Locazione pubblicistica: sulla competenza braccio di ferro a distanza tra Cassazione e Consiglio di Stato
Locazione pubblicistica: sulla competenza braccio di ferro a distanza tra Cassazione e Consiglio di Stato
Con la pronuncia in oggetto specificata il massimo organo di giustizia amministrativa ha ribaltato la sentenza di primo grado, emessa dal TAR Lazio, Roma, n. 922/2022.
Con la predetta decisione, relativa ad una ricerca di mercato, attivata da una società partecipata al 100% da Roma Capitale e, per l’effetto, in controllo pubblico, finalizzata al reperimento di un immobile da condurre in locazione, per la durata di anni sei più sei, da utilizzare quale sede degli uffici della società de qua, ci si è trovati di fronte ad un autentico revirement rispetto all’impostazione della controversia individuata dal TAR del Lazio.
Prescindendo in questa sede, per amore di brevità e al fine di non tediare i cortesi lettori, dalle problematiche di natura amministrativa che hanno connotato la procedura di che trattasi, si ritiene opportuno concentrare il fuoco dell’attenzione su di un aspetto specifico, ossia l’individuazione del giudice competente in relazione a procedure locatizie lato sensu intese, che coinvolgano enti, a vario titolo, rientranti nel perimetro pubblicistico.
Delineato in modo estremamente sommario il contesto di riferimento, si ritiene opportuno muovere il primo passo partendo dagli arresti affermati dal TAR Lazio e richiamati nella sentenza in commento così sintetizzabili: i giudici di primo grado hanno ritenuto, per un verso, che la fattispecie che veniva in rilievo, “ricadesse evidentemente nell’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 1, lett. a)”, del vigente, ratione temporis, Codice degli Appalti (id est: il d.lgs. n. 50/2016); dalle superiori considerazioni il TAR Lazio ha ritenuto di conformarsi all’orientamento più volte espresso dalla Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica (si vedano sul punto l’ordinanza del 16.02.2022, n. 5051, emessa dalle SS.UU. che richiama precedenti in termini ossia le pronunce del 08.07.2015, n. 14185 e la sentenza della SS.UU. del 2.03.2001, n. 124), muovendo, conseguentemente, dal presupposto argomentativo a mente del quale “non rientrando il contratto di locazione nel novero dei contratti di fornitura di cose né in quello dei contratti di fornitura di servizi, la relativa controversia (concernente “diritti soggettivi”) refluirebbe, per ciò solo, nella giurisdizione del giudice ordinario”.
La posizione del TAR Lazio, formalizzata nella relativa sentenza, ha costituito, tuttavia, come già accennato, oggetto di una dura critica da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza emarginata che ribalta, infatti, in modo radicale, la pronuncia dei giudici di primo grado.
La ricostruzione giuridica operata dal TAR Lazio non è ritenuta convincente dal Consiglio di Stato che non può esimersi dall’osservare che “la posizione delle Sezioni Unite della Cassazione, condivisa acriticamente dal primo giudice, appare in realtà il frutto, in qualche misura tralatizio, di cadenze argomentative che, nel prestare soverchio ossequio a premesse di natura essenzialmente sistematica se non puramente concettuale, finiscono per trascurare, contraddicendo una primaria direttiva esegetica (cfr. art. 12 disp. prel. c.c.)[1], imprescindibili e decisivi dati di ordine positivo”.
La trama argomentativa sviluppata dai giudici del Consiglio di Stato prende le mosse dalla considerazione che i contratti “aventi ad oggetto […] la locazione […] di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili” sono ricompresi nel novero delle “esclusioni specifiche” dal Codice dei contratti pubblici (in tal senso, l’art. 17, comma 1 lettera a) del d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50, rilevante ratione temporis, il quale peraltro, sotto il profilo in questione, ripete la regola già scolpita dall’art. 19, comma 1 lettera a) del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163; nello stesso senso, ora l’art. 56, comma 1, lettera e), del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36)”.
