDiritto Editore, 2013;
[16] Cons. Giust. amm. reg. Sic., 14 luglio 2005, n. 446,
[17] Cons. Giust. amm. reg. Sic., 14 dicembre 2005, n. 867
[18] T.A.R. Veneto, Sez. II - 17 gennaio 2005, n. 91; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV – 14 febbraio 2005, n. 1009
[19] All'art. 1 della L. 14 gennaio 1994 n. 20 , sono stati inseriti i commi 1 sexies e 1 septies, a mente dei quali:
“1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
1-septies. Nei giudizi di responsabilità aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, e' concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale”.
[20] Cassazione (SS.UU. Ord. n. 14846 del 6/7/2011

1. Introduzione 2. La Valle dei Templi e la successione di norme 3. La potestà normativa della Regione Sicilia in materia di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” e successione delle norme. Effetti: antinomia e iperanomia 4. La giurisprudenza e i vincoli di inedificabilità assoluta e relativa 5. L’inerzia e il danno all’immagine della P.A. da abusivismo 6. Conclusioni

1. Introduzione
Il presente contributo prende spunto dalle recenti vicende che hanno riportato in massima evidenza un problema in realtà mai sopito, il quale, dalla metà degli anni Sessanta ad oggi, non ha ancora trovato soluzione, “sperduto” com’è nella stratificazione dei più svariati complessi normativi: ci si riferisce all’individuazione esatta del perimetro della Valle dei Templi, con le ricadute conseguenti sul tema dell’abusivismo in una delle aree archeologico-monumental-pesaggistiche più importanti e belle d’Italia.
L’attualità del tema deriva dalla concomitanza di alcuni eventi: la pronuncia di poche settimane fa della sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei Conti, che ha respinto il ricorso per revocazione della sentenza n. 548 del 2012[1]; il rilievo dato da alcuni amministratori della città di Agrigento, indipendentemente dalla spinta motivazionale che non forma oggetto d’indagine, e l’annullamento del PRG di Agrigento.
Ciò non toglie l’enorme portata generale dell’argomento, poiché interseca discipline del diritto pubblico oggi più che mai in auge ed all’attenzione dell’opinione, quali l’urbanistica-edilizia (di cui la disciplina sugli abusi è parte, così come l’espropriazione), la materia dei beni culturali e del paesaggio, la legalità e la correttezza dell’agére amministrativo, sfociante nella responsabilità per danno all’immagine e risarcitoria connesse all’abusivismo edilizio.
Pertanto, è da salutare come dato positivo il tema sollevato da alcuni amministratori sul farraginoso complesso normativo sotteso alla perimetrazione della Valle dei Templi, reso ancor più complicato dal reente annullamento del PRG della città, perchè lo studioso, l’appassionato della materia, può solo tentare di operare una ricostruzione super partes, lontana dalle polemiche politiche, ed ancorata ai soli principi di diritto ed ermeneutica fondata su scienza e coscienza.
Ciò detto, l’iperanomia è un termine ossimorico, ovvero una parola creata dalla somma di due termini antitetici, qual è “iper” (tanto, più del normale), con “anomia” (assenza di norme). Con ciò si vuole alludere al fenomeno per il quale, a fronte di una eccessiva produzione normativa, si determina l’impossibilità di concreta applicazione proprio in virtù della quantità.
In altre parole “tante leggi, nessuna legge”. Talmente è vero, che quando vi siano incertezze riguardo ai contenuti delle norme da applicare, laddove siano previste sanzioni, esse non si applicano se non è chiara la violazione.
La vicenda della corretta “perimetrazione” della Valle dei templi, come si è detto, è stata riportata agli onori delle cronache negli ultimissimi tempi, poiché il continuo susseguirsi di condoni, espropri e ordini di demolizioni mai attuati, ha reso “incerto” il diritto più “certo”, dimostrando così l’impellente necessità di stabilire un discrimen netto – anche a seguito delle recenti pronunce (fra cui si annovera anche la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale della Sicilia, n. 548 del 16 febbraio 2012, su cui pure ci si soffermerà) – su quali sono e fino dove operano i vincoli archeologici, urbanistici, idrogeologici, paesaggistici, panoramici sulla Valle dei Templi, per risolvere la querelle infinita delle centinaia di edifici costruiti abusivamente nell’area di maggior pregio ed ivi mantenuti.
Il tema sollevato recentemente punta il dito contro le diverse perimetrazioni dell’area – di differente ampiezza a seconda della norma impositiva (vale a dire, “speciale”, quella di protezione civile, dovuta al rischio idrogeologico; “generale”, quella relativa ai beni culturali) – a ragion delle quali la perimetrazione sarebbe stata eccessivamente estesa, al di là della delimitazione topografica della Valle, includendo edifici che, viceversa, valendo la perimetrazione “storico-archeologica” ne resterebbero esclusi, con salvezza delle singole proprietà ed effetti favorevoli sulle cause in corso.
Tanti e tali i risvolti non solo culturali ed ambientali, ma sociali ed economici, che in più occasioni era stata politicamente paventata – anche in tempi recenti – l’ipotesi del “ridimensionamento del perimetro della fascia di tutela assoluta”, con l’intento di escludere dal vincolo le zone in cui maggiormente si era concentrata l’edificazione abusiva, alimentando ovvie aspettative, il cui culmine coincise con il varo della legge n. 47 del 1985, in cui queste aspettative franarono categoricamente, vista la previsione di esclusione dalla sanatoria delle opere realizzate nelle zone di maggior pregio, fra cui, ai fini che qui interessano, la Zona della Valle dei Templi.
In disparte l’ingorgo normativo che caratterizza tale area geografica, e il relativo “disordine” applicativo, di cui si dirà nel prosieguo, neppure la copiosa giurisprudenza, più volte interpellata per dirimere i singoli casi portati alla sua attenzione, è mai intervenuta a riportare “ordine” con una ricostruzione normativa puntuale. Così come la recente pronuncia della Corte dei Conti, la quale poggia le proprie basi di giudizio su un dato generale - l’abusivismo “mappato” post L. 47 del 1985, i decreti di demolizione emessi di conseguenza e non eseguiti – senza, ancora una volta, interrogarsi sulla successione delle leggi nel tempo e nello spazio.
Eppure nel caso specifico si tratta di dirimere una querelle che dovrebbe appassionare, atteso il valore incredibile del locus de quo, patrimonio storico, di grande bellezza e rarità, dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1997, per il quale l’odierno dibattitonon è secondario da appianare, visto che appunta l’indice sulla necessità di verificare i confini sulla base delle vigenti norme al fine di incidere in misura maggiore o minore sulla legittimità (o abusivismo) di centinaia di edifici.

