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Un Avvento furtivo

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Un Avvento furtivo
 

L’Avvento

Chi di voi frequenta regolarmente la vita liturgica della Chiesa sa bene che il periodo d’Avvento è vissuto come una preparazione alla venuta di Cristo nel mondo. Queste quattro settimane scarse che precedono il Santo Natale ci aiutano a meditare sul dono che Gesù ha fatto e fa di Sé attraverso tre distinte prospettive: storica, personale ed escatologica. Il Verbo di Dio infatti, assumendo la nostra umanità, «venne ad abitare in mezzo a noi»[1] prima di tutto in quanto persona localizzata geograficamente e temporalmente; la realtà della Sua vita terrena e la pregnanza del Suo lascito devono essere, specie per il credente, uno stimolo costante alla riflessione, alla comprensione non solo delle conseguenze spirituali ma anche delle implicazioni storico – provvidenziali. D’altra parte non è difficile allegorizzare il concetto di Avvento, di venuta del Signore, considerando come Egli sia giunto e giunga nell’intimo di ognuno. In questo caso la preparazione al Natale può essere vissuta come l’impietosa verifica di quali spazi interiori abbiamo aperto a Dio e di quali zone d’ombra invece gelosamente custodiamo. Infine, poiché la nascita di Cristo può divenire simbolo della Sua seconda venuta negli ultimi tempi, allora l’Avvento è anche segno della vita della Chiesa, protesa a comprendere fiduciosamente il suo gioioso Maràna tha[2].

            Potremmo dire che questi tre aspetti coesistono tanto nella figura stessa di Cristo quanto nella necessaria preparazione alla Sua accoglienza. Nessuna sorpresa quindi che la Santa Chiesa c’inviti volta per volta ad osservare e considerare ora l’uno ora l’altro punto di vista, nella speranza che l’acquisita maturità spirituale li fonda in una sola, pregnante realtà. Tuttavia dobbiamo anche considerare che questi approcci al tempo d’Avvento non indicano, di per se stessi, ciò che dovremmo fare per prepararci; questo fondamentale contenuto infatti richiede un ulteriore approfondimento. Detto in altri termini, per comprendere cosa effettivamente comporti la preparazione all’arrivo di Cristo si sente la necessità di una riflessione capace di dischiudere le tre vie interpretative proposte per penetrare nell’unità del Suo mistero.

            Naturalmente la liturgia della Chiesa non ci lascia soli in questo compito ma, specialmente attraverso le letture domenicali, ci propone tutta una serie di tematiche che possono aiutarci a capire come all’ingresso del Signore nel mondo debbano mutare tanto le nostre esistenze quanto il modo di approcciarci ad esse. In quest’ottica particolare rilievo assume il vangelo della prima domenica d’Avvento: questo testo, vero ingresso del tempo liturgico in questione, può, e forse deve, essere letto come un avvertimento, un monito da custodire nel cuore capace di dare piena cognizione e spessore alla giusta gioia per il Signore che viene.

 

Il ladro

Quest’anno il brano in questione è tratto dal capitolo ventiquattro del Vangelo di Matteo[3] e può apparirci ben strano come primo passo in preparazione al Santo Natale. Preso dall’ultimo discorso di Gesù sulla fine dei tempi riportato dall’evangelista, sembra semplicemente riallacciare la prima venuta di Cristo nel mondo, il Natale appunto, con la seconda nel Giorno del Giudizio. L’elemento di connessione di questi due eventi messo in luce dal brano è l’imprevedibilità dell’arrivo del Verbo Incarnato: proprio come il Popolo eletto venne colto alla sprovvista dalla nascita del Messia, tanto nelle modalità quanto nei tempi, così la Chiesa viene messa in guardia per non farsi trovare impreparata ad un Giudizio che sarà tanto profondo da ridonare all’uomo la perduta nudità[4].

            Il testo di san Matteo tuttavia non si limita a questo generico, per quanto fondamentale, avvertimento, ma cerca sottilmente di specificare il pericolo spirituale nei confronti del quale dobbiamo vegliare e lavorare. Lo fa attraverso questa brevissima parabola: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo»[5].