Tale esenzione costituisce il portato di varie direttive comunitarie[2], che come ben noto hanno valore vincolante per gli Stati nazionali che hanno aderito all’Unione Europea (si veda al riguardo, con riferimento all’Italia, il comma 1 dell’art. 117 della Carta Costituzionale).
La posizione assunta dal Consiglio di Stato in ordine alla specifica problematica della giurisdizione in materia di procedure locatizie, con particolare riferimento a quelle cosiddette passive (ossia quelle che comportano una spesa), indette da soggetti rientranti nel perimetro pubblicistico prende le mosse dalle seguenti considerazioni preliminari, diversamente modulate:
a) la locazione di beni immobili stipulata da soggetti pubblici od equiparati, così come pure il relativo acquisto, rientra, nella prospettiva europea, non meno che in quella nazionale di recepimento, nel comprensivo genus degli appalti o anche, secondo altra opzione ermeneutica delle concessioni di servizi, nel cui ambito è qualificato dal relativo oggetto. Tale genus è più ampio (in quanto residualmente contrapposto ai contratti aventi ad oggetto lavori o forniture) di quello prefigurato dalla disciplina del codice civile, che pure resta applicabile al relativo schema negoziale;
b) la sancita inapplicabilità, ai fini della relativa stipula, delle disposizioni del Codice degli Appalti non costituisce, dunque, un portato della tipologia o della natura del contratto, ma è semplicemente il frutto di una espressa, e specifica, esclusione positivamente affermata dal legislatore comunitario e nazionale;
c) per i contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del Codice degli Appalti, per i quali l’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016[3], imponeva, in ogni caso, il rispetto dei principi di derivazione nazionale e comunitaria che ispirano e conformano, nella prospettiva del buon andamento (in termini di economicità, efficacia, efficienza ed orientamento al risultato) e della imparzialità (in termini di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità) e ciò al fine di assicurare che l’azione dei soggetti pubblici sia rispondente alle previsioni dettate dall’art. 97 della Costituzione e della legge n. 241 del 1990.
Dalle superiori considerazioni, nella lettura del reticolato normativo applicabile in subiecta materia, i giudici di Palazzo Spada arrivano ad affermare che, sebbene risulti irrevocabile in dubbio che l’individuazione e la selezione del contraente privata, non sia soggetta alla disciplina dettata per le ordinarie procedure ad evidenza pubblica, l’attività negoziale che viene in rilievo, sebbene posta in essere iure privatorum, non è affatto libera e deformalizzata come quella che connota, sul piano fattuale, i rapporti intercorrenti fra soggetti aventi tutti natura privatistica.
La natura pubblicistica del locatario comporta ex se l’assoggettamento della procedura attivata a vincoli giuridici, non disponibili, di natura teleologica, con conseguente obbligo di adeguata motivazione delle scelte amministrative da assumere, con particolare riferimento, anche dal punto di vista di eventuali ipotesi di danno erariale, alla convenienza economica e funzionale, anch’essa debitamente motivata, delle determinazioni assunte dall’ente pubblico latamente inteso.
A ciò si aggiungano ulteriori rilievi di natura procedimentale, derivanti dal dovere “di rendere pubblica l’iniziativa negoziale e trasparente il comportamento prenegoziale, al fine di garantire un accesso paritario e non discriminatorio dei potenziali interessati alla commessa”.
In termini più generali, nel caso di specie sono rinvenibili nel vigente quadro ordinamentale molteplici disposizioni normative che statuiscono, con riferimento alla fattispecie considerata, vincoli procedurali di natura alquanto stringente, sebbene dettati in relazione a contratti non rientranti nell’ambito di applicazione del Codice degli Appalti.
In relazione a quel che precede appare doveroso il richiamo all’art. 3 del Regio Decreto 18 novembre 1923, n. 2440 che rappresenta una sorta di modello che trova estensione in riferimento agli atti negoziali, di natura passiva, degli enti pubblici[4].