2. La Valle dei Templi e la successione di norme

La ricerca della perfezione della norma a volte confligge con il naturale spirito della legge. In passato si diceva “ponete leggi semplici e norme essenziali, e lasciate alla giurisprudenza il compito di applicarle con equilibrio e duttilità alle possibili fattispecie”. E ciò aveva una sua logica: i tempi della produzione normativa sono più lunghi dell’adattamento di essa ai casi concreti, che invece mutano con la rapidità con cui muta il tessuto sociale.
Già nel 1984, un importante studioso, il professor Sabino Cassese, in occasione di un Convegno a Pavia su “Regolamentazione e deregolamentazione amministrativa e legislativa”, ebbe modo di affermare che l’ingovernabilità (di una determinata situazione) è causata da troppe leggi: una battuta, questa, che appariva quale esortazione e, al tempo stesso, constatazione delle difficoltà in cui si muove chiunque debba applicare una legge per regolare un caso specifico.
Non ogni ambito in cui vi è iper normazione può dirsi uguale: vi sono tuttavia materie per le quali l’incertezza normativa, la difficoltà di comprendere quale corpus applicare (per il fatto dell’intersecazione di numerose discipline), ecc., è più grave di altri e può produrre danni incommensurabili e, soprattutto, irrimediabili.
È il caso dei beni culturali, dell’ambiente, del paesaggio e di tutti quei beni che oggi vengono accomunati sotto la locuzione, oggi tanto di moda, di “beni comuni”, di cui il nostro Paese concentra all’interno del proprio territorio un notevole patrimonio, anzi, la quasi totalità del patrimonio culturale mondiale.
Di “beni comuni” si parla per lo più con un ruolo sempre più centrale nel dibattito pubblico e nella mobilitazione politica, in relazione a risorse naturali come l’acqua, l’ecosistema, le risorse non riproducibili (si pensi al recente referendum sull’acqua pubblica), ma è bene rammentare come in essi sono da ricomprendere anche il capitale storico, artistico, ambientale, interessati dalle conseguenze di una sregolata fruizione e della crisi economica che ne limita la tutela e conservazione, generandosi in tal modo minacce sulla stessa fisica esistenza di monumenti ed aree - che vanno dal degrado allo spreco, dall’abuso alla mancanza di cura. Questo stato oggettivo di cose ha sempre determinato uno stretto connubio tra settori, apparentemente molto distanti tra loro, ma nella sostanza e col passare del tempo, sempre più affini, quali la cultura, il territorio, l’economia, il turismo, le infrastrutture.
Fatta questa generale premessa, per un appassionato della materia, uno dei casi più emblematici - per la summa di questioni che in esso racchiude - è proprio quello della Valle dei Templi di Agrigento, Patrimonio Unesco dell’Umanità dal Novembre 1997.
In un importante scritto[2] l’autore ebbe modo di affermare che "quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con un complesso di inferiorità”, rendendo evidente il concetto secondo cui chi si accinge a trattare temi connessi in qualche modo con la „cultura” intesa nel significato vasto che le è proprio, deve limitarsi ad approfondire i temi legati al proprio ambito di competenza, senza tentare – per diletto personale – di travalicare in difficoltosi terreni teorico-filosofici die quali, spesso, non detiene specifiche o approfondite conoscenze[3].
Seguendo questo saggio consiglio, poiché sugli interessanti profili storici e culturali relativi al territorio in esame la bibliografia è ricca, ad essa si rinvia, concentrando l’attenzione su quanto d’interesse, e segnatamente sulla sulla legislazione - di natura e fonti differenti - che nell’ultimo secolo tempo si è prodotta e stratificata, formando una amalgama indistinta che, contrariamente all’intento originario di ampliare le tutele, ne ha reso così difficoltosa l’applicazione da determinare l’allargamento progressivo delle “maglie” di protezione fino a sconfinare nell’ampia prateria ove le “troppe leggi” sfociano in “nessuna legge”.
In siffatte situazioni proliferano le pronunce giurisprudenziali - amministrative, ordinarie, contabili - che tuttavia hanno il limite di arginare la situazione dedotta in giudizio a scapito dell’ordinata e coordinata azione complessiva dello stato dei luoghi.
Ovviamente ci si riferisce in primis alle problematiche determinate dall’abusivismo edilizio, le quali - in via diretta o indiretta - producono danni di tipologie varie e con conseguenze vaste. Senza obliterare in ogni caso i riflessi di ciò sulla “cultura” e il paesaggio, che in casi quali la Valle dei Templi, si sommano e spesso si fondono.
In Sicilia, come in tanti altri luoghi in Italia senza particolari distinzioni geografiche, negli anni passati (in particolare dagli anni sessanta), l’abusivismo edilizio non era vissuto con l’odierno disvalore, poiché - in assenza di norme specifiche - il fenomeno veniva per lo più “giustificato” dal fine intrinseco, connesso al raggiungimento di un determinato benessere legato a valori quali la casa e la famiglia.
Il caso della Valle dei Templi, si è detto, è emblematico proprio in considerazione dell’iper normazione che l’ha riguardata. Ciò, a partire dalle norme nazionali in materia di vincoli archeologici, idrogeologici, paesaggistici, passando per le norme regionali (perimetrazioni, parchi archeologici, urbanistiche), e per finire alle disposizioni regolamentari locali - che stratificando disordinatamente disposizioni le une sulle altre, delimentando aree e perimetri, ha condotto a quella che nella titolazione del presente contributo è stata definita “iperaomia”, ovvero l’ossimoro per eccellenza del „troppo” che finisce per divenire il “nulla”. Con la conseguenza che – nell’incertezza della vigenza/prevalenza (e della gerarchia delle fonti) dei complessi normativi "Gui-Mancini”, "Misasi-Lauricella”, “Nicolosi”, ecc., recanti perimetrazioni dell’area della Valle dei Templi diversificate a seconda del fine perseguito – gli assetti urbanistici delle zone in questione non trovano pace. Da qui la vexata quaestio: quale perimetro delimita l’area della c.d. “Valle dei Templi” ai fini della legittimità dell’edificazione?
La ricostruzione legislativa è d’obbligo per tentare di apportare un contributo chiaro e comprensibile nel panorama denso di cui si è sin qui detto, ove gli elementi di novità intervenuti nel tempo non hanno rarefatto il peso di una legislazione precedente, rispondente ad un concetto di cultura che non nasceva dall’alto ma da un dato di coscienza spontanea che si ritrova sin dalle primissime leggi (legge “Rosada” 20 giugno 1909, n. 364, che stabiliva e fissava norme per l’inalienabilità delle antichità e delle belle arti e del suo regolamento di attuazione del 1911), culminate in un accrescimento di sensibilità con l’emanazione della “Legge Bottai” 1 giugno 1939, n. 1089, sui beni culturali, di riconosciuta ispirazione liberale seppur nata in un periodo storico ben preciso, quello fascista, notoriamente molto attento alla cura della “bellezza”.
Coeva fu la legge relativa alla tutela delle "bellezze panoramiche e naturali”, n. 1497 del 1939, corollario e completamento della disciplina tutoria dei beni culturali e dell’ambiente in cui si collococa per il valore che gli uni traggono dall’altro in un rapporto di scambio vicendevole.
Le citate leggi, redatte da uno dei maggiori giuristi dell’epoca, Santi Romano, hanno costituito sino al 1999 il solo ed eccellente riferimento legislativo in materia di “cose d’interesse storico, artistico e paesaggistico”, nel cui vigore la Valle dei Templi è stata assoggettata a vincolo archeologico di zona – e quindi di inedificabilità assoluta – mediante il D.M. 12 giugno 1957, includendone l’area negli “elenchi” compilati ai sensi della Legge n. 1497 del 1939 (confluiti nell’odierno art. 157 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale dispone che conservano efficacia a tutti gli effetti “(...) gli elenchi compilati ai sensi della L. n. 1497 del 1939”, nonché “le dichiarazioni di notevole interesse pubblico”, notificate ai sensi della legge medesima).
Successivamente, a causa di un evento straordinario, la gravissima frana che nel 1966 sconvolse il territorio, venne emanato il decreto legge 30 luglio 1966, n. 590, convertito con la legge n. 749 del 1966, con cui la Valle dei Templi veniva dichiarata “zona archeologica di interesse nazionale”, e contemporaneamente si rimetteva ai competenti ministeri (Pubblica Istruzione e Lavori Pubblici) l’individuazione esatta della “zona”, al fine di ancorarvi le relative prescrizioni d’uso ed i vincoli di inedificabilità.
In esecuzione del citato decreto legge, vennero emanati molteplici provvedimenti, provenienti da soggetti istituzionali differenti, in epoche successive e per eventi-finalità diverse, raggruppabili sostanzialmente in gruppi sulla base di una particolare omogeneità di tipo “temporale” dei vincoli che in essi vi sono contenuti, e così:
a) vincoli imposti prima dell’evento franoso del 19 luglio 1966;
b) atti legislativi nazionali urgenti emessi in conseguenza dell’evento franoso;
c) norme regionali in adempimento degli atti legislativi nazionali;
d) atti legislativi nazionali connessi alla situazione successiva all’evento franoso;
e) vincoli paesaggistici di cui alle leggi n. 1497 del 1939 e n. 431 del 1985, e vincoli archeologici imposti dalla legge n. 1089 del 1939;
f) norme residuali, composte da disposizioni in materia di controllo edilizio (L. 28 febbraio 1985, n. 47), in materia culturale (Circolare ministeriale BB.CC. n. 3786 del 16 ottobre 1985 relativa all’applicazione della coeva L. 47 ai beni culturali; Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004, preceduto dal "decreto Melandri”, Testo unico in materia di beni culturali e ambientali, d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490), norme "taglia leggi” (L. 6 agosto 2008, n. 133, e relativo "salvataggio” mediante d.lgs. 179 del 2009, d.lgs. 13 dicembre 2010, n. 212), ecc.
Quanto al primo gruppo di disposizioni, è da osservare come prima degli eventi franosi dell’estate del 1966, la tutela della zona de qua era affidata esclusivamente alle norme del R.D. 31 dicembre 1923, n. 3267, di “Riordino e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani” (recepito molti anni dopo, nel 1958, dall’Ispettorato delle Foreste, con cui veniva estendeso il previgente vincolo idrogeologico).
Quanto al secondo gruppo di provvedimenti vincolistici, a causa della gravissima frana del 19 luglio 1966, venne emanato il decreto-legge 30 luglio 1966, n. 590 (“Dichiarazione di zona archeologica di interesse nazionale della Valle dei Templi di Agrigento”), convertito con legge n. 749 del 28 settembre 1966. È questo l’atto che si può definire fondamentale per il futuro urbanistico di Agrigento, poiché costituisce il fondamento normativo del complesso di tutele ad oggi vigenti. In esso, l’art. 2 bis precisava: “La Valle dei Templi di Agrigento e’ dichiarata zona archeologica di interesse nazionale. Il Ministro per la pubblica istruzione, di concerto con il Ministro per i lavori pubblici, determina, con proprio decreto, il perimetro della zona, le prescrizioni d’uso e i vincoli di inedificabilita”.
