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La cannabis “light”

cannabis light sativa
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La cannabis “light”

 

La L. 242/2016

Come si evince espressamente dalla rubrica, la L. 242/2016 concerne “la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della cannabis sativa L”. Come prevedibile, da subito si sono posti problemi nella coordinazione tra il TU 309/90, la relativa Giurisprudenza e la summenzionata nuova legge. In effetti, in Dottrina, Miglio & Pesce (2019)[1] hanno notato che “in relazione alle conseguenze che scaturiscono, sul sistema degli stupefacenti, dalla L. 242/2016, si rinvengono, nella recente Giurisprudenza di legittimità, contrapposte impostazioni, che conducono ad esiti persino diametralmente divergenti in materia di commercializzazione dei prodotti della cannabis sativa e delle coltivazioni prese in considerazione nella L. 242/2016”.

Secondo l'orientamento interpretativo inaugurato da Cass., sez. pen. VI, 8 ottobre 2015, n. 46074, “la cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, ha natura di sostanza stupefacente, sia per la previgente normativa sia per l'attuale, che si basa sull'Art. 14 TU 309/90, come modificato dalla L. 79/2014, in cui l'allegata Tabella II prevede soltanto l'indicazione della cannabis, comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione, ed è riferibile a tutti i preparati che la contengano […] Per questa ragione, [nelle Tabelle] non è menzionato specificamente il principio attivo Delta-9-THC, proprio perché tutte le specie di cannabis, nessuna esclusa, sono assoggettate alla disciplina del TU sugli stupefacenti”. In realtà, come precisato da Cass., sez. pen. VI, 27 novembre 2018, n.56737, la L. 242/2016 consente la coltivazione della cannabis sativa L, ancorché non la commercializzazione di alcuni prodotti coltivati, ossia le infiorescenze (marjuana) e la resina (haschisch), che, nei casi della detenzione e della cessione, sono assoggettati alla precettività del TU 309/90, qualora abbiano un concreto tenore drogante. Del pari, Cass., sez. pen. IV, 13 giugno 2018, n. 34332 specifica che “[per il coltivatore di canapa sativa L] non opera l'esenzione di responsabilità (quindi anche di quella penale) prevista dall'Art. 4 commi 5 e 7 L. 242/2016 in caso di superamento della percentuale del 6% di THC, in quanto riferita al solo agricoltore che abbia impiantato una coltivazione di canapa e solo qualora lo stesso abbia rispettato le prescrizioni della relativa legge”.

Da menzionare è pure Cass., sez. pen. IV, 19 settembre 2018, n. 57703, a norma della quale “l'esenzione di responsabilità non si estende a tutta la filiera di coloro che acquistano e rivendono al minuto le sostanze [marjuana ed haschisch] con un principio attivo [di THC] superiore al 6 %”. Entro tale ottica si colloca pure Cass., sez. pen. VI; 10 ottobre 2018, n. 52003, che, con afferenza alla L. 242/2016, distingue tra coltivazione (libera) della pianta e commercializzazione (illecita) delle infiorescenze e della resina.

Ex Art. 2 comma 1 L. 242/2016, la coltivazione della cannabis sativa può essere esercitata senza autorizzazione solamente se, ex comma 2 Art. 2 L. 242/2016, i prodotti ottenuti sono idonei alla produzione di “a) alimenti e cosmetici […], b) semilavorati per forniture alle industrie (anche energetiche) ed all'artigianato, c) materiali destinati alla pratica del sovescio, d) materiale organico destinato alla bioingegneria o alla bioedilizia, e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati, f) materiale dedicato all'attività didattica o ricerca, g) coltivazioni destinate al florovivaismo”. Come si nota, i commi 1 e 2 Art. 2 L. 242/2016 hanno premura di evitare il consumo ludico-ricreativo della cannabis sativa L, ma, nella pratica quotidiana, si tratta di un ambito connotato da una perenne doppiezza semi-legale.

In buona sostanza, la L. 242/2016 vieta solamente la commercializzazione delle infiorescenze (marjuana) e della resina (haschisch). Pertanto, l'Art. 2 L. 242/2016 ammette i soli fini “agro-industriali”, mentre è accuratamente vietato vendere la canapa sativa L per fumarla, cagionando effetti psicoattivi in grado di influire sul sistema nervoso centrale. A tal proposito, Cass., sez. pen. VI, 27 novembre 2018, n. 56737 evidenzia che “la L. 242/2016 non ha comportato la ridefinizione dell'ambito di liceità delle diverse condotte di detenzione e cessione della marjuana e dell'haschisch, quali derivanti dalle coltivazioni di cannabis sativa L, le cui finalità [esclusivamente agro-industriali, ndr] sono definite espressamente e tassativamente dall'Art. 2 comma 2 L. 242/2016, non potendosi estendere tale ambito alle predette condotte [della commercializzazione delle infiorescenze e della resina], che, invece, rientrano nella disciplina penale [ex Art. 73] del TU 309/90, la quale non ha subito alcun fenomeno abolitivo”.