            Apparentemente il testo si limita a ribadire la necessità di essere pronti all’arrivo del Signore vivendo ogni giorno apparecchiati ad incontrarlo; tuttavia mi sembra che ci sia un dettaglio da considerare più a fondo: Gesù paragona il suo secondo Avvento alla venuta di un ladro. Ora, nel vangelo questa figura criminale ha, com’è naturale, una connotazione fortemente negativa; lo stesso san Matteo, due capitoli più avanti, scrive: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato»[6] e san Giovanni, in uno dei lunghi discorsi di Cristo da lui riportati, ribadisce il concetto dicendo: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante […]  Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza»[7].

            Da questi testi vediamo che il ladro altri non è che colui il quale cerca di penetrare nella casa e nella vita altrui non solo senza consenso ma anche spinto da fini disonesti. Anche se la parabola intende certamente confermare al lettore quanto imprevedibile sia la venuta del Signore, e quanto grande quindi debba essere la sua attenzione nell’attesa, l’associazione di Cristo al ladro rivela anche un fatto inaspettato: a molti il ritorno di Gesù per il Giudizio apparirà un’intrusione, un’illecita violenza contro la quale è bene essere pronti.

            In effetti, chi di noi, pensando al Giorno del Giudizio, non prova perlomeno un pizzico di timore e trepidazione, finendo, quantomeno in parte, per concepirlo come una fastidiosa violazione? Razionalmente il credente sa bene che il secondo Avvento sarà, quanto e più del primo, un momento di gioia per lui; tuttavia, proprio come l’Antico Israele, in parte freme già di nostalgia per ciò che di passato inevitabilmente andrà perduto.

            Penso sia proprio questo sopito rimpianto che Gesù, attraverso l’immagine del ladro, intende mettere in luce ed identificare come elemento cardine della nostra preparazione al Suo ritorno. Il timore del giungere dei cieli e della terra nuova annunciati[8], della vita rinnovata che è centro e culmine della promessa, segnala che, nonostante tutte le nostre lagnanze, il vecchio e cupo mondo dove viviamo ci piace più di quanto forse dovrebbe. Provate a pensarci: un prigioniero che finisca per amare la sua cella non vedrebbe forse il benefattore venuto a liberarlo come un ladro ed un brigante?

 

Il mondo

Non stiamo qui affermando che il cristiano dovrebbe vedere nel creato qualcosa d’intrinsecamente malvagio poiché, come dice il salmo, «I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento»[9]. Per “mondo” quindi non s’intende l’universo in se stesso, bensì il contesto umano attuale, storico, sociale, culturale e spirituale, tanto intrinsecamente bisognoso di redenzione quanto profondamente ostile a Dio. Si tratta dell’accezione del termine usata da san Paolo quando scrive: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto»[10]; san Giovanni, parlando del Giudizio, utilizza questa parola allo stesso modo dicendo: «Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori»[11].

            Ciò che quindi rende l’arrivo di Cristo tanto simile, agli occhi dell’uomo, all’approssimarsi di un ladro è l’amore disordinato per il mondo inteso come condizione umana presente. Nessuna sorpresa quindi che il Signore identifichi proprio nel superamento di questo errore un punto chiave della preparazione alla Sua venuta: quando Egli si presenterà alla nostra porta noi dovremo avere già la valigia in mano, pronti ad abbandonare quell’esistenza della quale, pur non negandone i difetti, con troppa facilità tendiamo e dimenticare gli immensi limiti. La chiamata quindi non è tanto ad odiare l’attualità della vita terrena quanto ad amarne la perfettibilità. Senza questa profondità di sguardo l’invito del Signore a mettersi in cammino, ad abbandonare la sicurezza dell’Egitto per affrontare l’Esodo del Giudizio, ci apparirà simile al sopruso di un ladro[12].

            Tale distorta prospettiva delle cose, che ci porta a dimenticare la natura spiritualmente nomade dell’esistenza cristiana, non s’incarna solo nell’esistenza di coloro che, in un modo o nell’altro, sono schiavi dei desideri della carne. Non è, per dirla altrimenti, un problema che riguarda solo i non credenti e quei cristiani talmente tiepidi da essere solo immagini sbiadite di ciò dovrebbero incarnare; è invece un’insidia capace di cogliere in fallo anche i più ferventi e, proprio per questa ragione, necessitante della massima attenzione.