L’immediata reazione fu l’emanazione del c.d. „decreto Gui-Mancini”, ovvero il “decreto” con cui definire “il perimetro della zona”, da cui scaturirono due rilevanti conseguenze: la prima fu la sottoposizione a vincolo di una vastissima area (intorno ai 1200-1300 ettari) di enorme pregio archeologico, che, per ciò stesso, venne dichiarata assolutamente non edificabile; la seconda conseguenza comportò l’ordine di demolizione di centinaia di edifici, che, non essendo mai stati eseguiti da parte della pubblica amministrazione, ha determinato riflessi rilevantissimi di cui ancora oggi si discute, e che formeranno oggetto della trattazione relativa alla responsabilità dell’amministratore del Comune per mancata adozione dei provvedimenti di polizia urbanistica, obbligatori ai sensi della L. 47/1985 e della LR 37/1985.
Questo gruppo di norme è da inquadrarsi nell’alveo dei provvedimenti urgenti, assegnati ad alcuni organi amministrativi – centrali o locali – per intervenire in deroga al diritto vigente per fronteggiare situazioni d’emergenza. Si tratta per lo più di disposizioni di livello legislativo che disciplinano in modo eterogeneo e (almeno dovrebbero), contingibile ed urgente, situazioni di natura e contenuto diversificato.
Da qui il problema dell’ultrattività di questo gruppo di norme trascorso il periodo di emergenza, e dello „scontro” che esse possono determinare nella sfera di competenza di altri provvedimenti, di natura ordinaria o speciale.
Nel terzo gruppo possono ricomprendersi gli atti legislativi regionali emessi in adempimento del “decreto Gui-Mancini”: si giunse così all’emanazione del decreto Assessorile 23 dicembre 1968, n. 567, di approvazione dei vincoli idrogeologici ed urbanistici proposti dalla commissione d’indagine tecnica sulla frana, la famosa “Commissione Grappelli”.
Al quarto gruppo sono riconducibili i provvedimenti legislativi (nazionali) necessari a fronteggiare il periodo successivo all’evento franoso, che portò all’emanazione del D.M. 7 ottobre 1971 (noto come “decreto Misasi-Lauricella”), di modifica del decreto “Gui-Mancini del 16 maggio 1968, a mezzo del quale la determinazione del perimetro della Valle dei Templi venne ampliata, inserendo nella c.d. Zona A, altre zone in quanto ritenute strettamente contigue alla zona archeologica e/o afferenti alla visuale (panoramica) dei monumenti, nell’ottica dell’“insieme”. Con il successivo „decreto Nicolosi” n. 91 del 16 giugno 1991 (allora presidente della Regione), le prescrizioni del D.M. 7 ottobre 1971 vennero ulteriormente modificate.
In particolare, mediante il testé citato decreto, il Presidente della Regione Siciliana Nicolosi intervenne - con la competenza legislativa primaria che gli era propria – sul perimetro della Valle dei Templi, disponendo, da un lato, che il confine del Parco archeologico coincideva con il confine della zona A fissato dal precedente D.M. 16 maggio 1968 (Gui-Mancini), come modificato con D.M. 7 ottobre 1971 (Misasi-Lauricella), dall’altro, venne ampliata la zona B (con l’unico neo dell’innalzamento dell’indice massimo fondiario), e dichiarate le altre zone (B, C, D, E), territorio di completamento e di rispetto necessario all’esistenza e al godimento del Parco e dei suoi valori.
Un quinto gruppo aggiunge a questi vincoli prettamente paesaggistici, idrogeologici ed urbanistici – che caratterizzano la normazione meglio nota come “Gui-Mancini-Nicolosi” - vincoli ulteriori, connessi alle dichiarazioni di notevole interesse pubblico di natura archeologica, apposti prevalentemente negli anni tra il 1967 e il 1983 ai sensi della legge n. 1089 del 1939, relativi ad alcune specifiche località della zona.
Infine, un gruppo definibile di “normazione residuale” che ha introdotto una discreta plurivocità e fumosità in materia, atteso che la legge n. 749 emanata successivamente alla frana del 1966 era stata dapprima abrogata mediante l’Allegato A, previsto dall’art. 24 della L. n. 133 del 2008, poi „salvata” con il d.lgs. 179 del 2009, e confermata nel 2010, con il d.lgs. 212 del 13 dicembre. Proprio la situazione determinata con i provvedimenti c.d. „taglia leggi”, ha ingenerato ulteriori dubbi sulla vigenza delle norme (uniti a quelli sulla prevalenza), sulla reviviscenza di provvedimenti di matrice differente ed aventi finalità differenti, e sulla certezza del diritto relativamente ai vincoli archeologici, paesaggistici, conservativi, panoramici e d’insieme sul territorio in esame, mantenendo non sopito il grave problema della definizione certa ed univoca di governo del territorio, al fine di individuare ciò che debba ritenenersi abusivo e ciò che al contrario debba ritenenrsi legittimo.
Ciò detto, la panoramica sul quadro normativo rilevante ai fini che qui interessano, trova completamento con i principali atti regionali al riguardo:
a) la Legge Regionale 1 settembre 1993 (Finanziaria regionale), con cui venne prevista l’istituzione di un sistema di parchi archeologici della Regione Siciliana (art. 107), per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale delle aree archeologiche di interesse primario. In essa è disposto che la perimetrazione di dette aree è proposta dalle Soprintendenze sentito il parere di alcuni organismi predefiniti, al fine di acquisire l’area così definita al demanio regionale (ex art. 21, L.R. n. 80 del 1977).
Tra le previsioni dettate nel 1993 e la definizione delle competenze del parco Archeologico al fine di dare avvio alla sua realizzazione concreta, si è dovuto attendere sino al 2000, quando è interventua l’approvazione della L.R. n. 20. In essa sono stati definiti i criteri e la perimetrazione delle zone in cui esso si articola (ed è dello scorso mese di novembre la nomina del Commissario Straordinario per il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei templi).
b) La legge regionale 3 novembre 2000, n. 20, molto importante in considerazione delle previsioni in essa contenute, atteso che la Regione Sicilia detiene in subiecta materia la potestà legislativa esclusiva. E, nell’esercizio di tale potestà, la regione ha precisato che il “perimetro” del Parco archeologico è quello delimitato dall’art. 1 del decreto del Presidente della Regione Siciliana del 13 giugno 1991, ai sensi dell’articolo 25 della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, e, soprattutto, ha precisato che i suoi confini non possono subire variazioni in diminuzione.
Con un “punto” successivo (il “c”), dovrebbe trovar spazio anche lo strumento normativo “locale”, il piano regolatore della Città di Agrigento, approvato con decreto del 28 ottobre 2009 (G.U. Regione Siciliana n. 60 del 24.12.2009), senonché, in conseguenza di un ricorso straordinario proposto dal Comune stesso, le Sezioni riunite del C.G.A., con parere n. 1229/11 del 6.3.2012, hanno accolto il ricorso e, per l’effetto, annullato il decreto dell’Assessorato regionale al Territorio e Ambiente con cui il piano regolatore era stato approvato.
Tale fatto assume rilievo particolare e specifico, laddove con l’annullamento del provvedimento regionale in questione, sono state travolte le prescrizioni introdotte dalla Regione relativamente alle autorizzazioni previe ex artt. 21 e 146 del Codice dei Beni culturali, d.lgs. n. 42/2004, per gli interventi ricadenti in determinate aree vincolate. Malgrado ciò, esso era stato applicato come nulla fosse, sino a quando, nei giorni scorsi, con sentenza n. 399 del 10 febbraio 2014, il TAR di Palermo ha evidenziato come il PRG 2009 di Agrigento “è già stato annullato, con efficacia erga omnes, con decreto del Presidente della Regione Siciliana del 14 giugno 2012, pubblicato nella G.U.R.S. n. 47 del 02.11.2012”, in conseguenza del parere del C.G.A. di cui si è detto.
Le conseguenze sono ovviamente gravissime. Soprattutto perchè si intersecano in un ambito già fortemente compromesso, in cui si aggiungono agli endemici problemi, ulteriore “abusivismo” indotto dal rilascio di titoli nell’arco di un decennio sulla base di uno strumento nullo e non più valido. In tale strumento urbanistico, infatti, è definita “area archeologica principale” l’ambito interno al perimetro del parco archeologico che coincide con la “zona A” (D.P.R.S. “Nicolosi”, art. 1, n. 91/1991), con la precisazione che, al riguardo, non sono comprese fra le prescrizioni del piano le decisioni in merito alla definizione del progetto di parco archeologico, attesa la loro importanza e peculiarità, ma vengono demandate a successivi interventi. Quanto alla “zona B”, denominata “parco archeologico”, in essa sono state ricomprese le aree delimitate e regolate dal D.M. 16 maggio 1968 (“Gui-Mancini”), e dal successivo D.P.R.S. n. 91/1991 (“Nicolosi”). In tale zona sono state individuate diverse “sottozone”, le cui caratteristiche territoriali differenti e le numerose “edificazioni spontanee” (per usare la terminologia di Piano), non possono prescindere dalle verifiche connesse ai processi di sanatoria per gli abusi edilizi, da parte degli organi a ciò deputati, ovvero la Soprintendenza e l’amministrazione comunale, tese a definire gli eventuali abbattimenti degli edifici privi di conformità edilizia, nonché le norme tecniche per la riqualificazione degli edifici.
Il Piano regolatore generale di Agrigento presenta una peculiarità: la previsione di una - seppur tenue – possibilità di utilizzo dello strumento perequativo nella c.d. “zona B”, benché la Sicilia ancora oggi tardi a regolarne l’uso.
Infatti, nel prevedere che in “zona B” è stata prevista la “possibilità di edificazione all’interno del lotto, con superficie inferiore ai lotti minimi stabiliti dalle NdA, purché tali lotti risultino costituiti prima del 31 maggio 2003” [in ciò recependo l’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003, n. 326 (c.d. “terzo condono”), con cui, rifacendosi alla legge 724 del 1994 che costituisce la normativa base del “secondo condono”, traccia la procedura amministrativa concernente la sanatoria: termini, oblazione, contributo concessorio, silenzio assenso, vincoli, indifferenza rispetto ai diritti dei terzi, effetti della sanatoria sui procedimenti penali. Si stabilisce la data dell’abuso (appunto, entro il 31 marzo 2003, poi prorogato fino al 31 luglio 2004, con il decreto legge 31 marzo 2004, n. 82, convertito in L. 28 maggio 2004, n.141) e la quantità massima di costruzione condonabile (30% della volumetria esistente; 750 metri cubi del nuovo)], il Piano ha aggiunto la possibilità di inserire meccanismi perequativi, i quali per la filosofia urbanistica che li permea, consentirebbero al comune – ad esempio nelle zone dedicate alla “città pubblica”, di acquisire gratuitamente una porzione maggioritaria delle aree destinate a pubblici servizi, lasciandone una quota in cambio al privato cittadino, che può realizzare sulla quota residua una parte di edificazione residenziale, prestando attenzione ad evitare sperequazioni fra ubicazioni e dimensioni dei lotti.
Le tipologie perequative contemplate riguardano i casi in cui le superfici disponibili siano di dimensioni insufficienti per l’edificazione, prevedendo che in tali casi il lotto o l’edificabilità possa essere accorpata se il proprietario possiede anche il lotto confinante (perequazione traslata orizzontalmente), oppure possa essere trasferita (decollo) in altra zona (atterraggio) in casi diversi (assenza di altre proprietà). E’ pure previsto l’utilizzo primario del modello consensuale partecipativo, a cui è in seconda battuta affiancato un modello vicario di perequazione, che consente al Comune di farsi parte attiva nella perequazione dei diritti dei proprietari inerti.