Di nuovo, chi scrive evidenzia che, sotto il profilo empirico, la legalizzazione della coltivazione della canapa, pur se teoricamente limitata ad usi alimentari ed industriali, costituisce, in ogni caso, una zona grigia all'interno della quale è difficile far rispettare il divieto di cessione delle infiorescenze e della resina. Si tratta, infatti, di un ambito pericolosamente ai limiti della ordinaria legalità. P.e., la nuova Normativa nulla dispone in merito al tenore drogante dei vegetali già maturati. D'altra parte, come rimarcato da Cass., sez. pen. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, l'Art. 4 L. 242/2016 ammette la coltivazione di piante con un tenore di THC non superiore allo 0,6 %, ma si tratta di un limite assai difficile da far rispettare.

All'opposto, ad avviso di un secondo filone esegetico, la L. 242/2016 non sostiene il divieto della vendita delle infiorescenze della cannabis. Nel solco di questo indirizzo interpretativo, Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920 mette in risalto che “dalla liceità della coltivazione della cannabis sulla scorta della L. 242/2016, deriva [anche] la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo di THC inferiore allo 0,6 %. Sicché, essi non possono più considerarsi giuridicamente come una sostanza stupefacente ricadente nella disciplina del TU 309/90, al pari di altre varietà vegetali che non sono incluse nelle apposite tabelle”.

Come si può notare, siffatta seconda modalità ermeneutica applica la “norma di chiusura” kelseniana tale per cui “tutto ciò che non è vietato è permesso”. Del reato, è pur vero che, nel testo della L. 242/2016, nessun Articolo affronta, in forma espressa, la tematica della “commercializzazione” dei peli ghiandolari e della resina della canapa legalmente coltivata. Libertaria è pure Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920, ovverosia “vale qui il principio fondamentale secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, reputarsi consentita nell'ambito del generale potere delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi”. Su tale tematica, sempre Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920 ha specificato che “la fissazione del limite dello 0,6 % di THC, entro il quale l'uso delle infiorescenze della cannabis proveniente dalle coltivazioni prese in considerazione dalla L. 242/2016 è lecito, rappresenta l'esito di quello che il Legislatore ha considerato come un ragionevole equilibrio tra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e le (inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni”. Come si può notare, in ultima analisi, Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920 legalizza la “cannabis light”, purché munita di un tenore drogante non superiore allo 0,6%.

Di più, dal momento che la L. 242/2016 ha legalizzato la canapa con un grado di THC inferiore allo 0,6 %, ne consegue che non è reato detenere una o più dosi di cannabis “non droganti”, pur se si pone il non agevole problema di costringere la PG ad allestire continue analisi tossicologiche. Senza dubbio, l'intento di Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920 consta nel sottrarre la marjuana light alla severa precettività penale di cui all'Art. 73 TU 309/90. Anzi, la perfetta legalità del limite di THC fino allo 0,6 % cagiona pure la non applicabilità dell'Art. 75 TU 309/90 in tema di sanzioni amministrative all'uso personale di stupefacenti. Domina, quindi, una concezione strettamente legalistica del lemma “droga”. Infine, Cass., sez. pen. VI, 31 gennaio 2019, n. 4920 precisa che, fatto salvo l'uso individuale ex Art. 75 TU 309/90, lo spaccio di una dose di canapa con un tenore drogante superiore allo 0,6 % è o, viceversa, non è penalmente rilevante a seconda delle specifiche circostanze fattuali che accompagnano ciascun caso. Detto in altri termini, è errato considerare automaticamente precettivo l'Art. 73 TU 309/90 solo perché si è in presenza di un superamento del potere psicoattivo dello 0,6 %. Tutto dipende dalle caratteristiche della singola fattispecie giudicanda.

