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La tassazione delle indennità corrisposte nell’ambito dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità.

Riflessioni intorno a talune questioni di primario interesse, rilevate nella disciplina tributaria di riferimento.
1. Premessa.

A quasi tre anni dalla data di entrata in vigore del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 – con il quale è stato adottato il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità” (d’ora innanzi: TUME) – e, in particolar modo, alla luce dei chiarimenti forniti da una recente norma di interpretazione autentica recata dall’ultima Legge Finanziaria, occorre fare il punto della situazione in merito al quadro normativo che disciplina la tassazione delle indennità corrisposte nell’ambito dei procedimenti di espropriazione per causa di pubblica utilità.

Nell’attuare tale intento, non si può infatti prescindere dall’analisi di alcune norme contenute proprio nel citato testo unico, a mente delle quali, non senza dare adito, tuttavia, a complesse questioni di ordine interpretativo, sono state introdotte, come vedremo, nell’ambito della disciplina che regolamenta l’imposizione tributaria delle somme corrisposte in conseguenza della espropriazione per pubblica utilità, talune novità di assoluto rilievo.

2. Il regime fiscale delle indennità di espropriazione.

2.1. La previgente disciplina. L’art. 11 della legge n. 413 del 1991.

Prima dell’avvento delle previsioni contenute nel citato D.P.R. n. 327, la norma di riferimento in tema di tassazione delle indennità in discorso era da rinvenirsi nell’art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413.

In questa norma, particolare rilievo assumeva il comma 5 secondo il quale: “Per le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, comma 1, lettera b), ultima parte, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, introdotta dal comma 1, lettera f) del presente articolo”.

Nel merito dell’anzidetta disposizione, si osserva come la stessa, vista per schemi, qualificava quali plusvalenze da assoggettare a tassazione – rectius – ai sensi dell’art. 67 del nuovo TUIR, le somme:

a. corrisposte, relativamente ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, definite dagli strumenti urbanistici vigenti:

(1) per indennità di esproprio;

(2) a seguito di cessioni volontarie concluse nell’ambito del procedimento espropriativo;

(3) a qualunque titolo, per acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime.

La norma si riferiva, come precisato dall’Amministrazione finanziaria nella circolare ministeriale n. 194/E del 24 luglio 1998, sia alle occupazioni avvenute sulla base di un titolo autorizzatorio (decreto di esproprio) divenuto in seguito illegittimo, sia a quelle effettuate senza alcun titolo giuridico per le quali si era verificata la cosiddetta “accessione invertita”.

Se, infatti, l’espropriazione risultava finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche od infrastrutture urbane era necessario verificare se il terreno rientrava in una delle zone omogenee richiamate dalla norma e non, per contro, se esso risultava edificabile o agricolo (Vgs., sul punto, la R.M. n. 111/E dell’11 luglio 1996). Non andavano pertanto assoggettate a tassazione le indennità corrisposte per l’espropriazione – finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche od infrastrutture urbane – di aree classificate come zona E o F del già menzionato decreto del 1968;

b. comunque dovute a seguito della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167.

Ove l’esproprio veniva disposto per destinare l’area ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica o popolare di cui alla citata legge n. 167, la relativa indennità di esproprio doveva essere sempre assoggettata a tassazione, in quanto in tali casi non assumeva alcun rilievo la collocazione dell’area espropriata all’interno delle zone omogenee di cui al decreto del 1968 che, per contro, dovevano essere prese in considerazione solo laddove il procedimento espropriativo fosse stato posto in essere per la realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane (Cfr. la R.M. n. 30/E del 18 febbraio 1997).

Il successivo comma 6 dell’art. 11 in esame disponeva invece in merito al trattamento fiscale delle indennità e delle somme diverse da quelle sopra considerate. Dalla lettera della norma e dai chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria nella predetta circolare, rientravano nella fattispecie in esame:

- le indennità di occupazione. Tali indennità, nella previgente disciplina, venivano riconosciute, tra l’altro, per l’occupazione d’urgenza di cui all’art. 20 della legge n. 865 del 1971 in tutti i casi in cui, scaduto il termine quinquennale stabilito dalla stessa norma senza che fosse stato emanato il relativo decreto di esproprio, l’occupazione diveniva illegittima per illecito comportamento della P.A. (le predette somme miravano, in sostanza, a risarcire il proprietario della diminuzione patrimoniale concreta a cui veniva sottoposto nel pubblico interesse.);

- gli interessi comunque dovuti su tutte le somme di cui al precedente comma 5.