3. La potestà normativa della Regione Sicilia in materia di “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” e successione delle norme. Effetti: antinomia e iperanomia

La Sicilia è una delle cinque regioni italiane a Statuto speciale, anzi la regione a statuto speciale per eccellenza. Il che comporta una potestà legislativa primaria (esclusiva) su una molteplicità di materie, che lo Statuto siciliano elenca all’art. 14[4] . Il successivo art. 33[5] - che del primo funge da completamento - individua quali sono i “beni” su cui esercitare il potere normativo diretto e completo.
Sulle attribuzioni o i limiti della competenza legislativa in subiecta materia, venne investita la Corte Costituzionale sin dall’emanazione della legge (contingibile e urgente) statale 28 settembre 1966, n. 749 (in forza della quale venne adottato il D.M. “Gui-Mancini” del 1968). In particolare, ad essa venne sottoposta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 bis della citata legge in relazione al decreto del Ministro per la pubblica istruzione 16 maggio 1968, emanato in base a detta legge.
La Consulta ritenne incontestabile la competenza legislativa esclusiva in materia di “tutela del paesaggio “e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche” della Regione siciliana ai sensi dell’art. 14, lett. n, del proprio Statuto. Tuttavia, precisò che per la soluzione delle questioni prospettate occorreva stabilire se l’art. 14 dello Statuto avesse attribuito “direttamente” alla Regione l’esercizio dei poteri relativi alle materie in esso elencate (ovvero senza bisogno di ulteriore integrazione), e se, di conseguenza, lo Stato dovesse astenersi dall’esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa in esse.
In proposito venne rilevato come la norma in esame non contenesse la puntuale precisazione della sfera di competenza attribuita alla Regione, in considerazione del fato che alla materia afferente la tutela delle “cose d’interesse artistico e storico”, la legge statale n. 1089 del 1939 dedica svariati capi, di cui la “conservazione delle antichità e delle opere artistiche” é solo un aspetto della loro tutela; da ciò la Corte Costituzionale ne trasse la convinzione che fosse necessaria una precisazione dettagliata del contenuto e dei limiti della competenza regionale, e che dovesse essere stabilito un coordinamento della funzione di conservazione attribuita alla Regione, con le altre forme di tutela delle cose artistiche e storiche, previste dalla legislazione dello Stato.
L’esercizio della competenza regionale nelle materie della tutela del paesaggio e della conservazione delle cose storiche e artistiche, in quel periodo trovava pure ostacolo nel fatto che non era ancora intervenuto il passaggio delle funzioni dello Stato alla Regione quale conditio sine qua non per l’operatività della norma in questione, “non eliminata dal carattere esclusivo della competenza che, nelle materie in esame, costituisce un unicum, rispetto alle norme della Costituzione (articolo 117) e degli altri Statuti speciali, e va considerata nel quadro della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9). Discende dalle esposte considerazioni che, nell’attuale situazione normativa, non esiste, nei confronti della Regione siciliana, un obbligo negativo dello Stato, di astensione dall’esercizio della propria potestà legislativa e amministrativa nelle materie in questione” (Corte Costituzionale, sentenza 11 maggio 1971, n. 94; sentenza 11 aprile 1969, n. 74).
Nella specie, l’art. 2 bis della L. 28 settembre 1966, n. 749 ha disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all’autorità amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966, ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e dell’interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell’evento. Per il suo stesso carattere speciale, la norma impugnata non poteva determinare alcuna sottrazione alla Regione “della materia genericamente attribuita dalla norma statutaria, né preclude l’esercizio futuro della sua competenza, nella sfera che sarà precisata con le norme di attuazione”, sicché anche tenuto conto della sua natura speciale, il denunziato art. 2 bis della legge n. 749 del 1966 non venne ritenuto lesivo della competenza regionale.
Né venne ritenuto esorbitante dai limiti di attribuzione per aver esteso il vincolo a zone estranee alle ricerche archeologiche, sino ad apparire più un decreto di vincolo paesistico che di tutela del patrimonio archeologico, e come tale, quindi, in contrasto col decreto del Presidente della Regione 6 agosto 1966, n. 807, che era già intervenuto apponendo il vincolo paesistico. Al riguardo, sempe la Consulta ebbe modo di chiarire che il “decreto Gui-Mancini” del 16 maggio 1968, dopo aver determinato il perimetro dell’intera zona sottoposta al vincolo, si occupò di suddividere “il territorio compreso in detto perimetro in cinque zone, disponendo per la prima di esse (zona A) una inedificabilità quasi assoluta, e per le altre una edificabilità limitata. La ragione della imposizione di vincoli a queste zone é indicata, nelle premesse del decreto, nella necessità di “salvaguardia dell’interesse archeologico nazionale del comprensorio”, e i vincoli stessi sono stati disposti in relazione alla distanza dai monumenti archeologici, allo scopo di non danneggiarne la prospettiva”, ponendo in essere unicamente prescrizioni tese alla tutela del valore archeologico della zona, in conformità all’art. 2 bis della legge n. 749.
Il decreto “Gui-Mancini” venne dunque ritenuto legittimamente emesso nell’esercizio dei poteri attribuiti dal precitato articolo al Ministro, per l’attuazione della tutela dei valori archeologici che il legislatore aveva voluto assicurare. Rimanevano comunque ferme, a parere della Consulta, in quanto compatibili con l’art. 2 bis della legge n. 749 del 1966, le disposizioni delle leggi nn. 1089 del 1939 3 n. 1487 del 1939, nonché il provvedimento del Presidente della Regione 6 agosto 1966, n. 807, emesso in qualità di organo decentrato dello Stato e, emanato in base ad esse.
Detto questo, non c’è dubbio che la regione Sicilia mantiene intatte tutte le competenze riconosciutele dallo Statuto, ancorché le stesse ricadano, in tutto o in parte, nell’area riservata allo Stato. Ma v’è altresì da tenere in considerazione che il problema in esame attiene a più discipline fra loro compenetrate, una su tutte quella degli edifici sorti nei diversi livelli di perimetrazione dell’area della Valle dei Templi al fine di identificarne la legittimità o abusività. Non è dunque secondario individuare il limite delle norme fondamentali e, sulla base del principio di sussiadiarietà, di quelle secondarie.
Lo statuto regionale, come si è osservato, attribuisce alla regione attraverso l’art. 14 competenze molto ampie che, tuttavia (come rimarcato dalla Consulta), ha potuto esercitare solo a partire dall’emanazione delle norme di attuazione (ad esempio, in materia di “paesaggio, antichità, musei, e belle arti” con il decreto n. 637 del 1975), con le quali sono state trasferite alla regione la pressoché totalità dei poteri già attribuiti allo Stato delle leggi del 1939. In particolare, poiché fu effettuata una operazione di tecnica legislativa ampia in base alla quale venne assegnato al “bene culturale” una nozione estesa fino a ricomprendere ogni “bene avente valore di civiltà”, la Sicilia anticipò di fatto la riforma costituzionale attuata con la legge n. 1 del 2003, attraendo a sè sia gli interventi di tutela, che gli interventi di valorizzazione del patrimonio paesaggistico-archeologico.
È stato correttamente[6] osservato che il filo conduttore della normazione siciliana si è “caratterizza per il fatto di essere conseguenza di eventi calamitosi e di rispondere, pertanto, ad esigenze particolari e contingenti, o di essere stata emanata a seguito del dibattito sul recepimento nella regione delle leggi statali di sanatoria del 1985 e del 1994, finalizzate alla repressione dell’abusivismo edilizio, abusivismo che in Sicilia è particolarmente grave anche per il fatto di colpire soprattutto aree di particolare interesse paesaggistico-culturale. Si pensi all’abusivismo nella Valle dei Templi di Agrigento”.
Sulla base del quadro sin qui tratteggiato, sono possibili alcune considerazioni conclusive, necessarie per chiarire la portata delle decisioni che hanno portato a ritenere valido un perimetro e, di conseguenza, abusivi gli edifici al suo interno ai fini risarcitori.
