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Storia del fallito che a forza di lettere di credito si è finalmente liberato del berretto verde

Il quarto stato, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Milano, Museo del Novecento
Il quarto stato, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Milano, Museo del Novecento

Indice

1. La riforma organica delle discipline concorsuali

2. Dalle XII Tavole al Corpus Iuris civilis giustinianeo

3. L’arte del cambio e la dematerializzazione della moneta

4. La centralità dell’elemento soggettivo: il fallito doloso e il fallito innocente

5. Dal commerciante all’imprenditore, comunque fallito, poi redento

 

1. La riforma organica delle discipline concorsuali

Il diritto concorsuale ha visto numerosissimi interventi legislativi nel nuovo millennio, tra integrazioni, miniriforme, riforme annunciate, leggi deleghe e, da ultimo, legislazione delegata di riforma organica delle procedure concorsuali per effetto della quale viene alla luce il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato mediante l’emanazione del D.Lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019 dal Consiglio dei Ministri in attuazione della legge delega 155/2017, e pubblicato in G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, S.O. n. 6.

Il percorso tramite il quale si è pervenuti dopo decenni di discussioni e commissioni di studio, oltre che di istanze di riforma, alla recentissima riforma ha visto il proprio punto di partenza nel Decreto Ministeriale del 28 gennaio 2015 con il quale fu istituita una commissione di esperti, composta da magistrati, docenti universitari e professionisti (presieduta dal Dott. Rordorf, dal ché, denominata “Commissione Rordorf”) incaricata di valutare la necessità di ulteriori interventi normativi per il riordino delle procedure concorsuali.

L’elemento che finalmente attuò le plurime istanze di riforma financo risalenti quasi già all’indomani del R.D. 267/1942 (la legge fallimentare nota a tutti) scaturì dall’intento di voler mettere ordine alla complessità e alla rilevanza delle numerose modifiche normative che negli anni addietro, viepiù nel nuovo millennio, si erano susseguite in materia di procedure concorsuali o di crisi dell’impresa o di sovraindebitamento. Compito specifico della Commissione, da svolgersi espressamente entro la fine del 2015, fu quello di elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali.

Nel novembre del 2015 pertanto la Commissione licenziò una prima bozza di schema di disegno di legge delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza. Il Consiglio dei Ministri nel febbraio 2016 approvò dunque tale schema di disegno di legge delega, che venne così sottoposto alle Camere le quali, approvandolo la Camera dei Deputati nel febbraio 2017, il Senato nell’ottobre del medesimo anno, conferirono formalmente con la legge 155/2017 la delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Dopo il conferimento di ulteriore incarico alla Commissione Rordorf per l’elaborazione di tre schemi di decreti legislativi in attuazione della delega, si è pervenuti all’approvazione di uno schema di decreto legislativo recante il “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” sottoposto al parere delle Commissioni parlamentari competenti dalle quali ricevette esito favorevole, con numerose osservazioni.

A ridosso dello spirare del termine per l’esercizio della delega, in data 12 gennaio 2019, recependo parte delle osservazioni formulate dalle Commissioni parlamentari, il Consiglio del Ministri ha finalmente emanato il Decreto Legislativo n. 14/2019 di attuazione della delega.

Per mera completezza, stante la non totale copertura della delega, o quanto meno per escluderne lacunosità, nell’ottobre del 2018 è stato presentato un Disegno di legge (approvato lo scorso 16 gennaio 2019) contenente Delega al Governo per l’adozione di disposizioni integrative dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza (sarebbe meglio dire “adottandi” laddove ad ottobre 2018 non era ancora stato approvato il testo del provvedimento attuativo della delega): una sorta di “paracadute” in bianco, in sostanza, per consentire al Governo la eventuale emanazione di c.d. correttivi alla riforma, entro due anni dalla pubblicazione della legge delegata.

Riforma che, per inciso, entrerà in vigore (salvo sedici articoli) dopo diciotto mesi dalla pubblicazione del D.Lgs. nella Gazzetta Ufficiale: pertanto, stante la pubblicazione in data 14 febbraio 2019, la riforma nella sua piena organicità avrà efficacia dal 15 agosto 2020 in poi, fermo restando che, come espressamente previsto, i procedimenti pendenti a tale data e quelli dichiarati per ricorsi alla medesima data già depositati, permarranno ad essere disciplinati secondo la legge fallimentare del 1942.

Un aspetto meno tecnico della riforma, che ha attirato da subito l’attenzione non solo degli addetti ai lavori, è la rimozione da tutta la materia concorsuale di qualsiasi termine che abbia a che vedere con il disdoro sociale ed economico del “fallimento” e di tutti i termini da esso derivanti: è stata così prevista la sostituzione del termine di “fallito con quello di “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale”, di “fallimento” con “liquidazione giudiziale”, e di “procedura fallimentare” che diverrà “procedura di liquidazione giudiziale”.

L’articolo 349 del nuovo codice, rubricato, appunto “sostituzione dei termini fallimento e fallito” precisa in ogni modo “con salvezza della continuità delle fattispecie”: dunque è da intendersi che la sostituzione terminologica non opererà con riferimento alle fattispecie venute in essere prima dell’entrata in vigore del codice.