            Il cardinale Giacomo Biffi scrisse nel 1970 un’operetta ironica e pungente dal titolo Il quinto Evangelo[13] che penso possa aiutarci a far luce su quanto appena detto. Il libro, immaginando il ritrovamento di un nuovo vangelo, pone a confronto alcuni brani scelti del Nuovo Testamento con i passi paralleli di questo fittizio manoscritto; lo scopo è far emergere la distanza esistente, nella Chiesa contemporanea, fra la radicalità di alcune posizioni evangeliche e la languida diplomaticità di certe soluzioni attuali. A fronte di Gv 15, 18-19[14], il cardinale pone un estratto del suo immaginario vangelo: «Se il mondo vi odia, è segno che non lo capite. Conformatevi al mondo, e il mondo vi salverà»[15]. Se l’ironia di questo testo non fosse sufficiente, basta scorrere di poco il commento per leggere che «[…] in questi ultimi tempi abbiamo compreso che […] Il mondo non va né fuggito né salvato: è già salvo da sé, perché tutto quello che c’è in esso, tutte le sue idee, le sue aspirazioni, le sue abitudini, hanno una loro positiva bontà, che attende solo di essere capita e apprezzata»[16].

            Come ogni ironia ben fatta, anche questa custodisce in sé tanta verità quanta malinconia. La denuncia non è contro quell’infantile, e giustamente superata, posizione che sa trovare e vivere la fede solo nell’opposizione a tutto ciò che è mondano; intende invece colpire il pensiero contrario, l’altro estremo del pendolo, di chi, nel cercare tracce di bene in ciò che lo circonda, finisce per perdere di vista la necessità del Redentore. Può sembrare eccessivo porre la questione in questi termini ma v’assicuro che la situazione è, in molti contesti, proprio questa: la nostra attuale condizione invece di apparirci, qual è, come un seme buono che deve essere liberato dalla putrescente polpa che lo ricopre per poter sbocciare, finisce per sembrarci più simile ad una pianta già fiorente, bisognosa certo di cure ma pronta a dare frutti. Da questa prospettiva la venuta di Cristo, il suo essere medico dell’umanità[17], assume un sapore del tutto differente: il suo scopo non è più quello di donarci una nuova vita strappandoci dalla morte pronta a ghermirci, bensì solo di sistemare quel che di storto e scheggiato c’è nella nostra già perfetta esistenza.

            Inutile dire che da questo Cristo, da noi così spesso immaginato e desiderato, non è accettabile attendersi nulla di simile alla venuta in potenza e gloria[18] che la Scrittura annuncia e l’Avvento richiama. Questo Messia non è il Re e Giudice Supremo che verrà a portare giustizia e vita nel mondo, bensì una sorta di arredatore il cui fine non è rifondare la casa ma solo abbellirla un poco.

            Il tempo di Avvento che stiamo vivendo deve quindi, prima di ogni cosa, essere per noi l’occasione di scorgere nell’umana esistenza quella corruzione, quel cancro celato, che oggi con grande facilità riusciamo a mascherare dietro al benessere ad al buonismo. Non si tratta di soffermarci sui singoli problemi che assillano le nostre vite, guai cui spesso riusciamo ad ovviare da soli, ma di cogliere la reale natura della cella in cui viviamo, la profonda solitudine di chi, in un modo o nell’altro, vive distante dal Signore, suo unico amore e più autentico amante. Solo così potremo con cognizione e fede unirci alla millenaria invocazione della Chiesa, impressa a fuoco nell’Apocalisse di san Giovanni, a quel « Vieni, Signore Gesù»[19] la cui sottesa attesa non è rivolta ad un ladro ma ad un Salvatore.

 

Testi consigliati

  • Giacomo Biffi, Il quinto Evangelo, 11a edizione, ESD, Bologna 2008.
  • Giacomo Biffi, Un Natale vero?, ESD, Bologna 2006.

Note:

[1] Gv 1, 14.

[2] Cf 1Cor 16, 22.

[3] Cf Mt 24, 37-44.

[4] Cf Gen 3, 21.

[5] Mt 24, 42-44.

[6] Mt 26, 55.

[7] Gv 10, 1 e 10.

[8] Cf 2Pt 3, 13.

[9] Sal 19, 2.

[10] Rom 12, 2.

[11] Gv 12, 31.

[12] Cf Es 16, 3.

[13] Giacomo Biffi, Il quinto Evangelo, 11a edizione ESD, Bologna 2008.

[14] «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia».

[15] Biffi, Il quinto evangelo, p. 65.

[16] Ibidem.

[17] Cf Mc 2, 17.

[18] Cf Lc 21, 27.

[19] Ap 22, 20.