Sostiene uno studio[7] molto interessante che “è solo perché il perimetro della zona A non è stato modificato, in quanto ritenuto a tutti gli effetti valido per la tutela della Valle dei Templi” (ndr. Il perimetro fissato con il decreto “Gui-Mancini”, fatto proprio dalla legge regionale del 2000), “che le case non sono state sanate. Ed è solo perché queste case non sono state sanate che non ne sono state costruite altre”. Tale affermazione ha un significato che si estende oltre la locuzione posta: con essa l’autore intende evidenziare come il perimetro posto mediante decretazione d’urgenza post emergenziale (frana idrogeologica), sia tutt’ora valido indipendendentemente dalla gerarchia “decreto ministeriale/legge” delle fonti normative, ma perché non è stato modificato dalla fonte normativa che avrebbe potuto farlo: la legge regionale.
In sostanza, in assenza di diversa indicazione da parte del legislatore, l’analisi si deve appuntare sullo ius superveniens - al di là dell’incapacità di modificare situazioni consolidate - derivante da fonti istituzionali differenti ed emessa in tempi differenti. In altre parole, cosa accade se, come nel caso di specie, più norme si susseguono nel tempo aventi ad oggetto la medesima materia?
È il caso classico dell’antinomia che, per la Valle dei Templi, sfocia addirittura in quella che si è definita iperanomia. Infatti, di norma è al criterio cronologico che occorre volgersi, espresso dal brocardo lex posterior derogat priori. Ma se lex posterior è prodotta da un soggetto istituzionale diverso o per una situazione particolare da lex priori, vale la presunzione derogatoria o abrogratrice?
In tal caso, oltre al criterio codificato nell’art. 15 delle Preleggi del codice civile, soccorrono altri criteri interpretativi come nel caso in cui opera la “specialità” di una norma rispetto ad un’altra, espresso dal brocardo lex specialis derogat generali, per il quale il criterio cronologico recede e lascia il passo alla norma speciale, ad eccezione del caso in cui dalla lettera o dalla ratio si evinca la volontà abrogativa o vi sia discordanza tra le due norme tale da rendere impossibile la loro coesistenza. Parimenti è recessivo rispetto al criterio di interpretazione “gerarchico”, secondo cui lex superior derogat inferiori, in virtù del quale la norma posta da una fonte inferiore o non dotata dello stesso potere normativo non può abrogare o derogare quella posta da una fonte superiore anche qualora fosse posteriore.
La diatriba che vede contrapposta la legge statale generale (perimetrazione fissata con D.M. 12.6.1957 in attuazione delle leggi di matrice storico-culturale-paesaggistica nn. 1089 e 1497 del 1939), alla legge statale speciale (perimetrazione imposta con D.M. Gui-Mancini 16.5.1968 per rischio geologico), successiva, sulla base dei principi generali del diritto dovrebbe trovare soluzione nell’esatta applicazione di essi, determinando che il complesso normativo “Gui-Mancini”, successivo e speciale, sarebbe dotato di ultrattività, essendo in aderente antinomia con il D.M. del 1957.
Appurato il primo passaggio, avallato dalla Consulta, come sopra precisato, in virtù del quale il D.M. 16.5.1968 era da ritenere valido ed efficace, occorre vagliare l’antinomia determinatasi dopo l’emanzione delle norme regionali di cui al decreto “Nicolosi” del 1991 e, particolarmente, della L.R. 20 del 2000, secondo il criterio gerarchico d’interpretazione e sulla base dei principi espressi antecedentemente dalla Consulta.
Le particolari condizioni di autonomia godute dalle regioni ad autonomia speciale si riverberano soprattutto, come anticipato, nella potestà di emanare norme secondo i dettami e i limiti indicati dal proprio statuto, individuabili, per alcune materie, direttamente nella Costituzione, nei principi dell’ordinamento giuridico dello Stato, negli obblighi internazionali e negli interessi nazionali.
Ebbene, se in prima battuta si sarebbe potuto osservare che la norma specifica per la materia de qua fosse prevalente sulle disposizioni emergenziali di protezione civile (D.M. 16.5.1968), per le quali il perimetro della Valle era stato ampliato, cosicché venute meno le contingibilità che lo avevano determinato, il D.M. 12.6.1957 avrebbe dispiegato una vis espansiva sul complesso vincolato, schiacciando il decreto “Gui-Mancini”, la “specialità” della legislazione siciliana in materia porta a diverse conclusioni.
Ed infatti, l’analisi più approfondita porta a far emergere che - indipendentemente dalla natura giuridica del provvedimento normativo sussunto nella legge regionale siciliana n. 20 del 2000 - è a quest’ultima che occorre volgersi, essendo la Regione titolare del potere legislativo esclusivo in materia di conservazione delle antichità presenti sul proprio territorio.
Ciò porta a caducare l’ostacolo in precedenza evidenziato dalla Consulta per l’esercizio della competenza regionale nelle materie della tutela del paesaggio e della conservazione delle cose storiche e artistiche, rimosso con l’emanazione del decreto “Nencini” del 1991, decreto del presidente della regione contenente le norme di attuazione per l’operatività della norma statutaria di cui agli articoli 14 e 43 dello Statuto speciale.
Ma non ci si deve illudere che la strada tracciata (con l’emanazione della L.R. 20 del 2000) sia stata lineare e priva di insidie. Infatti, all’indomani del varo della norma, venne richiesta al Commissario dello Stato la formale impugnativa di essa innanzi alla Corte costituzionale in parte qua, in particolare dell’art. 18, che sospendeva per il periodo massimo di due anni le procedure sanzionatorie di cui alla L.R. n. 37 del 1985 (di recepimento ed applicazione in Sicilia la legge n. 47 del 1985), relative all’acquisizione degli immobili abusivi ed alla demolizione degli stessi. Ciò perchè sarebbe stato in evidente contrasto con la legge nazionale, recepita appunto dal legislatore regionale, secondo cui tutte le costruzioni realizzate abusivamente nell’area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi del D.M. di tutela della Valle di Templi del 1968 (“Gui-Mancini”), sarebbero state destinate alla demolizione. Tanto più che gran parte dei manufatti abusivi a quella data erano già stati oggetto di provvedimenti demolitori esecutivi emesso dalla Sovrintendenza ai BB.CC.AA., motivo per cui ne era disposta la sospensione biennale.
Dall’esame dei dati normativi in connessione fra loro e con la legge regionale n. 20, effettivamente emergeva una evidenza: sospendendo l’art. 18 “genericamente” le sanzioni (acquisitorie e demolitorie) per gli abusi edilizi, esso comportava l’inglobamento di qualsiasi abuso e qualunque epoca di realizzazione, neutralizzando i principi della legge statale sia quanto al tempo di riferimento dell’abuso, consentendo il superamento dei termini cronologici per beneficiare del condono, sia quanto al fine perseguito di ripristino della legalità violata, poiché solo in detta zona il limite temporale, in luogo del 31.12.1993, era fissato per saltum alla fine del 2000.
Tuttavia, il Commissario dello Stato non impugnò tale norma che divenne in tal modo definitiva.
Pertanto, da quanto sin qui argomentato è possibile concludere che la perimetrazione attualmente da ritenere valida ai fini che qui rilevano, alla luce delle fonti del diritto e della loro gerarchia, debba essere quella contenuta nel decreto P.R.S. del 1991 e nella legge regionale n. 20 del 2000.
Giuste le precedenti considerazioni, il tema assume connotati particolarmente rilevanti sul tema dell’abusivismo ed all’evoluzione dei concetti – dovuta anche all’interpretazione giurisprudenziale degli articoli 9 e 42 Cost. - secondo cui vi sono “complessi di beni e aree individuati direttamente dal legislatore in forza del loro particolare interesse ambientale determinato in funzione della loro singolarità geologica ed ecologica, connotando la struttura del territorio nazionale nella sua percezione visibile (...)”, il cui valore diviene primario, ovvero insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro (Cass. Civ., I, sentenza 22.11.2012, n. 20383).
Connatozioni che divengono maggiormente aspre se messe in relazione con l’accentuazione delle tutele apposte mediante la legge “Galasso” (L. n. 431 del 1985), che per i beni culturali e ambientali sottoposti a vincolo vietò, fino all’adozione da parte delle regioni dei piani paesistici, “ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché ogni opera edilizia (...)”, come peraltro sancito dalla (coeva) legge regionale siciliana del 10 agosto 1985, n. 37[8] , che congelò l’esame delle richieste di concessione o autorizzazione in sanatoria per le opere eseguite non conformi nell’ ambito delle zone vincolate con il D.M. 16 maggio 1968, come modificato dal D.M. 7 ottobre 1971.