Dal punto di vista giuridico, dunque, il ricorso alla gara, o comunque ad un confronto competitivo fra una pluralità di offerenti, costituisce, de facto et de iure, un obbligo inderogabile per gli enti pubblici in senso lato, ferma restando la discrezionalità dell’Amministrazione in ordine alla scelta delle concrete modalità operative di svolgimento della procedura.
Alla luce dei presupposti sopra richiamati il Consiglio di Stato perviene all’affermazione che le modalità comparative di selezione del contraente e la successiva stipula del relativo contratto, finisca con l’integrare, sebbene si tratti di atti formalmente privatistici, gli elementi essenziali dell’attività amministrativa, con tutte le implicazioni da ciò discendenti anche in termini di individuazione dell’organo legittimato a risolvere le controversie da ciò derivanti.
Sulla scorta delle riferite circostanze il Consiglio di Stato giunge ad affermare che i contenziosi che dovessero insorgere per effetto delle procedure che vengono in rilievo “rientrino nell’ambito dell’art. 133, comma 1 lettera e) n. 1 cod. proc. amm., che prefigura una ipotesi, di stretta interpretazione, di giurisdizione esclusiva: ma – in ogni caso – è arduo sottrarre alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo una attività correlata all’operato di soggetti “comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo” (art. 7, comma 2 cod. proc. amm.)”.
I giudici del massimo organo di giustizia amministrativa assumono una posizione critica nei confronti dell’orientamento delle Sezioni Unite che vengono ritenute “per un verso insufficienti, per altro verso non condivisibili”.
E ciò per le motivazioni che, testualmente, si riportano:
“se è del tutto evidente – per seguire le consuete cadenze argomentative, per come ripetute e ribadite dalla richiamata Cass. n. 5051/2022 – che il “contratto stipulato dalla p.a. per il reperimento di immobili da adibire alla propria attività istituzionale” non sia riconducibile (in quanto rientrante “nella fattispecie tipica della locazione”) ai “contratti di fornitura” (di cose), non è corretto (nella prospettiva – non eludibile, se non al prezzo di ignorarne semplicemente la portata – di cui all’art. 17, comma 1 lettera a) d. lgs. n. 50/2016, ……… che declina le tipologie negoziali in forme non del tutto sovrapponibili a quelle codicistiche) l’assunto che non si tratti di contratto “di servizi”, ancorché “escluso”;
se è del tutto esatto che “la pubblica amministrazione che procede alla locazione di immobili da adibire alla propria attività istituzionale agisce secondo le regole del diritto privato”, ciò deve, nondimeno, dirsi veramente per tutti i contratti (che non siano ad oggetto pubblico, ex art. 11 l. n. 241/1990) stipulati dalla pubblica amministrazione nell’esercizio della sua (da sempre riconosciuta, già ex art. 11 cod. civ.) “autonomia contrattuale” (cfr., oggi, con chiarezza, l’art. 8 del d. lgs. n. 36/2023): sicché è argomento che prova, di per sé, troppo;
è, per contro, errato – perché assunto in contrarietà ai precisi dati di ordine positivo di cui si è dato diffusamente conto – che l’indizione di una “gara per individuare gli immobili” (recte, in realtà: per individuare un potenziale contraente, in quanto proprietario di immobili di cui intenda disporre, trasferendone consensualmente il temporaneo godimento) possa riguardarsi quale “facoltativa”; una “gara”, per contro, è, per quanto condotta secondo modalità evidenziali diverse da quelle del codice dei contratti pubblici, e quindi all’occorrenza anche significativamente semplificate, sempre necessaria (sicché la scelta per una procedura aperta, tramite “avviso pubblico”, come nella vicenda in esame, non va acquisita come mera manifestazione di libertà prefigurativa, ma quale discrezionale opzione per una modalità evidenziale aperta: arg. ex art. 3, comma 2. R.D. n. 2440/2023 cit.);
la conclusione secondo cui, perciò, si sia, in tal caso, “in presenza di diritti soggettivi, che come tali rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario” risulta frutto di un (malcerto) postulato, piuttosto che del coerente sviluppo di adeguate premesse: le quali, per contro, militano nel diverso senso della sussistenza (anche……. in una prospettiva costituzionalmente rilevante: cfr. artt. 24 e 113 Cost.), a tutela delle effettive posizioni di controinteresse, che, a fronte delle opzioni negoziali operate da soggetti pubblici, non possono venire dequotate, come accade tipicamente e coerentemente nei rapporti interprivati, ad interessi di mero fatto, le cui uniche e prospettiche emergenze remediali non potrebbero attingere, per definizione, la soglia del danno precontrattuale da lesione dell’affidamento, nei limiti dell’interesse negativo) di (più solide) posizioni di interesse legittimo (abilitate a contrastare, con esiti remediali specifici….. e satisfattivi, l’illegittimo operato dell’amministrazione dinanzi al giudice amministrativo)”.
