x

x

Paw-patrol e la imperfect recollection

imperfect recollection
imperfect recollection

Estratto da "100 eserci di proprietà intellettuale" di S. Sandri, Filodiritto Editore, 2017

 

Per cominciare, cani e gatti sono da sempre nel nostro immaginario collettivo, oltre che nella storia del mondo occidentale. Oggi, dicono le statistiche, in Italia una famiglia su quattro possiede un pet, un animale domestico.

Figuriamoci se la Proprietà Industriale non si doveva occupare del fenomeno. Ma non è solo una questione di vendere qualche croccantino in più.

Chi si occupa di marchi è certamente familiare con il principio della “perfect recollection”, in base al quale nei giudizi di confondibiltà occorre tener presente che il consumatore confronta due segni (e direi anche i prodotti) sulla scorta del ricordo imperfetto e incompleto che ha in memoria del segno anteriore. Chi diavolo si può ricordare le differenze tra questi due segni (decisione UIBm 239/2012, 25/03/2014):

Imm 1

Nella controversia insorta il titolare del marchio figurativo, costi- tuito dal’impronta della zampa di cane, per una miriade di prodotti, ha ottenuto soddisfazione dall’Ufficio che non ha ritenuto sufficiente la scritta “Lilly pets” a differenziare il marchio dell’opponenti da quello richiesto. Opposizione accolta, dunque.

Questa imperfect recollection è ormai diventato uno standard e lo ritroverete praticamente in ogni sentenza o decisione in tema di confondibilità tra segni. Il principio – che avvalora la concezione dinamica, in progress del diritto di marchio – è palesemente importante, perché ad esso è riconducibile, tra l’altro, l’identificazione dell’elemento dominante e distintivo del marchio (quello che noi chiamiamo il cosiddetto cuore del marchio). Il principio non rappresenta altro che la trasposizione in termini giuridici dei processi di attivazione della memoria che le scienze cognitive da tempo hanno messo in luce (ho ampiamente trattato questo aspetto sia nel mio libro “Percepire il marchio”e nel più recente “Identità e confondibiità”).

Accade ora che recenti studi di neuroricercatori statunitensi (riprendo l’informazione da Franco DI maRE, RaI-Uno mattina, il cui spirito di osservazione non finisce di stupirmi) avrebbero dimostrato che il ritardo, nello spazio e nel tempo, non comporta, per fortuna, sempre delle conseguenze patologiche (pensiamo ai cosiddetti ritardati mentali), ma corrisponderebbe in determinate persone ad uno stato fisiologico che avrebbe spiegazione nella struttura genetica dei nostri apparati cognitivi, già predefiniti. In parole più semplici, se uno arriva sistematicamente in ritardo, non sarebbe una questione di maleducazione, ma del fatto che uno è fatto così, perché ha e vive una dimensione del tempo diversa dagli altri.

Tornando al marchio, il ritardo mnemonico che porta alla imperfect recollection sarebbe, per così dire, un atto dovuto, una necessità fisiologica (almeno per una buona parte dei consumatori). Questa conclusione potrebbe porsi in palese contraddizione con l’altro principio giuridico acquisito – che però è gerarchicamente superiore perché di ordine generale e preliminare – secondo il quale nell’accertamento della confondibilità bisogna tener conto di tutte le circostanze pertinenti ed attinenti ai casi in discussione (così la famosa sentenza della Corte di giustizia SaBEL PUma & Co.).

Ma c’è, a ben riflettere, qualcosa di più. Credo che, infatti, nello stabilire la forza di questo singolare marchio, un ruolo possa averlo giocato anche la naturale simpatia che il richiamo indiretto ai nostri amici a quattro zampe esercita. A riprova, Lilly richiama il famoso cartoon Lilly e il vagabondo, e, più recentemente, un altro cartone. I nostri nipotini, infatti, impazziscono per la serie Paw Patrol, che di quella forma ne ha fatto addirittura un emblema. In termini giuridici, la questione potrebbe riguardare il diritto d’autore, piuttosto che il diritto di marchio. Questo dimostra tuttavia – seppur ce ne fosse bisogno – l’esistenza delle relazioni sempre più strette tra le varie discipline della P.I.

La questione è intrigante e ci penserò su, ma è anche – filosoficamente parlando – inquietante, nella misura in cui le neuroscienze continuano a spostare in alto l’asticella della limitazione e dei condizionamenti posti alla nostra libertà di agire (fino a negare il libero arbitrio?).

E questo francamente non mi piace.

Come modesto giurista che cerca di capire come il consumatore  possa confondersi davanti a due marchi, preferisco pensare a un consumatore che si comporta “normalmente” e che ha una memoria che funziona in un contesto di fatti, circostanze ed informazioni che dobbiamo di volta in volta accertare, senza partire a priori da schematizzazioni e semplificazioni che rischiano di essere troppo astratte.

Ma naturalmente, questa è solo la mia opinione. Domani non vorrei sentirmi appellare da qualche rude ragazzotto, mentre attraverso le strisce pedonali, con il fatidico: “Ma che sei un ritardato?”.