4. La giurisprudenza e i vincoli di inedificabilità assoluta e relativa

Non può essere trascurata la giurisprudenza ai fini dell’analisi qui svolta.
L’abusivismo edilizio non è soltanto un fenomeno negativo relativo alla gestione del territorio, ma è soprattutto un reato contro l’ambiente e, come tale, reca un gravissimo vulnus al patrimonio pubblico, che è “bene comune”.
Ma, soprattutto quando perpetrato in aree sottoposte a vincoli, è il tipico illecito penale dal contenuto plurivoco, e cioè di disvalore sociale da un lato e, dall’altro pregno di risvolti economicamente valutabili in termini di evasione fiscale e mancati introiti.
La giurisprudenza amministrativa in merito all’abusivismo in zona vincolata ha sempre ritenuto – anche in contrasto, a volte, con l’orientamento giurisprudenziale di Palazzo Spada che ammette la sanatoria degli abusi edilizi in aree sottoposte a vincolo – che la legge impone al “dirigente comunale il diretto e repentino abbattimento dell’opera illecita” (TAR Napoli, sez. IV, n. 3780/05), in considerazione del fatto che l’art. 4, comma 2 della legge 47/1985 (ora sostituito dall’art. 27, comma 2, d.P.R. 380/2001), già allora imponeva al Sindaco (ora al Dirigente dell’ufficio), la demolizione “(…) quando accerti l’inizio di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica (…) nonché alle aree di cui alle leggi 1° giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni, il sindaco provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi (…).
L’utilizzo della forma verbale attiva (“provvede”), rende evidente l’intenzione del legislatore di ordinare che demolizione e ripristino dello status quo ante l’intervento illecito debbano “avvenire senza dilazione, senza potere discrezionale, senza analisi della dimensione e della gravità dell’opera o del danno arrecato, senza necessità di comunicazione di avvio del procedimento, senza alcuna considerazione di alternativa all’abbattimento, senza alcuna valutazione in merito alla sanabilità dell’intervento e senza alcuna analisi del pregiudizio cagionato alla rimanente parte del lavoro eventualmente regolare o del danno subito dal privato responsabile dell’abuso”[9].
Conforme all’orientamento evidenziato anche la Corte Costituzionale (ordinanza 6.3. 2001, n. 46, e la Cassazione Penale.
Tornando al caso specifico, come è stato anticipato, il tema dell’abusivismo nella Valle dei Templi è emerso con fragore in questi giorni a causa della concomitanza di alcuni eventi, quali il rigetto del ricorso per revocazione del Sindaco di Agrigento avverso la sentenza della Corte dei Conti n. 548 del 16.2.2012, e la discussione avviata dalle massime istituzioni siciliane in merito alla possibilità di varare norme per la sanatoria edilizia di immobili realizzati nelle aree gravate da vincoli paesaggistici e storico-archeologici, innescata da un recente parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa[10], originato dal convincimento della “non completa applicazione nel territorio siciliano di tutte le disposizioni richiamate nell’art. 32 della legge n. 326/2003”.
Una recente analisi[11] svolge una ampia e articolata indagine giurisprudenziale sugli orientamenti tesi a riconoscere ammissibilità “alle procedure di condono, in aree gravate da vincoli paesaggistici, per le sole opere minori” (Cass. penale, sez. IV, 12/01/2005, n. 12577; Tar Campania Napoli, sez. VI, 3/08/2005 n. 10563), dando atto nel contempo l’insuscettibilità della sanatoria per le costruzioni realizzate in area assoggettata a vincolo paesaggistico in assenza di permesso di costruire, malgrado qualche “posizione dottrinarie divergenti che avevano prospettato una interpretazione più permissiva delle disposizioni menzionate” (Cass. penale, sez. III, 28/03/2012, n. 14746).
D’altra parte, l’esclusione dalla sanatoria di tutte le opere abusive emerge per tabulas dall’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30 settembre 2003 n. 269, conv. con l. 24 novembre 2003, n. 326, laddove dispone che “le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”. Tale disposizione ha trovato pedissequa applicazione nella giurisprudenza costante (T.A.R. Veneto, sez. II, 19 giugno 2006 n. 1884; T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 16 marzo 2006 n. 3043; 8 febbraio 2007 n. 963), la quale rileva un dato oggettivamente apprezzabile nell’applicazione della previsione anzidetta subordinatamente al ricorrere di due condizioni: in primis, che il vincolo sia stato istituito prima dell’esecuzione delle opere abusive, e secondariamente che le opere, realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio siano non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Una recente pronuncia del massimo consesso della giusitizia amministrativa[12] ha precisato che sulla base della disciplina di cui al d.l. 269 del 2003, “la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica. Infatti, è ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purchè ricorrano le condizioni previste dall’art. 32, comma 27, lett. D), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003, vale a dire che non si tratti di opere realizzate dopo l’imposizione del vincolo ed in assenza o in difformità del titolo abilitativo che risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
A questo orientamento pare essersi uniformata la giurisprudenza consultiva siciliana, anche più recente, poiché – con pronunce pressoché costanti, assunte anche a Sezioni riunite – ha sottolineato come l’art. 32, comma 27, lett. d) del d.l. cit., preveda espressamente fra gli interventi esclusi dalla sanatoria quelli eseguiti in aree vincolate (ove il vincolo sia stato imposto prima della esecuzione degli interventi) e non conformi alla normativa urbanistica ed edilizia (C.G.A. parere n. 1140 del 19/02/2013; C.G.A. parere n. 291 del 31/01/2012; C.G.A. parere n. 1014/10 del 21/09/2010; C.G.A. parere n. 1001/10 del 14/12/2010), propendendo per una posizione, dunque, meno rigida del passato, e fondata sulla distinzione fra vincolo relativo e vincolo assoluto, ai fini dell’applicabilità del c.d. terzo condono anche agli abusi realizzati in aree soggette a vincoli relativi di inedificabilità, alle condizioni previste dall’art. 32-33 della legge n. 47/1985, recepita e modificata in Sicilia dall’art. 23 della L.R. n. 37/1985.
Gli effetti di tale distinzione fra vincolo relativo e vincolato assoluto ai fini della sanabilità di un’opera realizzata in zona vincolata, possono essere multiformi.
Generalmente i vincoli assoluti sono quelli previsti da leggi speciali a tutela di valori di particolare rilevanza, come da sempre sostenuto dalla giurisprudenza. A tale riguardo, la Cassazione ha avuto cura di precisare che quando la pubblica amministrazione appone “un vincolo di inedificabilità assoluta di alcune aree adiacenti al monumento direttamente vincolato al fine di conservare l’integrità del fondale e la vista del bene, il proprietario dell’area circostante non può apportare al suolo di sua proprietà alcuna modificazione in contrasto con la prescrizione”. La Cassazione ha operato la distinzione in esame, fra vincoli assoluti e relativi, precisando che “I divieti possono essere assoluti o relativi. Se il divieto è assoluto, l’attività vietata non può essere svolta neppure con la preventiva autorizzazione amministrativa. Nessuno può ad esempio essere autorizzato ad aprire una cava nella zona di rispetto del Colosseo o a costruire rispettando le sole distanze previste dal codice civile. La natura istantanea o permanente del reato dipende dalla natura della condotta che offende il bene tutelato. Il vincolo di inedificabilità assoluta e il divieto assoluto di svolgere una determinata attività danno solitamente luogo a reati permanenti perché l’offesa si protrae fino al ripristino della situazione ambientale precedente. Se invece trattasi di prescrizioni relative a limitazioni del diritto di edificazione, il quale potrebbe tuttavia essere esercitato previa autorizzazione preventiva dell’autorità preposta alla tutela del bene, non v’è ragione per adottare, a parità di condotta, un orientamento diverso da quello adottato da questa sezione in materia di tutela dei beni paesaggistici ossia in materia di vincoli diretti. In tali casi il reato ha sì natura permanente, ma la permanenza cessa con l’ultimazione dell’opera [13].
Quanto affermato dalla Cassazione è talmente puntuale che se ne deduce una univoca lettura: in presenza di un vincolo assoluto l’unica possibilità che l’ordinamento appronta è il ripristino della situazione ambientale quo ante, a differenza di ciò che accade nel caso di vincolo relativo, nel qual caso si assiste ad una pregnanza degli obblighi e/o pareri delle autorità preposte al vincolo.
Il tema è rilevante perchè la citata giurisprudenza del C.G.A. ha, appunto, ritenuto che in Sicilia, sulla base delle speciali norme di settore, il divieto di sanatoria va riferito esclusivamente ai vincoli di natura assoluta, e non anche a quelli di natura relativa (CGA, parere 31.1.2012, n. 291).
In conseguenza del parere anzidetto – e per arginare gli allarmismi - la regione ha adottato una circolare, la n. 2/2014[14] con la duplice funzione, di diffondere da un lato il d.P.R.S. relativo al ricorso straordinario n. 465/2013 di cui al parere del Cga, e, dall’altro lato, di precisare l’ambito applicativo della “sanatoria” consentita dal giudice amministrativo locale, delimitandola alle sole opere oggetto di condono edilizio già presentate ai sensi della L. n. 326/2013.
Resta comunque un tema di fondo, di cui si è dato atto anche in una precedente analisi[15] in materia di perequazione urbanistica, ovvero l’assenza di una moderna ed efficace gestione del governo del territorio regionale siciliano, da attuarsi mediante una riforma organica della legge urbanistica in grado di pianificare in maniera organica (e non episodica) il futuro di una delle più spettacolari regioni italiane.
Terminata la divagazione, e chiarita la differenza esegetica fra vincoli, quando si versi nel caso di un intervento abusivo accertato in un’area soggetta a vincolo assoluto e sia stata acclarata l’inerzia dell’amministrazione comunale nel disporne la demolizione (ndr. Com’è accaduto nel caso delle opere abusive realizzate nella Valle dei Templi), “è legittimo l’esercizio di poteri surrogatori da parte dell’assessorato regionale ai beni culturali e ambientali, a nulla rilevando la competenza dell’assessorato regionale per il territorio e l’ambiente per i profili edilizi ed urbanistici”[16].
Con riguardo, invece, alla specifica applicabilità nella regione siciliana della speciale disciplina dei beni culturali ed ambientali (Codice), il C.G.A. ha ritenuto che detto corpus normativo “trova applicazione in Sicilia, pur in mancanza di formale recepimento in sede regionale, in quanto la disciplina attiene specificamente non alla materia urbanistica, ma quella della tutela delle bellezze naturali, in relazione alla quale la regione siciliana ha legiferato facendo riferimento alla disciplina sostanziale statale, del resto comunque applicabile in assenza di disposizoni specifiche fonti regionali. Di talché in Sicilia le soprintendenze ai beni culturali ed ambientali hanno natura giuridica di “organi periferici” dello specifico assessorato (ndr: beni culturali e ambientali), con la conseguenza che sono organi muniti del potere-dovere di applicare e attivare le relative procedure coercitive e sanzionatorie”[17].
Ciò detto, con l’entrata in vigore del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ed in particolare dell’art. 146, comma 10, d.lgs. n. 42 del 22.1.2004, come modificato dal d.l. n. 70/2011, conv. in legge 12.7.2011, n. 106, la vera novità da registrare risiede nel fatto che l’autorizzazione paesaggistica postuma per le opere edilizie realizzate sine titulo[18] in sanatoria, ovvero “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi” edilizi (lett. c), non può più essere rilasciata, invertendosi in tal modo una “rotta”, sin lì più permissiva, che consentiva la sanatoria, anche agli effetti penali, dei c.d. “abusi minori” o “piccoli abusi”. Questo principio - costituente ius novum - trovava un limite invalicabile nel “tempo” trascorso, non consentendo più, dopo l’entrata in vigore del Codice, l’autorizzazione ex post di interventi edilizi realizzati in assenza di certificazione paesaggistica o in difformità da essa.
È questo il momento che ha segnato, in un certo senso, il punto di rottura del sistema, poiché in siffatto mutato (e chiarito) quadro normativo – statale e regionale - sono giunti a conclusione una molteplicità di giudizi inerenti i casi di abusivismo nella zona de qua, con le conseguenze note in materia, che vanno dall’ordine di demolizione da parte del Comune e, in caso di inottemperanza dell’ingiunto, all’acquisizione al patrimonio comunale al mero scopo di ripristinare la legalità violata con la successiva demolizione degli immobili. Tuttavia, le riodette conseguenze sono rimaste mere esercizi linguistici, atteso che le opere abusive nelle zone sottoposte a vincolo archeologico nella Valle dei Templi dal 1986 ad oggi, non sono state abbattute, permanendo le violazioni delle norme urbanistiche, sui cui comportamenti omissivi si è pronunciata la Corte dei Conti, dapprima con una rilevante sentenza che si andrà ad analizzare, e nei giorni scorsi, con la decisione sul giudizio di revocazione, ponendo fine alla diatriba.
Risulta tuttavia dai recenti interventi della magistratura ordinaria, come sia in atto una vera e propria ricognizione degli abusi al fine di perfezionare i relativi provvedimenti giudiziari contenenti l’ordine di demolizione. Al riguardo, è la Procura della Repubblica ad aver preso in carico l’onere di eseguire le sentenze (e, ovviamente, la legge), partendo da un censimento di tutti gli immobili risultati costruiti abusivamente, affinché il privato, in primis, ovvero l’Ente locale in caso di inadempienza, proceda alla demolizione, con le conseguenze penali e, dato rilevante, anche erariali per i danni arrecati, come dimostra la recente giurisprudenza contabile.
Proprio in materia di responsabilità contabile, con una sentenza dei giorni scorsi, la Corte dei Conti della Regione siciliana ha respinto un ricorso straordinario del pubblico amministratore (Sindaco), per la “revocazione” di una precedente sentenza, che pertanto diviene esecutiva, poiché è stato ritenuto dalla Sezione giurisdizionale d’appello che ricorressero irregolarità procedurali che si frapponevano all’accoglimento del ricorso, determinando l’effetto per cui l’ex sindaco dovrà pagare al Comune (ndr.:di Agrigento) un consistente risarcimento del danno arrecato all’immagine della città, per non avere contrastato l’abusivismo edilizio nell’area della Valle dei Templi.