A fugare ogni dubbio il successivo art. 389 delle disposizioni finali e transitorie del Codice, che al proprio primo comma specifica che il D.Lgs. entrerà in vigore decorsi diciotto mesi dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, salvo una manciata di articoli (sedici per l’esattezza) che entreranno in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione: tra tali articoli non compare il 349, così confermando quanto sopra.

Nel relazionare in merito alla suddetta eliminazione lessicale, il legislatore delegato riferisce che “il fallimento ha perso negli anni la sua connotazione di strumento volto essenzialmente ad espellere dal mercato l’imprenditore insolvente, gravato anche dal marchio della colpevole incapacità di corretta gestione degli affari”, indi per cui, coerentemente con tale impostazione, è stato modificato il titolo della procedura che da “fallimento” diviene “liquidazione giudiziale”, ciò “in considerazione del risalente stigma legato alla qualifica di fallito”.

Il fallimento come uno stigma, un marchio, dunque, che il legislatore ha inteso eliminare.

Un progresso legislativo sulla scia degli ultimi plurimi interventi del nuovo millennio in materia concorsuale, tutti all’insegna della ratio della necessità di salvaguardare il bene impresa e dei valori produttivi e occupazionali, piuttosto che sanzionare il debitore insolvente: l’imprenditore onesto, sì, ma sfortunato, da un lato ma anche pariteticamente l’imprenditore che per quanto meritevole della sottoposizione alla procedura concorsuale liquidatoria, non merita comunque l’appellativo di fallito.

Uno stigma, un marchio, quello del fallimento, che persisterà ad “affliggere” gli imprenditori commerciali sino al 15 agosto 2020: solo dopo tale momento nessun marchio potrà essere impresso a fuoco sul curriculum vitae del debitore sottoposto a liquidazione giudiziale.

Eccezion fatta sia per coloro i quali saranno stati dichiarati falliti sino alla data di entrata in vigore del Codice della Crisi, sia per coloro i quali verranno dichiarati falliti in forza di ricorso depositato financo il giorno di entrata in vigore della riforma.

Invero, l’art. 390 delle disposizioni finali e transitorie specifica chiaramente che i ricorsi per la dichiarazione di fallimento, le proposte di concordato fallimentare, i ricorsi per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, per l’apertura del concordato preventivo, per l’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa e le domande di accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, presentati prima dell’entrata in vigore del Codice e le relative procedure saranno definiti secondo le disposizioni della normativa precedente (R.D. 267/1942 e L. 3/2012).

La legge fallimentare per come a tutti conosciuta, dunque, trattandosi di normativa non solo sostanziale ma viepiù processuale, permarrà sino all’esaurimento delle procedure dichiarate anche successivamente alla entrata in vigore del Codice della Crisi in forza di ricorsi e di domande presentate precedentemente alla medesima entrata in vigore. Così permarrà la terminologia di fallito e su di questi quel “marchio d’infamia” che la riforma di contro vorrebbe eliminare. Vi saranno dunque “falliti” e “fallimenti” da un lato e “debitori assoggettati a liquidazione giudiziale” e “liquidazioni giudiziali dall’altro.

Ma è davvero solo negli ultimi anni, come si legge nella relazione accompagnatoria della legge delegata, che si è manifestata una istanza prima e una volontà poi di eliminare la connotazione infamante del termine “fallito”? O è un percorso che ha radici più antiche? È, in conclusione, di così recente istanza l’esigenza di adeguare il lessico normativo ai cambiamenti culturali ed economici degli ultimi anni, financo in parallelo con la totale affermazione della globalizzazione dei mercati ? È di pochi anni il cambiamento della concezione etica e morale del lavoro, del commercio e dell’imprenditoria? O siamo al termine di un percorso che alle spalle ha una strada molto più lunga e tortuosa ?

Fallito”, “fallimento”, “fallimentare”: dal verbo latino “fallere”, ossia “ingannare”. Il soggetto in stato di decozione per via del proprio comportamento (vitio suo) o solo colpito da sventura e mercati avversi, caduto nella incapacità di onorare i propri debiti, di per sé solo commette(va) un inganno, una frode, nei confronti della collettività e della comunità cui apparteneva, delle corporazioni, minando la fiducia che la popolazione (quelli che oggi chiameremmo “consumatori”) deve(doveva) mantenere nel mercato e nell’economia.

L’evoluzione del diritto fallimentare è stata ritenuta, nel proprio sorgere in epoca medioevale, una sorta di mutuazione e mutazione dei canoni di diritto romano in materia di esecuzione forzata contro il debitore.

 

2. Dalle XII Tavole al Corpus Iuris civilis giustinianeo

Qui non habet in aere, luat in corpore, si legge nelle Leggi delle XII Tavole (ca. 453 a.C.), ossia “chi non possiede danaro, paghi con il proprio corpo”: il debitore insolvente diveniva di proprietà del creditore il quale era pressoché libero di disporre di questi a proprio piacimento. A fronte dell’avvenuto riconoscimento con sentenza in capo ad un soggetto della propria inadempienza al pagamento delle proprie obbligazioni, qualora questi non fosse riuscito a soddisfare il proprio debito e non avesse alcuno che potesse fargli da garante, subiva una punizione che era di pura afflizione fisica.