Relativamente al trattamento fiscale delle anzidette somme, veniva stabilito che queste non costituivano plusvalenze, ma – in caso di opzione da parte del contribuente per la tassazione nei modi ordinari – dovevano essere acquisite a tassazione nel loro intero ammontare.

2.2. Le novità fiscali rilevabili nel TUME.

Come si è già anticipato, le norme contenute nel TUME hanno, per molti versi, introdotto nel panorama normativo che disciplina la materia della espropriazione per pubblica utilità, profonde innovazioni.

Per quanto riguarda gli aspetti di ordine eminentemente tributario è da porre in evidenza come, a parere di chi scrive, talune peculiari novità siano rinvenibili nel corpo degli artt. 35 e 37 dello stesso TUME.

L’art. 35, nel dettaglio, ad una prima lettura appare, invero, ripercorrere fedelmente la formulazione dell’art. 11 della legge del 1991 innanzi analizzato, ma un esame più approfondito lascia emergere talune notevoli discordanze con quanto sancito dalla legge del 1991. La norma testualmente dispone l’applicazione delle disposizioni sulla tassazione delle plusvalenze contenute – ora, come già ricordato, – nell’art. 67 del TUIR: “qualora sia corrisposta a chi non eserciti una impresa commerciale una somma a titolo di indennità di esproprio, ovvero di corrispettivo di cessione volontaria o di risarcimento del danno per acquisizione coattiva, di un terreno ove sia stata realizzata un’opera pubblica, un intervento di edilizia residenziale pubblica o una infrastruttura urbana all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici”.

Esemplificando, la plusvalenza da esproprio dovrà pertanto essere tassata in tutti i casi in cui le somme corrisposte a favore del proprietario del fondo, riguardino:

- l’indennità di esproprio;

- la cessione volontaria nell’ambito del procedimento espropriativo;

- il risarcimento del danno per acquisizione coattiva conseguente alla realizzazione di un’opera pubblica;

- un intervento di edilizia residenziale pubblica;

- la realizzazione di una infrastruttura urbana,

relativamente a terreni collocati all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici vigenti.

Orbene è di tutta evidenza che, a differenza della previgente disciplina, la struttura della norma presenta delle significative differenze. Invero, è necessario porre in risalto la circostanza che della predetta disposizione sono formulabili due diverse interpretazioni, ed entrambe apportano sensibili mutamenti al quadro normativo disciplinato con l’art. 11, comma 5, della legge n. 413, ponendosi, peraltro, in contrasto con i chiarimenti forniti, sullo specifico punto, dalla richiamata C.M. 194/E del 1998.

In particolare:

(a) una prima lettura potrebbe essere quella di considerare la condizione specificata dall’art. 35 del TUME di inclusione del terreno nelle zone del decreto del 1968 riferita – quale conditio sine qua non per l’assoggettamento a tassazione – a tutte le fattispecie elencate dalla norma, compresa, in particolar modo, la corresponsione di somme, a qualsiasi titolo, per la realizzazione di un intervento di edilizia residenziale pubblica (Anche in tal caso il riferimento è, ovviamente, alla legge n. 167 del 1962 concernente le “Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”).

Così facendo, si avrebbe che, mentre in relazione alla previgente disciplina, nel caso di realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica, la ritenuta andava sempre applicata non avendo alcuna rilevanza il rimando alle zone territoriali omogenee, ora, anche in tali ipotesi, bisognerebbe far riferimento alla effettiva collocazione del terreno e soltanto nel caso in cui esso sia classificabile nell’ambito delle zone A, B, C, e D, del decreto ministeriale 2 aprile 1968, potrebbe trovare applicazione la ritenuta fiscale in argomento;

(b) una diversa interpretazione della norma in esame porterebbe, invece, a considerare la condizione della inclusione del terreno nelle zone A, B, C, e D, del predetto decreto, riferita all’ipotesi (l’ultima in ordine di citazione e più vicina, quindi, all’inciso che specifica la detta condizione) di realizzazione di una infrastruttura urbana.

In tal modo, ne deriverebbe – diversamente da quanto sancito dall’art. 11, più volte citato, – che il sistema impositivo in rassegna può trovare applicazione, prescindendo dalla collocazione del terreno nelle zone del decreto (e, quindi, anche per le zone di tipo E ed F), finanche sulle somme corrisposte, a qualsiasi titolo, per l’espropriazione di terreni destinati alla realizzazione di un’opera pubblica.

