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Tentativo di rapina impropria

La questione relativa alla configurabilità o meno del tentativo di rapina impropria ha generato un ampio dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.

Sul punto è intervenuta di recente la Suprema Corte di Cassazione, con una pronuncia resa a Sezioni Unite (Cass. SS. UU. 19 aprile - 12 settembre 2012, n. 34952), nella quale la Corte ha preso posizione a sostegno della tesi favorevole all’ammissione del tentativo di rapina impropria.

Al fine di ripercorrere il dibattito sviluppatosi sul tema, giova premettere la disamina della fattispecie della rapina impropria.

Il delitto di rapina in generale è disciplinato dall’articolo 628 del codice penale, nell’ambito del titolo XIII, relativo ai delitti contro il patrimonio e, precisamente, al capo I, che concerne in specie i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone.

Il reato in questione identifica una fattispecie pluri-offensiva, posto che la condotta di cui all’articolo 628 del codice penale offende beni giuridici eterogenei, quali, al contempo, il patrimonio e l’integrità psico-fisica, nonché la libertà morale.

La rapina costituisce una fattispecie di delitto complesso, in quanto esso comprende condotte riconducibili a diverse fattispecie punite autonomamente da altre previsioni contenute nel codice penale, quali l’impossessamento (riconducibile all’articolo 624 del codice penale, che disciplina il furto) o la minaccia (punita autonomamente ai sensi dell’articolo 612 del codice penale) o le percosse (di cui all’articolo 581 del codice penale) o la violenza privata (di cui all’articolo 610 del codice penale).

L’articolo 628 del codice penale contempla due ipotesi di rapina: propria e impropria.

La rapina propria è disciplinata dal primo comma di tale articolo, il quale punisce “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2065.”.

La rapina impropria invece, è disciplinata dal secondo comma dello stesso articolo, che sancisce che “alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità.”.

Le due ipotesi disciplinate dall’articolo 628 del codice penale si distinguono radicalmente, in quanto nell’ipotesi di rapina propria l’uso della violenza o della minaccia precede cronologicamente l’impossessamento ed è teleologicamente preordinato ad ottenere l’impossessamento, costituendo il mezzo attraverso il quale ottenerlo.

La fattispecie di rapina propria dunque, postula il dolo specifico, costituito dal fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, impossessandosi della cosa mobile altrui, mediante le condotte strumentali, che si identificano con l’uso della violenza o della minaccia.

Nella rapina impropria invece, l’uso della violenza o della minaccia è cronologicamente successivo alla condotta di sottrazione, rispetto alla quale non costituisce il mezzo e lo strumento attraverso cui ottenerla, essendo preordinato al fine di ottenere il possesso della cosa o di procurare a sé o ad altri l’impunità.

La rapina impropria richiede, diversamente da quella propria, un dolo doppiamente specifico, posto che la condotta successiva, di violenza o minaccia viene posta in essere al duplice scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa o di procurare a sé o ad altri l’impunità, presupponendo tali condotte a loro volta il fine di trarre profitto dalla sottrazione.

Esaurito l’inquadramento generale della fattispecie di rapina e ricostruita la differenza ontologica tra la rapina propria e quella impropria, occorre passare in rassegna la questione della compatibilità del tentativo con la fattispecie di rapina impropria, in merito alla quale si sono pronunciate le Sezioni Unite di Cassazione.

L’istituto del tentativo è disciplinato dall’articolo 56 del codice penale, che prevede che risponda del delitto tentato chiunque ponga in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un reato.

Occorre, dunque, al fine di valutare l’ammissibilità del tentativo di rapina impropria, analizzare in primo luogo la compatibilità della norma sul tentativo con la fattispecie di rapina impropria, di cui al secondo coma dell’articolo 628 del codice penale.

Il caso sul quale si è pronunciata la Corte concerneva la condotta perpetrata dal soggetto agente, il quale, introdottosi in un appartamento per compiere un furto, veniva sorpreso dalla proprietaria dell’abitazione e successivamente, senza riuscire ad impossessarsi della cosa, adoperava violenza sull’inquilina al fine di allontanarsi dall’abitazione, procurandosi l’impunità.

Sul tema della configurabilità del tentativo di rapina impropria in caso di mancata consumazione del reato di furto, è sorto un consistente dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.

Sul punto, prima dell’intervento delle Sezioni Unite, sono state prospettate due tesi contrapposte.

Una prima impostazione, maggioritaria, ammette la configurabilità del tentativo di rapina impropria; in particolare, secondo tale impostazione, la condotta di violenza perpetrata a seguito del tentativo di impossessamento della cosa, al fine di procurarsi l’impunità è riconducibile al combinato disposto degli articoli 56 e 628, comma secondo, del codice penale.

Tale impostazione, del tutto prevalente, ritiene dunque configurabile nella forma di fattispecie tentata il delitto di rapina impropria.