Al creditore insoddisfatto era concesso di disporre del debitore, legarlo con catene e trascinarlo con sé (quindi in pubblico) imponendogli addosso pesi di almeno quindici libbre, di metterlo in vendita al mercato come schiavo e di trattenere il prezzo anche se superiore al debito contratto.

Addirittura, qualora dopo un ciclo di tre mercati – ben poco tempo, considerando che, stando alle fonti, ogni otto giorni ve ne era uno – in cui il creditore non fosse riuscito a trovare alcun acquirente e dunque a vendere lo schiavo debitore, aveva il diritto di ucciderlo e, nel caso di presenza di altri creditori, di spartirne le membra con essi, in una sorta di macabra declinazione di un “concorso di creditori”, di “par condicio creditorum”. Una pratica che venne proibita solo dalla Lex Poetelia Papiria (326 a.C.) che disciplinò l’esecuzione forzata sui beni di questi (bonorum venditio).

Fino all’età dei Severi (III sec. d.C.) il debitore privato insolvente poteva rispondere dei propri debiti o con il proprio patrimonio o per mezzo di garanti e, in mancanza, subiva la carcerazione, la condanna alla infamia e a pene corporali. Nel Corpus Iuris civilis giustinianeo (529-534), la ricostruzione del complesso legislativo romano restituisce oltre alle predette previsioni, la normativa che disponeva anche la possibilità di sottoporre il debitore alla custodia cautelare (C.I. 7.71.7, a.531), qualora questi non avesse la capacità di avere un garante, sino al termine del processo in cui era convenuto dai propri creditori. Sostanzialmente, unica via per evitare la carcerazione era la cessione dei propri beni.

In alternativa, in mancanza di alcuno spiraglio, non rimaneva soluzione per il debitore che la fuga, che ben poteva anche consistere, proprio per evitare la vendetta di sangue, nella richiesta di asilo che poteva essere di carattere “non sacro” o, meglio, “internazionale”, ossia concesso in base ad accordi tra le città, oppure “sacro”, interno, ossia nei luoghi sacri dapprima pagani presso i sacerdoti per poi venire accordato, con il successivo avvento del cristianesimo, nelle chiese. Pratica che comunque non manteneva al sicuro dalla possibilità che il rifugiato subisse l’“estrazione” da tali luoghi con la forza.

I debitori dunque, ma in generale coloro i quali volessero sfuggire alle pene capitali o comunque a rappresaglie “di sangue”, al fine di evitare le ingiurie, le pene corporali e la carcerazione, cercavano riparo e rifugio nella immunità delle chiese o nei luoghi protetti dalle autorità ecclesiastiche, nella loro inviolabilità.

Il largo ricorso a tale ricerca di protezione indusse la previsione nel Codice Teodosiano (438) dell’obbligo in capo alle autorità ecclesiastiche di esibire/consegnare i debitori che avessero trovato rifugio presso di loro: il principale fine di tale obbligo fu piuttosto di determinare un divieto di estrazione forzata dei debitori dai luoghi sacri, riconoscendo a tali luoghi dunque un necessario rispetto quanto meno per motivi piuttosto politici che altro, ponendo all’autorità ecclesiastica la scelta o di pagare i debiti del rifugiato o di consegnare quest’ultimo volontariamente.

Permaneva come ultima risorsa la possibilità di porre in essere legittimamente l’“estrazione” con forza dei debitori rifugiati solo qualora le autorità ecclesiastiche che offrivano asilo a questi si fossero rifiutate o di pagare per conto di esso o di consegnarlo.

Nell’arco di poco tempo, però, con la Costituzione di Leone (466) anche il diritto di “estrazione”, per quanto contemperato, venne negato: nessun debitore rifugiato, purché fosse un “fedele”, poteva subire la espulsione, la consegna o, appunto, l’estrazione da un luogo sacro presso cui aveva trovato asilo dai propri creditori e veniva dunque totalmente meno anche la previsione secondo la quale le autorità ecclesiastiche, in mancanza di consegna, fossero costrette a pagare il debito per conto del rifugiato.

Contestualmente, però, in tale legge venne introdotto l’obbligo per i religiosi di indagare sulle identità dei propri rifugiati e sulle motivazioni e cause della loro riparazione, nonché di informare immediatamente le persone interessate o i giudici competenti e la pubblica autorità. Veniva dunque disposta una sorta di “pubblicità” circa la presenza nei luoghi ecclesiastici dei debitori fuggiaschi (come di tutti i fuggiaschi), consentendo dunque la possibile rintracciabilità di essi da parte dei propri creditori.

Nel Corpus Iuris civilis si può rinvenire la dettagliata previsione, in tali casi, delle modalità di citazione in giudizio, verbale o scritta, a seconda delle glosse, del debitore fuggiasco.

Si prescrisse dunque la modalità di vocatio in ius nel caso in cui il rifugiato fosse comunque “publice” (allo scoperto) tra i “sacri confini” e dunque in qualche modo si offrisse (pur non potendo essere “estratto”) a coloro - nunzi e/o executores - che chiedevano di convenirlo in giudizio o gli volessero portare a conoscenza qualsiasi provvedimento relativo: egli veniva così “ammonito”, avvisato dell’eventuale procedimento o del provvedimento assunto dalle autorità nei propri confronti e al medesimo si dimetteva la valutazione di come (e se) rispondere a tale richiesta o provvedimento, come di presentarsi dinanzi al giudice.