5. L’inerzia e il danno all’immagine della P.A. da abusivismo
Chiariti i termini della corretta individuazione normativa del perimetro entro il quale considerare abusivamente realizzati i manufatti privi di titolo o difformi dal titolo stesso, e precisata la linea di demarcazione della liceizzazione di essi fondata sulla qualificazione giuridica del vincolo (assoluto o relativo), resta il tema che il fenomeno dell’abusivismo edilizio costituisce una ferita profonda dell’ordinamento, il cui disvalore sociale colpisce molteplici ambiti.
Uno degli aspetti involge la responsabilità di coloro che, detenendo il potere-dovere di controllo edilizio e ripristino della legalità violata, non l’hanno esercitato, determinando un danno alla pubblica amministrazione consistente anche nella perdita di fiducia nei confronti degli amministrati, di credibilità delle istituzioni, ecc., che per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione costituisce danno economicamente valutabile, e quindi sub specie del danno erariale, poiché ancorato “alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica, che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso” (Cass. S.U., sent. n. 5668 del 1997).
Quanto al tema della corretta individuazione della giurisdizione, sempre le S.U. Della Cassazione hanno precisato come essa spetti alla Corte dei Conti, ritenendo all’uopo che “il danno cagionato all’immagine dell’ente da pubblici dipendenti o altri soggetti facenti parte dell’apparato organizzativo di una pubblica amministrazione, benché non implichi una diretta diminuzione patrimoniale, è, ciononostante, passibile di valutazione economica, sotto il profilo della spesa necessaria alla ricostituzione del bene giuridico offeso. La relativa azione di responsabilità, pertanto, rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti” (Cass. S.U. n. 20886 del 2006; S.U., n. 8098 del 2007).
Con l’entrata in vigore della legge “anticorruzione” del 6 novembre 2012, n. 190 (“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”), il legislatore ha provveduto ad ampliare le attribuzioni della Corte dei Conti, anche nella materia che qui interessa, ovvero sulle azioni di merito tese a tutelare il credito erariale conseguente alla lesione dell’immagine della persona giuridica pubblica a fronte di reati commessi da parte di appartenenti alla stessa[19].
Ebbene, acclarato il dato normativo espansivo, e le novità che esso introduce nel giudizio di responsabilità con l’espressione “accertato con sentenza passata in giudicato”, la Corte dei Conti della Sicilia ha affrontato il tema della responsabilità degli amministratori con riferimento ai poteri-doveri da esercitare in materia di repressione dell’abusivismo urbanistico-edilizio nelle zone vincolate del territorio comunale, ritenendo responsabile il sindaco non solo dell’adozione “di singoli atti per cui è prevista la sua sottoscrizione, ma dell’esercizio di una funzione articolata e complessa a lui attribuita a prioritaria, ineludibile tutela della corretta osservanza delle procedure in materia urbanistico-edilizia”.
La Corte dei Conti siciliana, preso atto che con sentenza n. 262/2001 del 18/1/2002, il Giudice penale aveva condannato il sindaco ed altri amministratori della città, per i reati previsti e puniti dagli artt. 81 cpv., 110 e 323 c.p. perché, in concorso tra loro, e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusavano, del loro ufficio avendo “omesso di adottare i definitivi provvedimenti di polizia urbanistica, obbligatori ai sensi della L. 47/1985 e della LR 37/1985, in relazione a molteplici manufatti, abusivi alcuni dei quali realizzati nella zona A della Valle dei Templi”, con condanna al risarcimento dei danni, confermata dalla Corte d’Appello.
Il primo elemento degno di nota è la determinazione cui i giudici erano pervenuti nel qualificare il danno come “produttivo di un concreto risvolto patrimoniale”, a causa della mancata eliminazione del degrado paesaggistico (quale conseguenza dell’omessa repressione dell’abusivismo edilizio), il cui ripristino “richiede l’impiego di ingenti risorse economiche, tenuto conto delle vaste proporzioni del fenomeno illecito – oltre mille manufatti abusivi – nell’intero territorio del comune di Agrigento. Dall’anno 1985 al 1993 sono stati accertati n. 1136 abusi edilizi (…). Sul punto si deve tuttavia rilevare che gli abusi effettivamente commessi nell’ambito Comunale devono essere indicati in un numero di molto superiore in ragione del mancato controllo e del difetto di ogni monitoraggio del territorio (…)”. Il danno veniva poi dettagliato e suddiviso per “voci” dall’organo requirente e recepito ai fini della concreta valutazione dalla Corte contabile: “danno per scorretto utilizzo del territorio, con conseguente violazione della vivibilità ambientale e paesaggistica, “danno all’immagine”, “danno all’efficacia della pubblica amministrazione”.
Mentre sul “danno ambientale”, la Corte dei Conti ha declinato la propria giurisdizione a favore di quella del giudice ordinario[20], essa si è concentrata sul “danno all’immagine” subito dall’amministrazione comunale, ritenuto sussistere in virtù del fatto che “l’opinione pubblica ha identificato la città di Agrigento con l’abusivismo edilizio, agevolato, in dispregio ai principi di legalità, correttezza ed imparzialità, dalla spregiudicatezza di amministratori compiacenti”.
Dopo aver esaminato l’impianto normativo in materia, la Corte è pervenuta alla conclusione che, per la definizione del caso, assume rilievo applicativo la disciplina dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. 78/2009, il quale “circoscrive i casi nei quali è azionabile la pretesa risarcitoria per il ristoro del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, prevedendo che le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”, con la conseguenza che laddove sia intervenuta, a carico del convenibile innanzi alla Corte dei Conti, sentenza definitiva di condanna, la condizione è rispettata. Ed infatti, motiva la Corte, “con tale previsione è stata data valenza normativa all’orientamento giurisprudenziale secondo cui per la configurabilità di un danno all’immagine non è sufficiente la pubblica divulgazione della notizia, assistita da un sufficiente grado di attendibilità, circa le condotte lesive che ne sono alla base (indirizzo più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: tra le tante Sezione d’Appello per la Regione Siciliana sentenze nn. 61/2005, 89/2006, 162-174-308/2008 e 7-253/2009). Le condotte cui è normativamente riconosciuta l’astratta idoneità a generare danni di quella tipologia necessitano, invece, per costituire valida condizione per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa, dell’asseverazione della pronuncia penale definitiva”, circostanza prodottasi nel caso di specie.
Pertanto, è stato riconosciuto che, ai fini risarcitori, “il coinvolgimento diretto ed inequivoco del Sindaco del Comune di Agrigento, risulta per tabulas dalla stessa lettura degli artt. 4 e 7 L. 47/85 che, come motivatamente dimostrato in sentenza (…), riferisce proprio al Sindaco non solo il potere-dovere di ingiunzione della demolizione (correttamente estensibile sia alla zona A che a quella B) ex art. 8 L. cit., ma anche quello di emettere ordinanza di demolizione, una volta verificate le condizioni, anche di tempo, legittimanti detta misura. In sostanza, come puntualmente si rileva in sentenza, in subiecta materia la competenza sindacale assume caratteri di procedura “complessa”, non solo esprimentesi attraverso le richiamate ordinanze di ingiunzione alla demolizione e quelle di demolizione conseguenti, ma anche e soprattutto attraverso un potere di controllo e di direttiva nei confronti degli Uffici tecnici ed amministrativi comunali, proprio per effetto di essere il Sindaco in primis titolare e responsabile della procedura attinente l’attività urbanistico- edilizia.
Del resto, che questa sia la corretta lettura della norma, si evince proprio dallo stesso testo dell’art. 4 L. 47/85 in combinato disposto con quello di cui allo art. 7 L. cit., secondo cui è evidente che, al potere di vigilanza e controllo sull’attività urbanistico- edilizia nel territorio comunale, corrisponde un potere-dovere di sospensione dei lavori eseguiti in violazione di prescrizioni e modalità richieste in rapporto al tempo e luogo della costruzione, nonché un potere-dovere di ripristino dei luoghi stessi, mediante esecuzione della ordinanza di demolizione, conseguente alla inevasa ingiunzione a tanto, in danno dei responsabili dell’abuso. In conclusione, come motivatamente e correttamente osserva la Corte territoriale palermitana, il sindaco non risponde solo dell’adozione di singoli atti per cui è prevista la sua sottoscrizione, ma dell’esercizio di una funzione articolata e complessa a lui attribuita a prioritaria, ineludibile tutela della corretta osservanza delle procedure in materia urbanistico-edilizia”.
Chiarita la prospettiva dell’indagine, la Corte contabile ha ritenuto che il pregiudizio all’immagine dell’Ente, peraltro attuato durante un ampio arco temporale, abbia finito per incidere sugli attributi reputazionali dell’Ente, pregiudicandoli: “la compromissione dell’immagine, insomma, deriva dal fatto che è stato irritrattabilmente accertato che per un periodo prolungato l’azione amministrativa del Comune non è stata, come invece avrebbe dovuto essere, improntata al buon andamento ed all’imparzialità e ha determinato quell’effetto che la Procura ha individuato nella minore credibilità e prestigio per la P.A., ingenerando altresì nei cittadini la convinzione di una distorta organizzazione dei pubblici poteri”.