Un terzo orientamento interpretativo è stato inaugurato dalla celebre Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166, a norma della quale “l'Art. 1 comma 2 L. 242/2016 si riferisce alle coltivazioni non di qualsivoglia tipo botanico di canapa, ma solo alle varietà ammesse iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'Art. 17 Direttiva 2002/53/CE del Consiglio [europeo], del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell'ambito di applicazione del TU 309/90 in materia di stupefacenti […]. Ebbene, […] le varietà di canapa iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole si caratterizzano per il basso dosaggio di principio attivo [THC], tale da non superare lo 0,2 %. Il rispetto di tale limite è, per un verso, imposto dalla normativa eurounitaria (Regolamento UE n. 1308/2013, Art. 189), la quale fissa, appunto, allo 0,2 % il tetto massimo di THC della canapa greggia [ad uso agricolo-industriale o agro-alimentare]; per altro verso, non superare il limite in questione è condizione necessaria per ottenere, da parte del coltivatore, i sussidi stanziati dall'Unione Europea”. Formalmente, Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166 pare impeccabile; tuttavia, a parere di chi commenta, è ben difficile pensare ad un agricoltore di canapa che rispetti sempre la soglia dello 0,2 % di THC senza subire il sinistro fascino del mercato illegale e parallelo della canapa munita di un più elevato tenore drogante. Quello della cannabis non è certo un mondo che brilla per trasparenza e senso civico.

Dunque, per sintetizzare, Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166 sottolinea tre requisiti per la marjuana light e per quella ad uso alimentare o industriale. In primo luogo, è “light” solamente l'infiorescenza proveniente da una delle tipologie botaniche di canapa ammesse dal Catalogo UE sulla cannabis “greggia”. In secondo luogo, tale vegetale, al momento della raccolta, deve possedere una gradazione di THC non superiore allo 0,2 %. In terzo ed ultimo luogo, come sottolineato nelle Motivazioni di Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166, “la coltivazione dev'essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell'Art. 2 comma 2 L. 242/2016”. Dunque, secondo Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166, se la cannabis è conforme ai tre requisiti suesposti, prevale la Normativa europea, quindi, per conseguenza, la L. 242/2016, il che esclude la cogenza dell'Art. 73 TU 309/90, in materia di repressione penale della commercializzazione di stupefacenti. Ciononostante, ex comma 4 Art. 73 TU 309/90, il commerciante di prodotti derivati dalla canapa rimane penalmente responsabile qualora, per grave negligenza o per dolo, immetta nel mercato canapa non light, in tanto in quanto caratterizzata da un tenore di THC superiore allo 0,2 %.

Viceversa, l'agricoltore non è penalmente responsabile, tranne quando agisce con dolo. Infatti, come giustamente e logicamente evidenziato da Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 7166, “non può essere addebitato all'agricoltore un fatto di cui non ha il dominio, non potendo egli né controllare né prevedere che le sementi acquistate, sebbene appartenenti alle varietà [approvate dall'UE] aventi un basso contenuto di THC (non superiore allo 0,2 %), durante la coltivazione sviluppino una percentuale di principio attivo idoneo a produrre un effetto drogante rilevabile”. Solamente se il coltivatore viene a detenere, suo malgrado, canapa psicoattiva, il medesimo perde diritto ai finanziamenti dell'UE, le piante vengono sequestrate e gli arbusti vengono successivamente distrutti, ma il tutto senza l'applicazione dell'Art. 73 TU 309/90, salvo la presenza di una condotta dolosa.

 

La cannabis “light”

Per superare la confusione esegetica provocata dai tre diversi filoni interpretativi or ora esposti, con Ordinanza 8654 dello 08/02/2019, la IV Sezione della Suprema Corte, ex comma 1 Art. 618 Cpp, ha rimesso gli Atti alle Sezioni Unite, “[poiché] tutte le [tre] tesi risultano supportate da argomentazioni di indubbio spessore, sia sotto il profilo testuale, sia dal punto di vista logico-sistematico”. In attesa del pronunziamento delle Sezioni Unite, proseguiva il dibattito socio-giuridico sulla canapa light. Nella Direttiva del Ministero dell'Interno n. 11013/110(4) del 9 maggio 2019, si rimarcava che “viene impropriamente pubblicizzata come consentita dalla L. 242/2016 la vendita di derivati ed infiorescenze di cannabis e si sta assistendo ad una crescita esponenziale del relativo mercato, in esercizi commerciali dedicati o misti, nonché online. In realtà, tra le finalità della coltivazione della canapa industriale non è compresa la produzione e la vendita al pubblico delle infiorescenze, in quanto potenzialmente destinate al consumo personale, in quantità significative da un punto di vista psicotropo e stupefacente, attraverso il fumo o analoga modalità di assunzione […]. L'area di applicazione della L. 242/2016 è estranea alla cessione pura e semplice dei derivati [fumabili, ndr] della canapa per fini voluttuari e a nulla rilevano, in punto di fatto, le iscrizioni sulle confezioni”.