Di contro, qualora il rifugiato si fosse negato, ossia fosse nascosto all’interno dei luoghi ecclesiastici, gli si poteva dare conoscenza del giudizio in cui fosse convenuto o dei provvedimenti assunti nei suoi confronti per il tramite dell’economo o del difensore della chiesa o altro di incaricato dal vescovo ai quali si notificavano gli atti e i quali, rinvenuto il soggetto, avevano la prescrizione di presentarlo.

In entrambe le casistiche, ovviamente, era comunque garantita la facoltà del debitore rifugiato di farsi rappresentare in giudizio da un procuratore: il ricorso all’asilo presso i luoghi ecclesiastici, dunque, rappresentava una maniera quanto meno per sottrarsi sino all’esito del giudizio alla carcerazione cautelare e a tutte le connesse rischiosità per la propria incolumità fisica cui spesso si incorreva sin dalla tratta in arresto in pubblico.

Proprio a tal ultimo proposito, sempre nel Corpus Iuris, la Novella n. 17 del 535 prefissò il tentativo di ridurre il ricorso all’asilo mediante la concessione di garanzie di salvacondotto ai debitori rifugiati, cosicché essi potessero – rimanendo intoccabili sino a sentenza – financo comparire personalmente in giudizio con addirittura la previsione che, se condannati, potessero scegliere o di eseguire il giudicato o di far rientro nei confini ecclesiastici: in ogni caso subire, se disposta, l’esecuzione forzata sui propri beni immobili e mobili.

Dopo la caduta dell’Impero romano, l’intreccio, la compenetrazione delle legislazioni romano-barbariche con istituti di derivazione germanica, sostanzialmente, pur frammentariamente, confermò la distinzione tra debitore solvibile e debitore non solvibile, con la permanenza delle conseguenze fisiche e personali non lievi, se non anche inasprite, in capo al secondo.

 

3. L’arte del cambio e la dematerializzazione della moneta

Di non poco conto, storicamente, fu l’inizio del processo di dematerializzazione della moneta che comportò, via via che esso progrediva e si radicava nell’esperienza commerciale ed economica, la necessità di determinare maggiormente anche dal punto di vista soggettivo l’incidenza del comportamento del singolo rispetto alla propria situazione debitoria.

Invero, come noto, tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII, nell’ambito delle rinascite economiche cittadine dei comuni, iniziarono ad avere preminente rilievo le associazioni tra soggetti (“maestri”) esercenti le medesime professioni o il medesimo mestiere: nacquero le corporazioni, o “arti”, “misteria”, “paratici” o, ancora, “fraglie” che in rapida progressione temporale si costituirono organizzate e regolamentate mediante “statuti corporativi”. Obiettivo di ciascuna corporazione divenne pian piano l’evoluzione e l’ottenimento di un monopolio produttivo o mercantile o professionale, tanto che solo gli ammessi ad una corporazione (“membri d’arte”) avevano titolo per aprire un opificio o un fondaco o un magazzino e poter così esercitare una professione liberale.

E nell’ambito dell’evoluzione economica e dei mercati, non si può negare che una corporazione in particolare abbia avuto un ruolo storico di non poco conto: quella dei cambisti, ossia di coloro i quali appartenevano all’“Arte del cambio”; di coloro i quali si chiameranno “banchieri”.

L’etimo del termine è di schietta intuizione, in quanto essi erano coloro i quali stavano dietro al “banco di cambiavalute”; coloro i quali, immancabili nei mercati più affollati e importanti (si pensi a Venezia, Firenze, Pistoia, Bologna, come anche ad altri importanti centri e mercati in Europa), avevano un banco non per esporvi merci, bensì dietro al quale stazionavano per offrire ai mercanti il cambio delle monete a seconda del conio locale.

Descritta in tal maniera non si evince subito la particolarità dell’”arte” dei cambisti (ars campsoria): fondamentale dote di essi era conoscere e aver sempre a mente le differenze di valore tra le monete circolanti sulla maggior parte dei territori e dei relativi mercati e centri di commercio. Emolumento per tale attività era l’applicazione da parte del cambista di una sorta di “tasso di cambio” (non da intendersi nel suo significato economico moderno), via via più regolamentato per quanto certamente spesso aleatorio.

Orbene, dalla “vile moneta” fisicamente intesa, si passò dopo il XII secolo alla sua dematerializzazione, ossia alla più valida e sicura sua astrazione mediante l’elaborazione della lettera di credito (o “lettera di cambio”) che ebbe grande successo nell’ambito del fervido nuovo sviluppo dei mercati e delle fiere cui partecipavano venditori e produttori, commercianti e acquirenti, provenienti da ogni dove.

Invero, la crescita esponenziale della pratica del commercio a distanza comportò l’implementazione della necessità di commerciare all’ingrosso, con ciò determinando un aumento dei costi di gestione e di trasporto delle merci oltre che del valore intrinseco delle stesse non più solo strettamente legato al loro valore effettivo (di certo ulteriormente incrementato qualora di per sé preziose): il valore elevato necessario per tale pratica di commercio corrispondeva ad una maggiore rischiosità di possedere fisicamente ingenti quantità di danaro nell’ambito delle trasferte e del trasporto.