A fronte di tale impostazione, una diversa impostazione giurisprudenziale, minoritaria, la quale ha recepito le critiche della dottrina, ha ritenuto non configurabile il tentativo di rapina impropria nell’ipotesi in cui l’impossessamento non abbia avuto luogo ed il furto dunque, sia rimasto nella forma tentata.

L’orientamento riferito nel caso in cui il furto non sia consumato, ma solo tentato e sia perpetrata la sola violenza, scompone la fattispecie unitaria della rapina, punendo autonomamente, quali reati distinti, il furto tentato (ai sensi del combinato disposto degli articoli 56 e 624 del codice penale) e la violenza, consumata, (di cui all’articolo 610 del codice penale), annessi dal vincolo della continuazione di cui all’articolo 81, del codice penale, ritenendo configurabile semmai l’aggravante teleologica, di cui all’articolo 61, numero 2, del codice penale.

Le critiche prospettate dalla dottrina si fondano soprattutto sull’interpretazione del dato letterale della fattispecie di cui al secondo comma dell’articolo 628 del codice penale, il quale sancisce che soggiace alla pena prevista dal primo comma la condotta di chi adopera violenza “immediatamente dopo la sottrazione”.

Tale dizione è stata interpretata da tale orientamento dottrinale nel senso che, perché possa configurarsi il tentativo di rapina impropria, deve senz’altro essere consumato il reato di furto, che presuppone la sottrazione e la violenza debba essere posta in essere immediatamente dopo tale sottrazione.

Una diversa lettura della norma, secondo l’impostazione minoritaria riferita, violerebbe il principio di legalità, ed in specie il divieto di analogia in malam partem, di cui all’articolo 14 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Le Sezioni Unite sono intervenute con la pronuncia sopra citata, dirimendo la questione, aderendo alla tesi favorevole alla configurabilità del tentativo di rapina impropria, anche nel caso in cui la violenza non sia preceduta dalla consumazione del reato di furto.

A tale esito la Corte è pervenuta rileggendo il dato letterale ed interpretando il termine “sottrazione” in senso ampio, come comprensiva in generale del potere di signoria esercitato sulla cosa, differenziandosi in tal senso dalla condotta di impossessamento, che integra il furto e che richiede un quid pluris rispetto alla mera sottrazione.

A sostegno di tale argomentazione la Corte richiama anche il diritto vivente, e cioè la giurisprudenza consolidatasi sul punto, che, ai sensi dell’articolo 7 CEDU, integra il quadro delle fonti del diritto interno e richiede i caratteri dell’accessibilità e della prevedibilità delle norme penali, anche con riferimento alle applicazioni giurisprudenziali.

 

La questione relativa alla configurabilità o meno del tentativo di rapina impropria ha generato un ampio dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.

Sul punto è intervenuta di recente la Suprema Corte di Cassazione, con una pronuncia resa a Sezioni Unite (Cass. SS. UU. 19 aprile - 12 settembre 2012, n. 34952), nella quale la Corte ha preso posizione a sostegno della tesi favorevole all’ammissione del tentativo di rapina impropria.

Al fine di ripercorrere il dibattito sviluppatosi sul tema, giova premettere la disamina della fattispecie della rapina impropria.

Il delitto di rapina in generale è disciplinato dall’articolo 628 del codice penale, nell’ambito del titolo XIII, relativo ai delitti contro il patrimonio e, precisamente, al capo I, che concerne in specie i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone.

Il reato in questione identifica una fattispecie pluri-offensiva, posto che la condotta di cui all’articolo 628 del codice penale offende beni giuridici eterogenei, quali, al contempo, il patrimonio e l’integrità psico-fisica, nonché la libertà morale.

La rapina costituisce una fattispecie di delitto complesso, in quanto esso comprende condotte riconducibili a diverse fattispecie punite autonomamente da altre previsioni contenute nel codice penale, quali l’impossessamento (riconducibile all’articolo 624 del codice penale, che disciplina il furto) o la minaccia (punita autonomamente ai sensi dell’articolo 612 del codice penale) o le percosse (di cui all’articolo 581 del codice penale) o la violenza privata (di cui all’articolo 610 del codice penale).

L’articolo 628 del codice penale contempla due ipotesi di rapina: propria e impropria.

La rapina propria è disciplinata dal primo comma di tale articolo, il quale punisce “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2065.”.

La rapina impropria invece, è disciplinata dal secondo comma dello stesso articolo, che sancisce che “alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità.”.

Le due ipotesi disciplinate dall’articolo 628 del codice penale si distinguono radicalmente, in quanto nell’ipotesi di rapina propria l’uso della violenza o della minaccia precede cronologicamente l’impossessamento ed è teleologicamente preordinato ad ottenere l’impossessamento, costituendo il mezzo attraverso il quale ottenerlo.

La fattispecie di rapina propria dunque, postula il dolo specifico, costituito dal fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, impossessandosi della cosa mobile altrui, mediante le condotte strumentali, che si identificano con l’uso della violenza o della minaccia.