Sempre la Direttiva del Viminale del 2019 qui in parola, inoltre, puntualizzava l'inopportunità di aprire negozi di canapa light vicino a scuole, ospedali, centri sportivi, parchi giochi e luoghi destinati all'aggregazione giovanile. Siffatta Direttiva proponeva, nelle Conclusioni, “un programma straordinario di prevenzione” per il contrasto delle eventuali attività illecite dei canapai, che, a parere del Ministero dell'Interno, abusano delle lacunosità applicative della L. 242/2016, generando un mercato criminogeno che rasenta l'illegalità, nonostante l'apparente conformità al Diritto dell'UE. Nella citata Direttiva del Ministero dell'Interno n. 11013/110(4) del 9 maggio 2019, si esortavano i Comuni alla massima vigilanza sui coffee shops, nel nome di “preminenti ragioni di tutela della salute e dell'ordine pubblico, [le quali] sono messe in pericolo dalla circolazione di siffatte sostanze”. Ecco, dunque, il ritorno di quel sano proibizionismo che costituisce la ratio suprema degli Artt. dal 72 all'86 TU 309/90 (disposizioni penali in materia di stupefacenti).

Quasi tutte le aporie ermeneutiche sono state risolte dalle Sezioni Unite Castignani del 2019, la quale, anzitutto e soprattutto, ha qualificato come “lecita”, ex L. 242/2016, “unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole di cui all'Art. 17 della Direttiva 2002/53/CE del Consiglio europeo del 13 giugno 2002”. Il secondo punto fermo, sempre secondo Sezioni Unite Castignani 2019, è e rimane che “la L. 242/2016, all'Art. 2, elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Ora, alla luce della natura “tassativa” dell'elenco dei derivati commercializzabili, ex Art. 2 L. 242/2016, Cass., SS.UU., 30 maggio 2019, Castignani sentenzia che “non rientrano in [questo] elenco: la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina ottenuti dalla coltivazione di canapa sativa L. Pertanto, integrano il reato di cui all'Art. 73 commi 1 e 4 TU 309/90 le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

In Dottrina, secondo Miazzi (2019)[2] “un aspetto di [Sezioni Unite Castignani] appare importante: si è affermata la non perseguibilità penale delle condotte prive di offensività, lasciando al giudice di merito la decisione caso per caso, con ampio margine concreto”. In effetti, anche a parere di chi redige, i lemmi “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante” confermano che Sezioni Unite Castignani 2019 rigettano la figura dei “reati a pericolosità astratta”. D'altra parte, una sostanza priva o quasi priva di principio attivo non lede né la salute pubblica ed individuale, ex comma 1 Art. 32 Cost., né le altre rationes dell'ordine pubblico e del sano sviluppo delle giovani generazioni. Per conseguenza, come afferma Sezioni Unite Castignani 2019, il Diritto Penale degli stupefacenti non può contemplare e sanzionare una fattispecie ove il pericolo anti-sociale ed anti-giuridico sia “astratto”. La concretezza e l'effettività fisico-materiale del danno è il presupposto fondamentale che sta alla base della “offensività” penalistica. In caso contrario, come recita il brocardo germanofono, “kein Uebel, ohne Schuld” (nessun danno, nessuna responsabilità).

Un altro pregio di Sezioni Unite Castignani 2019 è il ritorno alla “tassatività” nell'interpretazione dell'Art. 2 L. 242/2016, ovverosia non tutti i prodotti derivati dalla canapa sativa L sono commercializzabili. Tuttavia, sempre secondo Miazzi (ibidem)[3], Sezioni Unite Castignani 2019 non risolve il problema della canapa sativa L priva di THC, ma con un elevato tenore di CBD, cannabinoderivato non proibito dalle tabelle del TU 309/90. La marjuana light è priva di “tenore drogante”, dunque non sanitariamente “pericolosa”. Il difetto di Sezioni Unite Castignani 2019 è quello di non specificare se sia vendibile canapa non psicoattiva, ossia priva di tetra-idro-cannabinolo, ancorché ricca di CBD, che, nell'Ordinamento italiano, non è catalogato alla stregua di una “droga”. A parere di chi scrive, forse la soluzione sta nel proporre un'interpretazione restrittiva dell'Art. 2 L. 242/2016, la quale non menziona, tra i cannabinoderivati commerciabili, le infiorescenze e la resina. In ogni caso, chi commenta fa notare che la tossicologia forense non ha ancora escluso, con totale certezza, la non-nocività del CBD, che, nel lungo periodo, potrebbe cagionare reazioni avverse. Oltretutto, manca, comunque, la prova scientifica delle tanto decantate proprietà terapeutiche del CBD.