Risolutiva di tale problematica di non poco conto, dunque, divenne la lettera di cambio che ulteriormente aveva il pregio, di ancor più elevata importanza, di garantire maggior certezza dei pagamenti.

Il cambista da mero cambiavalute vide accrescere la centralità del proprio ruolo.

A questi il mercante/commerciante si rivolgeva rappresentando il proprio interesse all’acquisto di merci da un venditore di altro mercato, di altra città, per una determinata somma.

Nella forma più semplice, egli consegnava al cambista la moneta dovuta, nel proprio conio, in forza della qual consegna, maggiorata del tasso di cambio comprensivo degli interessi dovuti per l’intermediazione, il cambista predisponeva la “lettera di cambio”, appunto. In essa si indicavano ovviamente i nominativi del traente (o emittente), ossia del cambista stesso, del debitore, ossia del mercante/commerciante che si era rivolto al primo, l’indicazione del beneficiario/creditore, ossia il venditore delle merci, nelle cui mani il nominato trattario destinatario della lettera era incaricato di corrispondere la somma indicata nel conio corrispondente (“e per me pagherete il latore della presente”).

Le rischiosità comunque di artifizi possibili o dell’eventuale smarrimento della lettera, veniva ulteriormente limitata mediante alcuni specifici tecnicismi e accorgimenti. L’emittente apponeva sulla lettera uno specifico numero identificativo (un protocollo, un codice), che veniva riportato anche sulla relativa busta che veniva sigillata.

Proprio per le difficoltà dei viaggi e dunque dell’eventuale smarrimento delle lettere, un valido accorgimento era di predisporre più lettere identiche con medesimo codice identificativo: in tal maniera, la prima lettera che fosse pervenuta a destinazione sarebbe stata validata e le eventuali successive identiche annullate senza possibilità di confusione o duplicazioni di pagamenti.

Nella pratica comune il cambista (“traente” o “emittente”) trasmetteva gli esemplari della lettera di cambio ad un proprio omologo, ossia alla propria filiale della “compagnia”, nella cittadina del beneficiario, mercante venditore, nelle mani e in favore del quale veniva ordinato il pagamento. Oppure veniva inviata direttamente al beneficiario il quale si sarebbe dovuto recare per il cambio al cambista omologo presso il proprio centro d’affari, se non alla filiale della “compagnia” del cambista emittente.

Sempre più importanza dunque trasse dalla prassi commerciale tale tipologia di contratto, consistente dunque in un riconoscimento di debito da estinguere il luogo diverso (distantia loci) e in moneta diversa (permutatio pecuniae) ad un tasso di cambio prefissato comprensivo del compenso per l’intermediazione. Centralità ebbe così il credito e non il possesso fisico del danaro, comportando così quello che al giorno d’oggi chiameremmo “trasferimento virtuale della ricchezza”.

Valga ad esempio quello che accadeva alle più importanti fiere d’oltralpe, le Fiere della Champagne: esse erano sei fiere con una calendarizzazione tale che praticamente costituivano una piazza commerciale aperta tutto l’anno. Generalmente ognuna di esse si suddivideva in due fasi, la prima delle quali era dedicata alla compravendita delle merci e la seconda ai regolamenti finanziari-contabili.

In quest’ultima, dunque, divenne di fondamentale importanza la lettera di cambio, in base alla quale si operava compensazione tra i crediti e i debiti, peraltro con la possibilità concessa che il saldo crediti/debiti alla fine di ciascuna fiera potesse essere rinviato alla successiva mediante nuova lettera di cambio. Metodologia che si radicò e rafforzò a tal punto che sino a che l’importanza delle fiere della Champagne non declinò a favore di altri mercati, esse fondamentalmente svolsero il ruolo di quella che oggi si chiamerebbe “stanza di compensazione” dell’economia internazionale dell’epoca.

Il banco dei cambiavalute, così, che primariamente indicava il tavolo di legno presso cui ai mercati (sin dagli antichi romani, per vero, vds. mensa argentaria) usava stare chi commerciava in danaro passò ad indicare il vero e proprio negotium caratteristico, da cui trae storia l’odierno istituto bancario.

E quando il titolare del banco, viepiù in un complesso equilibrio di crediti-debiti ormai di così larga scala anche geografica, non poteva soddisfare i propri obblighi, subiva ad opera dei propri creditori la fisica rottura del proprio banco, che veniva letteralmente distrutto, fatto in pezzi, ossia “rotto”. Il banco veniva rotto, e da qui la terminologia invalsa ovunque e ancora oggi utilizzata della “bancarotta. E al cambista, al banchiere così come al mercante, venivano riservate ulteriori conseguenze relative al proprio tracollo, la minore delle quali era l’impedimento a continuare a far affari.

Il banchiere insolvente, così come poi qualsiasi mercante lo fosse, veniva colpito dal marchio dell’infamia, esteriorizzata con segni distintivi che consentissero la riprovazione generale: in Firenze era prevista la “pittura infamante” ossia la riproduzione in luoghi pubblici per ordine del magistrato dell’immagine dipinta del “bancarotto”, con tanto di nome e indicazione della corporazione di appartenenza; in altri centri, come pur anche a Firenze, si proibiva al mercante fallito e alla sua moglie di vestire con abiti costosi o di portare gioielli, imponendo un’austerità esteriore in pubblico che creasse disdoro alla vista.