Sebbene la posizione del Consiglio di Stato risulti elegantemente argomentata, sia consentito allo scrivente esprimere talune perplessità circa la conclusione cui il richiamato organo giurisdizionale perviene.
In primo luogo si evidenzia che nel nostro ordinamento giuridico il vertice giurisdizionale sia rappresentato dalla Corte di Cassazione cui è attribuita, come già accennato, la c.d. funzione nomofilattica ossia il compito di “garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale” che l’art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941 n.12), demanda, per l’appunto, alla Corte di Cassazione.
È pur vero che il nostro ordinamento giuridico rientra nel novero di quelli cc.dd. di civil law, con conseguente assenza del valore vincolante dei precedenti giurisdizionali e mancata applicazione del principio c.d. dello stare decisis, elementi tipici, per contro, degli ordinamenti di common law, e ciò nonostante il tentativo di rafforzamento del valore vincolante degli orientamenti espressi dalla Corte di Cassazione a SS.UU. operato con il d.lgs. n. 40 del 2006 e ss.mm.ii. (cfr. art. 8 del d.lgs. che precede, che ha riformulato l’art. 374 del c.p.c.).
Per onestà intellettuale occorre precisare che l’articolo 101 della Costituzione, norma sovraordinata rispetto alle leggi ordinarie, afferma il principio, sebbene implicitamente, della libertà ed indipendenza dei giudici, di vario ordine e grado, nella formulazione delle proprie decisioni, essendo gli stessi soggetti unicamente ai vincoli derivanti da disposizioni di legge, di talché gli altri poteri dello Stato non possono incidere, fatte salve limitate eccezioni, sulle pronunce da essi adottate.
In tale prospettiva il d.lgs. 40 del 2006 ha rappresentato un primo passo verso il rafforzamento della portata precettiva degli orientamenti delle SS.UU. della Corte di Cassazione, fermo restando che esso si risolve, in buona sostanza, in un rapporto fra SS.UU. e Sezioni semplici, senza proiezione esterna verso altri organi esercenti il potere giurisdizionale.
La riferita circostanza, dunque, legittima, stricto iure, il Consiglio di Stato a porsi in una posizione di stridente contrasto con gli orientamenti delle SS.UU. della Cassazione, ma ciò, a sommesso avviso di chi scrive, finisce con il tradursi in un ulteriore depotenziamento del principio della certezza del diritto che, ormai, si risolve in una mera petizione di principio senza alcuna effettiva consistenza.
Le SS.UU, della Cassazione hanno da tempo evidenziato, già con la sentenza n.124/2001) che “il contratto di locazione, che è fattispecie tipica di negozio di godimento di un bene per un dato periodo di tempo dietro il pagamento di un canone, autonomamente disciplinata, anche con norma di valenza imperativa per quanto attiene al canone e alla durata, non è invero riconducibile, ai “contratti di fornitura” e ciò in quanto la res locata rimane nel patrimonio del proprietario locatore e non si trasferisce in quello della controparte come, invece, accade nella fornitura[5], stante la sussistenza di diversa causa giuridica che connota le due tipologie di contratto sopra specificate.