 

La coltivazione “domestica” della cannabis

Il comma 1 Art. 75 TU 309/90 statuisce che, in presenza di un uso esclusivamente personale, l'importazione, l'esportazione, l'acquisto, la ricezione e la detenzione di stupefacenti costituiscono soltanto un illecito amministrativo; all'opposto, le medesime cinque condotte, se ricorre la finalità dello spaccio, sono penalmente rilevanti ex comma 1 Art. 73 TU 309/90. Tuttavia, non sussiste un parallelismo perfetto tra comma 1 Art. 73 TU 309/90 e comma 1 Art. 75 TU 309/90, nel senso che talune attività, tra cui quella della coltivazione, sono inserite nell'Art. 73 TU 309/90 e non “degradate” anch'esse ad illecito puramente amministrativo nell'Art. 75 TU 309/90. Dunque, stando all'interpretazione letterale e come sottolineato da Consulta 109/2016, “coltivare” stupefacenti, compresa la canapa, dovrebbe essere dichiarato alla stregua di un comportamento “sempre penalmente rilevante”. D'altra parte, come evidenziato da Consulta 109/2016, anche il comma 1 Art. 28 TU 309/90 propende per una qualificazione penalistica della coltivazione della cannabis. Ora, il mancato parallelismo tra comma 1 Art. 73 e comma 1 Art. 75 TU 309/90 è stato risolto dalla Giurisprudenza, soprattutto con afferenza alla tematica della “coltivazione” di cannabinoidi. Una prima proposta esegetica è stata quella di distinguere tra la rilevanza puramente amministrativa della “coltivazione domestica” dalla natura penale della “coltivazione in senso tecnico-agrario”, ovverosia “professionale”.

Ciononostante, siffatta distinzione tra “rudimentalità” e “professionalità” della coltivazione non è pacifica nello stare decisis giurisprudenziale. P.e., Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia ha asserito che “costituisce [comunque, ndr] condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanza stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale; mettendo, ad esempio, a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, poche piantine di sostanze stupefacenti”. Analoga ratio decisamente proibizionistica è stata adottata pure da Cass., sez. pen. VI; 13 ottobre 2009, n. 49528, ad avviso della quale “la coltivazione, a differenza della detenzione, [non è astrattamente pericolosa, poiché] accresce il quantitativo di stupefacente presente sul mercato, non ha un immediato collegamento con il consumo personale del prodotto, ed ha un oggetto non determinato e non controllabile dal punto di vista della quantità”. Simile è pure la posizione di Cass., sez. pen. VI, 4 dicembre 2013, n. 51497, giacché “la condotta di coltivazione ha una maggiore pericolosità per il bene giuridico della salute collettiva [ex comma 1 Art. 32 Cost.] rispetto a quella di detenzione, il che giustifica l'irrilevanza della finalità del consumo personale di quest'ultima condotta”. La ratio proibizionistica, in tema di coltivazione inaugurata da Sezioni Unite Di Salvia 2008 ha avuto una notevole fortuna nella Giurisprudenza di legittimità degli Anni Duemila. Chi commenta, viceversa, si dichiara favorevole al rilievo meramente amministrativo della coltivazione “domestica” e “non professionale” di canapa. Anche Consulta 109/2016 ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'Appello di Brescia, la quale aveva censurato la mancanza del lemma “coltiva” nel comma 1 Art. 75 TU 309/90. In buona sostanza, l'AG bresciana di seconda istanza proponeva di ripristinare una piena equivalenza tra il comma 1 Art. 73 ed il comma 1 Art. 75 TU 309/90, mentre, nella stesura attuale, l'uso personale “degrada” ad illeciti amministrativi soltanto l'importazione, l'esportazione, l'acquisto, la ricezione e la detenzione, e non anche la “coltivazione”.

In maniera poco convincente, Consulta 109/2016 ha rigettato l'eccezione di legittimità costituzionale precisando che “la censura del giudice a quo muove da un'inesatta premessa giuridica: ossia che la detenzione per uso personale dello stupefacente autoprodotto renda non punibile la condotta di coltivazione, assorbendosi l'illecito penale nel successivo illecito amministrativo della detenzione per uso personale […]. Tale assorbimento non si verifica. A rimanere assorbito è casomai l'illecito amministrativo, giacché la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l'ultima fase della coltivazione stessa, ossia la raccolta del coltivato; o può essere, comunque, considerata un post factum non punibile, in quanto ordinario sviluppo della condotta penalmente rilevante. In questa prospettiva, […] la disparità di trattamento non sussiste: il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente raccolto ed il coltivatore in atto rispondono entrambi penalmente”. Ecco, di nuovo, nella Consulta, il dominio della ratio proibizionistica che informa di se stessa l'intero TU 309/90; e diversamente non poteva e non doveva essere, alla luce della piaga della tossicomania giovanile.