Esteriorità che vide espressione normativa nella Bolla di Papa Pio V del 1570 mediante la quale si impose ai mercanti falliti l’obbligo di indossare un berretto verde. Esteriorità che non escludeva, alla bisogna, l’applicazione comunque di ancor più gravi e pesanti sanzioni, fino alla condanna della messa al bando, alla gogna e, in fine, alla forca. La rischiosità, peraltro, del vedersi il banco rotto, di vedersi trascinare fisicamente sino al giudizio delle autorità, era ampia laddove – come si può immaginare – non si andava tanto per il sottile alla regolamentazione dei conti e dei pagamenti alla chiusura di una fiera.

E proprio l’elemento dell’appartenenza ad una corporazione, ad una societas mercatorum giustificava la gravosità se non addirittura la ferocia delle conseguenze cui andava incontro il “bancarotto”, proprio in quanto aveva arrecato un danno non solo – e forse non tanto – all’economia in generale, quanto piuttosto alla corporazione di appartenenza la cui immagine veniva intaccata, lesa, e la cui reputazione, financo la forza anche politica, in un costante ribaltamento degli equilibri comunali, era messa in grave repentaglio.

Il mercante “bancarotto” non doveva più essere associato da alcuno alla corporazione tradita, non doveva più avere alcun riflesso beneficio dall’appartenere, rectius dall’essere appartenuto, ad una corporazione, ad un’Arte, che pertanto lo rifiutava e financo lo umiliava imponendogli un marchio visibile, riconoscibile a tutti e che nessuno potesse dimenticare. La lesione dell’immagine dell’intera corporazione per colpa di un singolo costituiva gravissimo danno proprio perché comportava la diminuzione del grado di fiducia che invece era necessaria specialmente nei mercati, oltre che nell’ambito degli equilibri politico-economici cui ogni corporazione partecipava nel proprio contesto cittadino.

Il rischio che un comportamento truffaldino o solamente insolvente comportasse la perdita repentina della fiducia di una corporazione o più in generale degli scambi in un contesto di prolifica evoluzione economica, di trasmigrazione dalla parcellizzazione dell’età feudale ad un proliferare di rapporti tra Comuni, si direbbe oggi, con capacità transfrontaliera, iniziò ad essere oggetto di particolare attenzione tanto da ricevere in varie parti dell’Europa una codificazione specifica. Il mercante subiva capitis deminutiones rilevanti: veniva privato del diritto di cittadinanza, di richiedere giustizia, di difendersi in giudizio; veniva messo al bando dal proprio Comune o posto agli arresti.

In molti Statuti al debitore insolvente fallito venivano riservate sanzioni personali ulteriori da infliggere in pubblico. Vi era la previsione di condurre il debitore seminudo nella pubblica piazza, con indosso un berretto colorato (il berretto verde) quale segno distintivo del proprio fallimento, e mentre veniva percosso sul fondo schiena con una pietra denominata “del vituperio” per tre volte egli doveva ripetere “cedo bonis”, ossia “cedo i miei beni”. Altrettanto si applicava con non scarsa frequenza la carcerazione per debiti – questa misura mai abbandonata per vero -, la tortura e financo la pena capitale: ciò in quanto vi era la sostanziale equiparazione tra il fallimento e il furto, in quanto il debitore era di per sé “decoctor, ergo fraudator”.

Non si dimentichi, come detto, che il termine moderno “fallimento” deriva dal verbo latino “fallere”, ossia “ingannare”. Praticare il commercio in una situazione di carente solvibilità faceva additare il debitore insolvente quale raptor, in quanto si considerava che avesse depredato gli onesti delle proprie ricchezze. E la decozione era sempre considerata di per sé una fraus, una frode, laddove i creditori difficilmente avrebbero trovato ristoro e recuperato quanto da loro perduto per via del comportamento del debitore. In sostanza, il debitore aveva ingannato la comunità, le corporazioni, tradito la fiducia che la popolazione doveva mantenere nel mercato e nella economia delle città e dei comuni.

Da una disciplina normativa che permaneva dunque ancora dei retaggi del diritto romano, dal Corpus Iuris giustinianeo si pervenne ad una articolazione di normative locali, autodeterminate spesso nell’ambito delle corporazioni delle arti e dei mestieri nell’ambito dei mercati, fino alla trasmigrazione negli Statuti cittadini e nelle normative nazionali.

E la perdita di fiducia nell’intera categoria di appartenenza del mercante decotto, insolvente, vide espressione scritta nel Lombards Act (1351) emanato da Edoardo III d’Inghilterra, con il quale specificamente si disciplinò il fenomeno manifestatosi di insolvenza dei banchieri e mercanti di origine lombarda. Per contrastare il fenomeno invalso da questi ultimi di darsi alla fuga al termine delle negoziazioni, venne con tale norma statuita la responsabilità solidale anche di tutti i soci delle compagnie locali cui tali soggetti appartenevano.

Addirittura si pervenne nel XVI secolo con Carlo V d’Asburgo alla promulgazione di normative finalizzate al contrasto del fenomeno della fuga dei mercanti insolventi, non solo inasprendo le sanzioni nei loro confronti, ma prevenendo ad una sorta di “assistenza internazionale” mediante il riconoscimento e l’attuazione di tali sanzioni sia nei territori fiamminghi sia in Spagna sia nelle Diete del Sacro Romano Impero.

