x

x

Ultimi ponti

ponti
ponti

Ultimi ponti

 

Che l’ultimo ponte non era fallito si capì dai primi resoconti degli ingorghi ai caselli autostradali, su cui le radio accese versavano la soave voce del ministro Colombo, che invitava “Il Paese” a “reagire con senso di responsabilità” agli aumenti fiscali. Il Paese reagì come al solito. L’epopea sul traffico riversa con certezza gli umori delle masse. Le masse non ebbero dubbi. Non tentarono repliche al carnevale dell’austerità che fu. Chi poté, si mise in viaggio, verso mari e monti. La stazione di Milano raddoppiò gli incassi dell’anno scorso. Si disse che i più saggi avevano preso il treno per risparmiare sulla benzina. Poi, si scoprì che il flusso delle automobili era aumentato il cinquanta per cento. Dopo due giorni di panico, il sorriso ritornò sui volti asciutti del benzinari. Per forza, dissero altri. E’ l’ultimo ponte, prima del silenzio e delle rinunce.

L’ultimo ? Non pare. Telefono per incontri da combinare: “No, il tal giorno siamo in pieno ponte di Pasqua”, risponde uno. Azzardo una settimana più in là. “ma saranno tutti via per il ponte del primo maggio”. Nessuno cede. Quelli che furono costretti a restare, si sfogarono in acquisti: disordinati e velleitari, s’è detto. La gente si precipita nei supermercati, comperando di tutto, alla rinfusa. Il denaro non vale più, meglio spenderlo. Seguirono giorni di commenti superciliosi e indagini preoccupate. I giornali del regime trasudarono alterigia e disprezzo verso questo popolo d’incorreggibili incoscienti.

E’ facile indossare la toga dell’accusatore, la tonaca del predicatore, il camice dello psichiatra, e irrorare anatemi, minacce, diagnosi. Ma non mi piace. Confesso: il giorno dopo gli aumenti dell’Iva, mi aggiravo anch’io tra le scansie di bottiglie di un supermercato, la mano sul manubrio d’uno di quei carriolini, una delle prime volte nella vita. Incrociavo signori austeri di mezza età che esploravano tra le bottiglie non ancora raggiunte dai nuovi cartellini, magari dimenticati dalle passate bufere. Mi riconosco volentieri tra i bersagli dei corsivi malevoli, rampollo d’un popolo frastornato, dalle reazioni confuse, pencolante tra l’avarizia patriarcale di poche centolire d’aumento e il vortice inflazionistico che divora moneta svalutata. Doppiamente, mi ci riconosco, perché il mio safari avveniva in un supermercato di montagna. Dicono le statistiche che quest’anno abbiamo battuto tutti i primati nel consumo della benzina. E della carne. Per punirci, stavano per ordinare la chiusura delle macellerie, metà d’ogni mese.

Ma è difficile far perdere abitudini, forse vizi, quando si è fatto tanto per incoraggiarli e blandirli. “Ogni vera democrazia aumenta il consumo della carne”, sentenziò Stuart Mill, e questi lo presero alla lettera. Il consumo della carne divenne il cavallo di battaglia. Chi la mangiava nei regimi passati, dissero. Adesso, invece. IL filetto divenne un ideale civico. E col filetto, l’automobile balzata da simbolo di opulenze privilegiate a patrimonio di tutti; e con lei le gite, i ponti, la seconda casa. La moltiplicazione delle facoltà materiali fu comune a tutti i Paesi rimasti liberi, ma la democrazia italiana ne fece il suo ideale assoluto; buono a sostituire tutti gli altri, andati in pensione, colpevoli d’aver promanato equivoci, megalomanie, disgrazie.

Sentimmo cantare le autostrade con le iperboli che altre generazioni avevano dedicato agli imperi. Ieri ci dissero che era meglio vivere un giorno da leone, oggi dovevamo mettere la tigre nel motore. Dopo la retorica di Stato, quella del parastato, ma sempre bestie feroci. Rombammo e ruggimmo, senza sapere che non potevamo neppure pagarci la benzina. Disprezzammo il grano, prodotto di scarso reddito, che, tanto, s’importa, e divorammo bistecche, ma nessuno ci avvertì che l’agricoltura tirava gli ultimi e non ci avrebbe dato più né grano, né bistecche. Imparammo a bere il whisky, gli scozzesi non credevano ai loro occhi, con gl’italiani secondi importatori al mondo dopo gli Stati Uniti.

Fummo forse ridicoli, con le illusioni della nostra improvvisa e precaria ricchezza. Ma nessuno ci ammonì. Anzi: tutti i governi dell’ultimo ventennio ci spinsero verso quella che i severi giudici chiamano “la nevrosi consumistica”. Il paragone coi regimi passati era sempre impostato in termini di quantità: più benessere, più soldi, più carne, più vacanze: meno responsabilità, meno studio; meno lavoro, soprattutto. Ance la lotta contro il comunismo fu condotta, purtroppo, con gli stessi confronti, in cui le idee, la dignità umana, la libertà personale ebbero scarso peso. Ora, ci trattano da sciagurati, spendaccioni e viziosi. E credono che basti agitare la frusta delle strette creditizie e delle manovre fiscali per redimerci da vizi e abitudini, che sono le sole cose che ci restino. Ci vorrebbe un piccolo esempio, un barlume di speranza. Ma chi è davvero disposto a offrire un briciolo solo, dell’uno o dell’altra?

Piero Santerno, da “Il Giornale”, 26 marzo 1976