Da notare, ognimmodo, è che la Corte d'Appello di Brescia aveva adito la Consulta anche sulla base della presunta “non offensività” di una coltivazione domestica e rudimentale di canapa. Nel dettaglio, l'AG bresciana, nell'Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, aveva puntualizzato che “la coltivazione [di canapa] per uso personale, in quanto non finalizzata all'immissione della droga sul mercato, è priva di qualsiasi potenzialità lesiva dei beni giuridici protetti, con la conseguenza che la presunzione di pericolosità sottesa alla sua incriminazione risulta del tutto irrazionale”. Rispondendo a tale profilo, la Consulta ha da subito distinto tra offensività “in astratto” ed offensività “in concreto”. L'offensività è “astratta” nel senso che, de jure condendo, “il Legislatore deve circoscrivere la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di tutela”. Diversamente, in Consulta 109/2016, esiste l'offensività “in concreto” in tanto in quanto “il giudice del merito, nella verifica della riconducibilità del singolo fatto concreto alla figura astratta di reato, è tenuto ad evitare di sussumere nel reato condotte prive di qualsiasi attitudine lesiva”.

Ebbene, Consulta 109/2016 ha ribadito, al pari di altri Precedenti del Novecento, che la coltivazione di canapa, sebbene non in forma professionale, mette in pericolo beni giuridicamente tutelati o, in ogni caso, il pericolo di offensività è presumibile e non totalmente remoto. Più nel dettaglio, Consulta 109/2016 ha evidenziato che “l'offensività in astratto non implica che l'unico modello di reato costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. E' data al Legislatore, nella sua discrezionalità, l'opzione per l'impiego di modelli che anticipano la tutela penale. Non è, perciò, precluso, in linea di principio, il ricorso al modello di reato di pericolo presunto, occorrendo però – al fine di rispettare il principio di necessaria offensività – che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale ed arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit”. Questo ricorso alla ratio del “reato di pericolo presunto”, anche con attinenza alla coltivazione della marjuana, era stato adottato pure in Consulta nn. 333/1991, 133/1992, 1044/1988, 243/1987, 31/1983 e 9/1972. A parere di chi commenta, il ricorso al paradigma del “reato di pericolo presunto” non è idoneo alla luce di una prudente tutela dell'Art. 13 Cost. . Il rischio, infatti, è quello di addivenire ad un'eccessiva compressione delle libertà fondamentali, senza una logica sufficientemente razionale. La coltivazione domestica di cannabis o è pericolosa o non lo è. Un'eccessiva “astrazione” della pericolosità di un reato risulta troppo vicina alla orribile tipologia dei “delitti di mero sospetto”. Nel Diritto Penale, necessita un'elevata concretezza della lesione del bene giuridicamente tutelato.

Consulta 109/2016, nel rigettare le due Ordinanze a quo della Corte d'Appello di Brescia, contesta pure che la vigente Normativa UE imponga agli Stati-membri di depenalizzare la coltivazione della canapa per uso individuale. Infatti, la decisione-quadro 2004/757/GAI riveste un ruolo puramente indicativo e non impedisce, per conseguenza, di continuare a sussumere la coltivazione rudimentale della marjuana all'interno del campo precettivo penale di cui al comma 1 Art. 73 TU 309/90. In definitiva, Consulta 109/2016 sostiene che il Legislatore teme fortemente che anche una piccola coltura domestica possa incrementare la quantità degli stupefacenti in circolazione; più nel dettaglio, il lemma “coltiva” non è stato inserito nel comma 1 Art. 75 TU 309/90 “perché [la coltivazione, anche modesta, ndr] implica una maggiore circolazione della droga […]. Ogni coltura, [benché limitata, ndr] ha la capacità di accrescere la quantità di stupefacente esistente e circolante, agevolandone, così, indirettamente la diffusione”.

Come si può notare, l'iper-proibizionista Consulta 109/2016 ammette e, anzi appoggia la mancanza di equipollenza piena tra le condotte penali di cui al comma 1 Art. 73 TU 309/90 e le infrazioni amministrative di cui al comma 1 Art. 75 TU 309/90. Consulta 109/2016, nel nome della ratio del “pericolo presunto”, dichiara sempre “penalmente rilevante” l'atto del “coltivare” marjuana, anche se light ed anche se destinata al solo “uso personale” ex comma 1 Art. 75 TU 309/90. Quindi, Consulta 109/2016 si pone in un'ottica proibizionistica che nega la “astrattezza” del pericolo scaturente da qualunque tipologia di coltura, anche amatoriale. Nelle Motivazioni, Consulta 109/2016 utilizza espressamente i lemmi “pericolosità della coltivazione”, a prescindere dal carattere domestico della tenuta delle piante. Si è nuovamente di fronte ad un esempio ripugnante di “delitto di mero sospetto”; infatti, anche il più proibizionista degli interpreti non può negare la “estrema tenuità” di una coltivazione “rudimentale” destinata al consumo privato di un singolo assuntore. Sempre in Consulta 109/2016, viene negata la prevalenza del comma 1 Art. 75 TU 309/90 anche perché, secondo tale Precedente, la coltivazione presenta la peculiarità di dare luogo ad un processo produttivo in grado di autoalimentarsi e di espandersi, potenzialmente, senza alcun limite predefinito, tramite la riproduzione dei vegetali. Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica, oltre che per la sicurezza pubblica e per l'ordine pubblico”. Probabilmente, Consulta 109/2016, seppur implicitamente, applica con scrupolo e severità anche la ratio della “tutela del normale sviluppo delle giovani generazioni”.