Con la già citata sentenza n.14185/2015 le SS.UU. hanno affermato che “esattamente, dunque, il G.A. ha escluso che il contratto in questione rientri (benché diretto al perseguimento di finalità istituzionali ed ispirato ai generali criteri d’efficienza) nel novero di quelli per i quali sussiste l’obbligo di procedere all’indizione di previa procedura concorsuale, atteso che non vengono in rilievo appalti di fornitura o di affidamento di servizi, devoluti, ex lege, alla giurisdizione esclusiva del G.A. e ciò in quanto, nel caso di specie, nella valutazione degli ermellini, l’amministrazione agisce, come già accennato, iure privatorum, con la conseguenza necessitata che le posizioni di coloro che, a diverso titolo, risultano coinvolti nella fattispecie de qua, si qualificano come diritti soggettivi perfetti, con conseguente devoluzione della giurisdizione al G.O. precisandosi, ad abundantiam, che a tale conclusione si perviene anche nel caso in cui l’ente procedente abbia attivato un iter procedurale di gara, atteso che le modalità ad esso sottese non possono determinare un mutamento sostanziale delle rispettive posizioni giuridiche delle diverse parti coinvolte che sono, e restano, qualificate come diritti soggettivi perfetti.
Per completezza d’esposizione si segnala ai cortesi lettori come l’arresto raggiunto dal Consiglio di Stato con la sentenza emarginata, trovi un significativo precedente nella pronuncia resa dal C.G.A.R.S. n. 208 del 2019, laddove, in buona sostanza, si propugna la tesi che l’indizione di una procedura comparativa rivolta ad un numero indeterminato di operatori economici determini, di per sé, un mutamento sostanziale della posizione giuridica dei soggetti coinvolti con conseguente riqualificazione della stessa in termini di interesse legittimo, e non di diritto soggettivo perfetto, con l’implicazione ulteriore, ma tutt’altro che irrilevante, della devoluzione della giurisdizione al G.A. e non al G.O.
A guisa di conclusione di queste brevi riflessioni chi scrive non può che ricorrere al noto brocardo che recita “tot capita tot sententiae” ed auspicare che prima o poi il decisore politico adotti misure idonee a rafforzare il principio della certezza del diritto, con benefici evidenti in termini di deflazione del contenzioso e di rafforzamento della tutela giuridica dei cittadini.
[1] Art. 12 Interpretazione della legge:
Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
[2] Si vedano le previsioni dettate dall’art. 10 della direttiva 2014/24/UE, dall’art. 21 della direttiva 2014/25/UE e dall’art. 10, paragrafo 8, della direttiva 2014/23/UE, “che traggono alimento, in ragione della tipica localizzazione spaziale propria dei beni immobili, dalla postulata insussistenza di un rilevante interesse transfrontaliero”.
[3]La richiamata disposizione risulta, attualmente, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 36 del 2023, è rappresentata dall’art. 13, comma 5, della menzionata statuizione normativa.
[4] A titolo meramente esemplificativo si veda l’art. 192 del d. lgs. n. 267/2000, relativo agli enti locali), che, al comma 2, sancisce che “i contratti dai quali derivi una spesa………debbono essere preceduti da gare”, all’evidente scopo di una massimizzazione dell’interesse pubblico sub specie, ex plurimis, di una riduzione dei costi che l’ente di volta in volta considerato è chiamato a sopportare in concreto.
Dalle superiori considerazioni deriva, altresì, la natura del tutto eccezionale del ricorso alla trattiva privata, che, per le ragioni predette, appare inidonea a soddisfare le esigenze, del tutto peculiari, che connotano l’azione dei soggetti rientranti nel perimetro pubblico allargato.
[5] Si veda sul punto l’articolo di Maria Chiara Vallone Muscato pubblicato su Aziendaitalia n. 6/2019, pag. 906 e ss. intitolato “Le locazioni passive e le procedure di evidenza pubblica. I nuovi approdi della giurisprudenza amministrativa”.