E proprio sotto Carlo V si registra a Bologna, città in cui, come noto, questo fu incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero, una previsione normativa addirittura non limitata ai mercanti insolventi: nel 1559 nello Statuto felsineo si estese la giurisdizione fallimentare a qualunque debitore fuggisse o si nascondesse causando un danno e un pregiudizio ai propri creditori, indipendentemente dal fatto che esercitasse la mercatura o altro mestiere. Previsione, quella di estendere tale giurisdizione a qualunque debitore, già disposta nello Statuto di Genova sin dal 1498.

 

4. La centralità dell’elemento soggettivo: il fallito doloso e il fallito innocente

Nel proprio progredire, il diritto fallimentare dalla fase dell’epoca mercantile secondo cui il fallimento veniva inteso come reato gravissimo con una sorta di presunzione di una responsabilità oggettiva, si direbbe oggi, pervenne successivamente per quanto con lentezza alla necessità di una distinzione anche giuridica tra le differenti condotte, ovviamente a seconda delle fattispecie.

L’elemento soggettivo, dunque, pervenne ad avere un rilievo, a differenza della precedente visione in cui di per sé l’insolvenza rilevava indifferentemente da chi l’avesse compiuta o subita (il mercante onesto ma sfortunato, per mutuar una locuzione moderna): la decozione divenne presupposto di punibilità, non fatto costitutivo del reato di bancarotta e in relazione ad essa divenne oggetto di valutazione e di accertamento della colpevolezza o dell’incolpevolezza da parte del debitore alla propria decozione.

Ritenendo di non poter imputare automaticamente al mercante incolpevole, sfortunato, si direbbe oggi, alcun elemento soggettivo della propria decozione, veniva riservata unicamente la sanzione della cessione di tutti i propri beni in favore dei creditori e per il loro pieno soddisfacimento.

Di contro, al mercante resosi colpevole della propria decozione, o per dolo o colpa grave, o anche per aver egli assunto debiti per motivazioni strettamente personali (suo vitio), venivano riservate le sanzioni penali fino alle più dure e definitive. Nel tempo, pertanto, si è articolata l’elaborazione normativa dell’età moderna anche avendo riguardo alla consapevolezza, alla volontarietà o meno del dissesto e del relativo danno rispetto alla distinzione dei soggetti sottoponibili alla esecuzione forzata e le relative fattispecie penali connesse.

Una progressione concettuale e culturale, per quanto non uniforme né organica, di quello che diverrà appieno il diritto fallimentare e che così pervenne nel tempo a definirsi in una articolata e comune disciplina con l’Ordennance de Commerce del 1673 di Colbert e Savary, la quale non a caso viene declinata quale primo codice di commercio dell’era moderna e che disciplinava la esecuzione concorsuale nei confronti dei mercanti e non solo (“à tous merchands et autres, à aous les banqueroutiers”), per quanto con previsioni che di per sé non potevano che applicarsi unicamente ai commercianti.

Sempre in Francia, si pervenne poi alla Regia dichiarazione del 10 giugno 1715 mediante la quale si istituirono formalmente tribunali aventi esclusiva giurisdizione sui commercianti e la competenza relativa al procedimento concorsuale conseguente alla decozione e alla insolvenza di essi.

La caratterizzazione dell’elemento soggettivo trovò maggiore rappresentatività nel Settecento, laddove, se da un lato persistette comunque l’intento di severità nei confronti dei falliti e dei fallimenti, dall’altro crebbe il maggiore interesse verso profili economici e commerciali più pubblicistici e di economia nazionale dell’istituto del fallimento, quasi residuando, ma non certo scomparendo, quello penale meramente afflittivo.

Trova massima espressione nell’opera del Beccaria “Dei delitti e delle pene” (1764) quella importanza progressiva che l’esame dell’elemento soggettivo stava assumendo, rispetto ad una oggettività della fattispecie della bancarotta, meritevole di per sé stessa non solo del legittimo ristoro dei creditori ma ancor più di una necessaria imposizione punitiva severa che fosse di monito per tutti.

In tale opera l’Autore dedicò il capitolo XXXIV ai “debitori falliti”, sottolineando la necessità, a proprio avviso, di dover distinguere il “fallito doloso” dal “fallito innocente”, ritenendo che al primo dovesse essere applicata la stessa pena assegnata ai falsificatori di monete “poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de’ cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse”, mentre il secondo, il fallito “innocente”, colui il quale “ha provato innanzi a’ suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze” non avrebbe dovuto vedersi riservata la stessa sorte e “gettato in prigione a provar le angosce dei colpevoli”.

Assunse il Beccaria, dunque, l’interesse alla distinzione tra il dolo e la colpa grave, tra la colpa grave e quella leggera, e tra quest’ultima e la perfetta innocenza, assegnando le pene dei delitti di falsificazione qualora fosse stato accertato il dolo, le pene minori, ma con privazione di libertà, qualora fosse stata accertata la colpa grave, con previsione di scelta in capo ai creditori della esecuzione forzata per il proprio ristoro; l’esecuzione forzata su iniziativa dei creditori alla colpa lieve e  riservando all’ultima, ossia alla “perfetta innocenza”, la scelta libera in capo al fallito dei mezzi di ristabilirsi.