Tuttavia, nelle Conclusioni, Consulta 109/2016 riconosce pur sempre che il Magistrato del merito è comunque tenuto a “contestualizzare” la singola fattispecie criminosa, il cui grado di pericolosità anti-normativa ed anti-sociale potrebbe recare alla mancata comminazione di sanzioni penali. P.e., se il grado di THC è qualitativamente infimo, può scattare la precettività dell'Art. 49 CP in tema di “reato impossibile” (“non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato. La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso”). P.e., una coltura di canapa “greggia” annulla qualsivoglia pericolosità o dannosità ex comma 2 Art. 49 CP. Oppure ancora, Consulta 109/2016, con molto realismo, ammette che alla coltivazione di poche piantine si può applicare, se lo consentono le circostanze, la “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto” ex Art. 131 bis CP. Pertanto, anche Consulta 109/2016, nonostante l'aspra severità proibizionistica, invita pur sempre il giudice del merito ad un'accurata contestualizzazione, anche ai sensi dei criteri soggettivi ed oggettivi contemplati nei due commi dell'Art. 133 CP. Consulta 109/2016 prende anch'essa le distanze da un oltranzismo de-contestualizzante ed assolutizzante. Parimenti, Cass., sez. pen. VI, 10 novembre 2015, n. 5254, pur preannunziando quella che sarebbe stata Consulta 109/2016, ammette che, talvolta, la coltivazione di marjuana, ex Art. 131 bis CP, può recare una semplice “offensione minima” ai beni tutelati. Anche in Dottrina, Macrillò (2016)[4] parla di colture che, se ben contestualizzate, non recano all'applicabilità apodittica dell'Art. 73 TU 309/90. All'interno di tale solco interpretativo si colloca pure Cass., sez. pen. IV, 16 ottobre 2018, n. 1766, che esorta il Magistrato del merito a valutare l'eventuale applicabilità dell'Art. 131 bis CP “poiché si deve avere riguardo alle caratteristiche specifiche della condotta”. Come si vede, la Giurisprudenza di legittimità ha mitigato la durezza e l'intransigenza granitica di Consulta 109/2016. Ogni fattispecie, anche con afferenza al TU 309/90, va adeguatamente e ragionevolmente inserita nel proprio contesto.

 

Corollari in tema di coltivazione di canapa

In una prospettiva decisamente proibizionistica e conforme alla ratio ex comma 1 Art. 32 Cost., Cass., sez. pen. VI, 10 febbraio 2016, n. 10169 (conforme alla di poco successiva Cass., sez. pen. VI, 10 maggio 2016, n. 25057) afferma che “ ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il coltivare è un'attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico”. Parimenti, Cass., sez. pen. IV, 27 ottobre 2015, n. 44136 ribadisce che “ciò che rileva, nella pratica, è la conformità della pianta al tipo botanico e la sua attitudine a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”. L'applicabilità del comma 1 Art. 73 TU 309/90 agli arbusti non ancora germogliati è predicata pure da Cass., sez. pen. III,  23 febbraio 2016, n. 23881 nonché da Cass., sez. pen. VI, 1 febbraio 2017, n. 10931. D'altra parte, la sufficienza  della sola “conformità al tipo botanico” è inevitabile nella prassi della PG, al fine di non creare pretesti di impunità.