Nella rapina impropria invece, l’uso della violenza o della minaccia è cronologicamente successivo alla condotta di sottrazione, rispetto alla quale non costituisce il mezzo e lo strumento attraverso cui ottenerla, essendo preordinato al fine di ottenere il possesso della cosa o di procurare a sé o ad altri l’impunità.

La rapina impropria richiede, diversamente da quella propria, un dolo doppiamente specifico, posto che la condotta successiva, di violenza o minaccia viene posta in essere al duplice scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa o di procurare a sé o ad altri l’impunità, presupponendo tali condotte a loro volta il fine di trarre profitto dalla sottrazione.

Esaurito l’inquadramento generale della fattispecie di rapina e ricostruita la differenza ontologica tra la rapina propria e quella impropria, occorre passare in rassegna la questione della compatibilità del tentativo con la fattispecie di rapina impropria, in merito alla quale si sono pronunciate le Sezioni Unite di Cassazione.

L’istituto del tentativo è disciplinato dall’articolo 56 del codice penale, che prevede che risponda del delitto tentato chiunque ponga in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un reato.

Occorre, dunque, al fine di valutare l’ammissibilità del tentativo di rapina impropria, analizzare in primo luogo la compatibilità della norma sul tentativo con la fattispecie di rapina impropria, di cui al secondo coma dell’articolo 628 del codice penale.

Il caso sul quale si è pronunciata la Corte concerneva la condotta perpetrata dal soggetto agente, il quale, introdottosi in un appartamento per compiere un furto, veniva sorpreso dalla proprietaria dell’abitazione e successivamente, senza riuscire ad impossessarsi della cosa, adoperava violenza sull’inquilina al fine di allontanarsi dall’abitazione, procurandosi l’impunità.

Sul tema della configurabilità del tentativo di rapina impropria in caso di mancata consumazione del reato di furto, è sorto un consistente dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.

Sul punto, prima dell’intervento delle Sezioni Unite, sono state prospettate due tesi contrapposte.

Una prima impostazione, maggioritaria, ammette la configurabilità del tentativo di rapina impropria; in particolare, secondo tale impostazione, la condotta di violenza perpetrata a seguito del tentativo di impossessamento della cosa, al fine di procurarsi l’impunità è riconducibile al combinato disposto degli articoli 56 e 628, comma secondo, del codice penale.

Tale impostazione, del tutto prevalente, ritiene dunque configurabile nella forma di fattispecie tentata il delitto di rapina impropria.

A fronte di tale impostazione, una diversa impostazione giurisprudenziale, minoritaria, la quale ha recepito le critiche della dottrina, ha ritenuto non configurabile il tentativo di rapina impropria nell’ipotesi in cui l’impossessamento non abbia avuto luogo ed il furto dunque, sia rimasto nella forma tentata.

L’orientamento riferito nel caso in cui il furto non sia consumato, ma solo tentato e sia perpetrata la sola violenza, scompone la fattispecie unitaria della rapina, punendo autonomamente, quali reati distinti, il furto tentato (ai sensi del combinato disposto degli articoli 56 e 624 del codice penale) e la violenza, consumata, (di cui all’articolo 610 del codice penale), annessi dal vincolo della continuazione di cui all’articolo 81, del codice penale, ritenendo configurabile semmai l’aggravante teleologica, di cui all’articolo 61, numero 2, del codice penale.

Le critiche prospettate dalla dottrina si fondano soprattutto sull’interpretazione del dato letterale della fattispecie di cui al secondo comma dell’articolo 628 del codice penale, il quale sancisce che soggiace alla pena prevista dal primo comma la condotta di chi adopera violenza “immediatamente dopo la sottrazione”.

Tale dizione è stata interpretata da tale orientamento dottrinale nel senso che, perché possa configurarsi il tentativo di rapina impropria, deve senz’altro essere consumato il reato di furto, che presuppone la sottrazione e la violenza debba essere posta in essere immediatamente dopo tale sottrazione.

Una diversa lettura della norma, secondo l’impostazione minoritaria riferita, violerebbe il principio di legalità, ed in specie il divieto di analogia in malam partem, di cui all’articolo 14 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Le Sezioni Unite sono intervenute con la pronuncia sopra citata, dirimendo la questione, aderendo alla tesi favorevole alla configurabilità del tentativo di rapina impropria, anche nel caso in cui la violenza non sia preceduta dalla consumazione del reato di furto.

A tale esito la Corte è pervenuta rileggendo il dato letterale ed interpretando il termine “sottrazione” in senso ampio, come comprensiva in generale del potere di signoria esercitato sulla cosa, differenziandosi in tal senso dalla condotta di impossessamento, che integra il furto e che richiede un quid pluris rispetto alla mera sottrazione.

A sostegno di tale argomentazione la Corte richiama anche il diritto vivente, e cioè la giurisprudenza consolidatasi sul punto, che, ai sensi dell’articolo 7 CEDU, integra il quadro delle fonti del diritto interno e richiede i caratteri dell’accessibilità e della prevedibilità delle norme penali, anche con riferimento alle applicazioni giurisprudenziali.