6. Conclusioni

“Tante leggi, nessuna legge”. L’incipit della presente analisi costituisce anche valido termine di conclusione.
Infatti, la cavillosità delle norme che hanno riguardato l’area della Valle dei Templi, l’anomia della disciplina urbanistica e l’iper produzione legislativa dell’emergenza, unita alla proverbiale tendenza a rimanere inerti di fronte alle questioni estremamente complesse, ha consentito di mantenere uno stato di immobilità che, nel tempo, con l’evoluzione della sensibilità sociale e della protesta civile, ha presentato il conto all’improvviso.
Le soluzioni esistono, sono numerose e valide, ma scontano un difetto, quello di scontrarsi con interessi molto forti e variegati, che potrebbero tuttavia essere mitigati con una seria politica di governo del territorio, in primis, mediante l’adozione della filosofia perequativa di pianificazione.
Il dato oggettivo, in tutto ciò, è che la Valle dei Templi è una zona di notevole interesse pubblico, dove l’aggettivo “notevole” non deve essere inteso solo quale sterile appellativo legislativo, ma nel senso proprio del termine, ovvero quale obiettivo da proteggere e valorizzare, anche mediante un’adeguata pianificazione, che sia idonea a contemperare gli interessi pubblici (culturali, paesaggistici), con gli interessi privati. Sicché è lodevole l’iniziativa degli odierni amministratori tesa a voler far luce sul complesso normativo che nel tempo ha riguardato la perimetrazione dell’area, per giungere ad una univoca lettura dei vincoli ivi operanti.
La sensazione è che la sistemazione definitiva della materia in esame (sia dal punto di vista normativo, che - in un parallelo “curioso” – pratico e concreto), sia ancora lontana, anche perchè in una sola “area” sono concentrate una varietà enorme di materie, la cui “messa a sistema” capillare meriterebbe un tavolo di competenze – tecniche, giuridiche, scientifiche e politiche - (pre)disposte al confronto ed alla discussione sui temi aperti e maggiormente controversi.
L’auspicio (e lo scopo) della presente analisi, lungi da pretese di esaustività, è dunque quello di aver apportato un ulteriore contributo alla discussione aperta in materia e, ove occorrer possa, aver offerto un metodo di lettura normativa e giurisprudenziale.

 

[1] Sul punto, cfr. un interessante contributo su questa Rivista di L.Piazza, in nota alla sentenza della Corte dei Conti, Sez. Giurisd. Sicilia, 16.2.2012, n. 548
[2] G.P. Cirillo, La "cultura" nell'ordinamento giuridico, Atti Giornata mondiale del Libro e del Diritto d’autore, Roma, 28 aprile 2003
[3] A.Trentini, Codice dei beni culturali e del paesaggio. Commentario ragionato del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Maggioli Editore
[4] Art. 14 - L'Assemblea, nell'ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie:
a) agricoltura e foreste;
b) bonifica;
c) usi civici;
d) industria e commercio, salva la disciplina dei rapporti privati;
e) incremento della produzione agricola ed industriale; valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali;
f) urbanistica;
g) lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale;
h) miniere, cave, torbiere, saline;
i) acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere pubbliche di interesse nazionale;
l) pesca e caccia;
m) pubblica beneficenza ed opere pie;
n) turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche;
o) regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative;
p) ordinamento degli uffici e degli enti regionali;q) stato giudico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione, in ogni caso non inferiore a quello del personale dello Stato;
r) istruzione elementare, musei, biblioteche, accademie;
s) espropriazione per pubblica utilità.

[5] Art. 33 - Sono altresì assegnati alla Regione e costituiscono il suo patrimonio, i beni dello Stato oggi esistenti nel territorio della Regione e che non sono della specie di quelli indicati nell'articolo precedente. Fanno parte del patrimonio indisponibile della Regione: le foreste, che a norma delle leggi in materia costituiscono oggi il demanio forestale dello Stato nella Regione; le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo; le cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico ed artistico, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale; gli edifici destinati a sede di uffici pubblici della Regione coi loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della Regione.
[6] M. Immordino, Beni culturali e ambiente nella regione Sicilia, Aedon, n. 1/2003
[7] G. Gucciardo, Regolazione sociale e abusivismo edilizio: il caso della Valle dei Templi di Agrigento

[8] Art. 25 - Entro il 31 ottobre 1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l' ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente Commissione legislativa dell'Assemblea regionale siciliana.
I pareri del Sovrintendente e del Consiglio regionale dei beni culturali devono essere espressi entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta; trascorso infruttuosamente tale termine il Presidente della Regione provvede secondo il disposto del primo comma.
La gestione, l' organizzazione, la fruizione del Parco archeologico della Valle dei Templi saranno regolati con apposita legge.
Fermi restando i termini previsti dal primo comma dell' art. 26 della presente legge, l'esame delle richieste di concessione o autorizzazione in sanatoria per le opere eseguite nell' ambito delle zone vincolate con decreto ministeriale 16 maggio 1968 modificato con decreto ministeriale 7 ottobre 1971 rimane sospeso, fino all' emanazione del predetto decreto del Presidente della Regione.

[9] G.Rusconi, Demolizione degli abusi in zone vincolate, 30.1.2006
[10] CGA, parere 31.1.2012, n. 291
[11] M.Greco, La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano, 5.2.2014, Diritto.it
[12] Cons. Stato, sez. IV°, sent. n. 3174/2010
[13] Cass. pen., sez. III, sent. 2.10.2008, n. 37470
[14] Circolare Assessorile Territorio e Ambiente n. 2/2014, prot. n. 2302 del 31.01.2014
[15] A. Trentini, Perequazione Urbanistica, Filodiritto Editore, 2013; Codice dell'Espropriazione e della perequazione urbanistica, AAVV, NelDiritto Editore, 2013;
[16] Cons. Giust. amm. reg. Sic., 14 luglio 2005, n. 446,
[17] Cons. Giust. amm. reg. Sic., 14 dicembre 2005, n. 867
[18] T.A.R. Veneto, Sez. II - 17 gennaio 2005, n. 91; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV – 14 febbraio 2005, n. 1009
[19] All'art. 1 della L. 14 gennaio 1994 n. 20 , sono stati inseriti i commi 1 sexies e 1 septies, a mente dei quali:
“1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
1-septies. Nei giudizi di responsabilità aventi ad oggetto atti o fatti di cui al comma 1-sexies, il sequestro conservativo di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, e' concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale”.
[20] Cassazione (SS.UU. Ord. n. 14846 del 6/7/2011