Similmente, Cass., sez. pen. VI, 15 marzo 2013, n. 22459 evidenzia che “non appare sostenibile l'ipotesi di non sanzionabilità della coltivazione sino alla fase della maturazione della pianta. Se il Legislatore ha previsto espressamente la coltivazione quale autonoma condotta punibile, senza alcuna distinzione, non sembra che possa ritenersi penalmente irrilevante la coltivazione ed il commercio di piantine prima della fase della piena maturazione”. La non ragionevolezza dell'irrilevanza penale degli arbusti non ancora maturati è confermata da Cass., sez. pen. VI, 10 febbraio 2016, n. 10169 nonché da Cass., sez. pen. VI, 28 aprile 2017, n. 35654. Lo stadio incompleto delle infiorescenze non è una causa scriminante. Tuttavia, se una pianta già “matura” non contiene THC, in tal caso manca l'offensione ai beni giuridici protetti, dunque il reato non sussiste. Oppure ancora, come asserito da Cass., sez. pen. VI, 15 marzo 2013, n. 22459, può capitare che il coltivatore metta in atto una “inadeguata modalità di coltivazione, la quale già dimostri [prima della maturazione] che la pianta non è [e non sarà] in grado di realizzare il prodotto finale”. In quest'ultimo caso, il vegetale è/sarà privo o quasi privo di THC e la coltivazione non è e non sarà sussumibile entro il campo precettivo del comma 1 Art. 73 TU 309/90. Diversa, come anzidetto, è la fattispecie di un arbusto discretamente ben coltivato che “presumibilmente” svilupperà tenore drogante.

Ora, il summenzionato orientamento in tema di “maturazione” non è condiviso da tutta la Giurisprudenza di legittimità. P.e., Cass., sez. pen. VI, 21 ottobre 2015, n. 2618 contesta la mancanza di un'offensività non astratta nelle piante non ancora maturate, giacché “non si può anticipare la tutela penale”. Più nel dettaglio, Cass., sez. pen. VI, 21 ottobre 2015, n. 2618 mette in risalto che “una dequotazione del principio di offensività nell'ambito dei reati di pericolo presunto li esporrebbe ancor di più a obiezioni sotto il profilo costituzionale, perché aumenterebbe il rischio, per tali delitti, di colpire condotte di mera disubbidienza, ossia caratterizzate dalla semplice inottemperanza al precetto penale, in assenza di un'effettiva esposizione a pericolo del bene protetto. In altri termini, la loro compatibilità costituzionale è assicurata nella misura in cui risulti rispettata l'esigenza garantistica rappresentata dal principio di offensività, anche in concreto”. In buona sostanza, Cass., sez. pen. VI, 21 ottobre 2015, n. 2618 mette in luce che una piantina di canapa non ancora fiorita è munita di una “pericolosità astratta” che non consente l'applicazione del comma 1 Art. 73 TU 309/90, in tanto in quanto il pericolo è puramente ed insufficientemente “presunto”, quindi non/non ancora rilevante sotto il profilo penale.

Sempre Cass., sez. pen. VI, 21 ottobre 2015, n. 2618, nelle Motivazioni, puntualizza che, se il vegetale non è ancora maturo, “manca l'idoneità della condotta a mettere a repentaglio il bene [costituzionalmente] protetto della salute, non essendo sufficiente l'accertamento della conformità al tipo botanico vietato della piantina  e dovendosi, invece, accertare l'offensività in concreto della condotta”. D'altra parte, non solo con attinenza agli stupefacenti, il Diritto Penale non sanziona mai un danno o un pericolo astrattamente potenziale e non concreto. Tale è pure il parere della succitata Cass., sez. pen. VI, 21c ottobre 2015, n. 2618, ovverosia “la condotta di coltivazione, per essere punita [come p. e p. ex Art. 73 TU 309/90] dev'essere in grado, in concreto, di mettere in pericolo la salute pubblica, e ciò può accadere unicamente se la pianta ha un'effettiva ed attuale capacità drogante. Va dunque appurata la sussistenza dell'offensività in concreto, non essendo sufficiente la verifica che sia stata coltivata una pianta conforme alla specie botanica vietata”. Contro la figura del “delitto a pericolosità presunta” si pone pure Cass., sez. pen. III, 22 febbraio 2017, n. 36037, secondo cui “non è possibile omettere la valutazione in concreto sulla offensività della condotta, operando soltanto un giudizio sulla futura esistenza di principi attivi, e dunque sulla capacità drogante della sostanza estraibile dalle piantine; e così giungendo ad un inammissibile accertamento che fonda il riconoscimento della responsabilità penale con riferimento ad una condotta di coltivazione di cui non risulta dimostrata la capacità di mettere in pericolo il bene tutelato”. Come si può notare, pure Cass., sez. pen. III, 22 febbraio 2017, n. 36037 si dissocia dalla tipologia dei “reati di mero sospetto” con attinenza alla coltivazione di piante di canapa ancora senza infiorescenze.

 

 

[1]Miglio & Pesce, Il tortuoso percorso della commercializzazione della cannabis light verso le Sezioni Unite, in Giurisprudenza penale Web, 3/2019

[2]Miazzi, Cannabis: dalle Sezioni Unite una risposta che va interpretata, in www.giustiziainsieme.it 2019

[3]Miazzi, op. cit.

[4]Macrillò, La nuova disciplina degli stupefacenti, Pacini, Pisa, 2016