In tale ottica, specificava che in ogni modo “le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici”, non addentrandosi però nella difficoltà più che plausibile del demandare alla tecnica legislativa una tassativa definizione degli elementi secondo i quali configurare la sussistenza di dolo, colpa o financo innocenza, che non dipendano unicamente dall’intrinseca disposizione, volontà o comportamento del soggetto, quanto spesso, nell’economia volubile del mercato, da elementi esteriori e imprevedibili di difficile declinazione, prevedibilità e dunque previsione.

 

5. Dal commerciante all’imprenditore, comunque fallito, poi redento

A seguito della rivoluzione francese, abolite le corporazioni e sancita la libertà di lavoro, di esercizio dei commerci o dell’impresa (Loi D’Allard, Loi Le Chapelier entrambe del 1791) l’intento di persistere in una organica previsione di una normativa concorsuale trovò luogo ed espressione nel Code de Commerce del 1807, severo quanto macchinoso, volto anche ad una moralizzazione dei commerci, e che offrì una codificazione all’istituto del fallimento, quanto mai utile e necessaria, anche in divenire, soprattutto da valutare in relazione alla rivoluzione industriale ottocentesca durante la quale si celebrò certamente il passaggio di consegne in relazione alla incidenza sui mercati e sul commercio, dalla categoria dei commercianti a quelle degli industriali, degli imprenditori e delle società: a tali soggetti il ruolo di protagonisti della vita economica e dunque in quanto tali principali destinatari delle norme fallimentari.

Nonostante tale consapevolezza, nel Codice di Commercio italiano del 1882, pur dotato di una struttura certamente ben articolata, ispirata al codice napoleonico, rimase comunque la indicazione del commerciante quale destinatario dell’istituto del fallimento, dovendosi attendere il codice civile del 1942 per rinvenire l’ingresso della terminologia “impresa” e “imprenditore” quali soggetti destinatari della normativa. Al mero debitore civile si riservano così unicamente le procedure esecutive individuali.

Permanendo certo nella differenziazione tra le sanzioni penali e le conseguenze civili a seguito di fallimento del debitore, anche il R.D. 267/1942, non privo di particolare influenza del Codice di Commercio del 1882, assume quale proprio destinatario l’’imprenditore” commerciale, mantenendo comunque la terminologia stigmatizzante di “fallito” e “fallimento”.

Pertanto, se da un lato la progressione storico-sociale della graduazione dell’elemento soggettivo, come si potrebbe riassumere nelle graduazioni del Beccaria, ha certamente maturato una doverosa differente visione del fenomeno dell’insolvenza, trovando formale ingresso nelle articolazioni legislative, comunque non vi è stata nell’esperienza italiana, se non con il Codice della crisi ora licenziato, l’eliminazione di quella stigmatizzazione etica e sociale in capo al soggetto debitore insolvente, permanendo nel lessico normativo quella connotazione di questo quale soggetto che ha compiuto un inganno (fallere, ingannare), e dunque di per sé meritevole di essere marchiato come responsabile della propria decozione: insolvente, dunque fraudator, ingannatore.

Si legge, nella Relazione al Re del R.D. 267/42 “consapevole del danno che l’impresa reca all’economia generale, la nuova legge è giustamente severa nelle sue sanzioni, dove vi sono responsabilità personali da colpire”.

Una eliminazione lessicale importante, dunque, e da tanto e tanti attesa, quella cui si è pervenuti con il Codice della Crisi, mediante la quale al debitore insolvente metaforicamente si è tolto dalla testa quel berretto verde, quell’elemento esteriore di disdoro sociale, morale ed etico.

Con ciò, senza alcuna rinunzia al tentativo di approntare in riforma una “cieca ed imparzial legge”  tramite la quale regolamentare la risoluzione della insolvenza e la rimozione dei suoi gravi effetti nell’economia e nel mercato, salvaguardando certamente il bene impresa e i livelli occupazionali, laddove possibile, e rafforzare la individuazione e la determinazione delle responsabilità personali, civili e penali, e comunque patrimoniali, del debitore insolvente o di chi ha concorso al dissesto di questo.

LETTURE CONSIGLIATE

Bonsignori, Il fallimento, in Trattato di dir. comm. e dir. pub. econ., diretto da Galgano, vol. IX, Padova, 1986; Id., Introduzione al diritto fallimentare, Torino, 1993; Id., Inattualità del fallimento, in Annuali del Seminario Giuridico, I, Milano, 2001.

Frascaroli Santi, Insolvenza e crisi dell’impresa, Padova, 1999; Id., Crisi dell’impresa e soluzioni stragiudiziali, Padova, 2005; Id., Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, 2016.

Manfredini, Debitori pubblici e privati in «ecclesias confugientes» da Teodosio a Giustiniano, in Rivista di diritto romano, II, 2002.

Mari, La pittura infamante nella legislazione e nella vita del Comune fiorentino. Secoli XIII-XVI, Roma, 1931.

Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, 1992; Id., Dal Code Napoléon al Codice civile del 1942, in Riv. dir. civ., 1993, I.

Rocco, Il fallimento. Teoria generale e origine storica, Milano, 1962.

Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964; Id., Mercanti e società tra i mercanti, Torino, 1989.