L’analisi delle due appena evidenziate soluzioni interpretative dell’art. 35 del TUME, pone in risalto una importante considerazione: tra le due ipotesi, la prima – restringendo, rispetto al passato, la sfera di applicazione della disciplina sui redditi diversi dettata dall’art. 67 del TUIR – può ritenersi, in un certo senso, limitativa dell’ambito di applicazione del sistema di tassazione, mentre la seconda opzione ne amplia la portata assoggettando al descritto regime fiscale talune altre fattispecie.

Vi è subito da rilevare come, a favore della interpretazione più restrittiva innanzi descritta, deponga, peraltro – soprattutto alla luce della novella contenuta nel comma 444 dell’articolo unico della Legge 23 dicembre 2005, n. 266 (FINANZIARIA 2006) – la formulazione del comma 6 dell’art. 35 del TUME che, testualmente recita: “Gli interessi percepiti per il ritardato pagamento della somma di cui al comma 1 e l’indennità di occupazione costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi”.

Il combinato disposto tra le due previsioni e il tenore della richiamata novella legislativa, la quale, in punto di interpretazione autentica, ha stabilito che il comma 6 del citato art. 35 deve essere inteso “nel senso che le indennità di occupazione costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi se riferite a terreni ricadenti nelle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici vigenti”, sembrano infatti far emergere la possibilità che il Legislatore, nel riscrivere le norme fiscali in tema di tassazione da esproprio, abbia voluto considerare la condizione di inclusione del terreno nelle zone contemplate dal decreto del 1968, quale requisito necessario – in ogni caso – ai fini dell’assoggettamento a qualsiasi tipo di imposizione tributaria prevista in materia espropriativa.

Trascurando ogni considerazione circa le questioni di diritto intertemporale derivanti dalla evidente natura interpretativa della norma contenuta nell’ultima legge finanziaria citata, preme porre in evidenza come questa “precisazione” consenta, infatti, per quanto di più diretto interesse, di escludere dalla tassazione quelle indennità corrisposte a titolo di occupazione per tutti i terreni ricadenti nelle zone omogenee di tipo E ed F e come, così disponendo, indirettamente sembri suffragare la ricostruzione più rigorosa operata in precedenza, secondo la quale per tutte le fattispecie elencate dalla norma bisogna tenere in debito conto – diversamente da quanto stabilito nella previgente disciplina – la localizzazione del terreno rispetto alle richiamate zone A, B, C e D, del decreto del 1968.

In ordine, invece, alla indubbia “antinomia” che scaturisce dal controverso rapporto tra le disposizioni recate dall’art. 35 del TUME e l’art. 11 della legge del 1991, non resta che spendere qualche considerazione in merito a quello che potrebbe essere il criterio più adatto alla sua composizione.

Volendo, infatti, disquisire in merito all’efficacia delle predette novelle legislative ed al loro rapporto con l’art. 11 della legge n. 413, bisogna soffermare l’attenzione su alcune questioni, di fatto e di diritto, di primario interesse:

- vi è da dire, innanzitutto, che l’art. 11 della legge n. 413 del 1991 non è stato espressamente abrogato dal TUME, nel cui testo è sancita (Cfr. art. 58, comma 1, punto n. 131) la sola esplicita abrogazione del comma 9 di tale disposizione normativa che, peraltro, come già evidenziato, era da ritenersi non più attuale già prima della entrata in vigore del Testo unico in esame.

Nemmeno la norma compendiata al punto n. 141 dello stesso art. 58, che contiene una disposizione abrogativa residuale, sembra far riferimento, sia direttamente che indirettamente, alla abrogazione delle altre disposizioni contenute nell’art. 11 della legge n. 413;

- è opportuno evidenziare come l’esame sistematico delle due previsioni normative, anche in forza delle ulteriori motivazioni che saranno addotte nel prosieguo, induca a ritenere che, sullo specifico punto appena analizzato, le previsioni recate dal comma 5 dell’art. 11 – e, conseguentemente, i chiarimenti forniti, sempre con riferimento alla segnalata questione, dalla richiamata circolare ministeriale – siano da ritenersi sostanzialmente superati dalle statuizioni recate dall’art. 35 del TUME.

A sostegno di tale tesi, innanzitutto, la ravvisata necessità per il Legislatore di riformulare le disposizioni fiscali di settore dal momento che la norma del 1991, in particolare, conteneva ancora delle previsioni che, ad evidenza, si ponevano in evidente contrasto con la riformulata disciplina della materia. L’art. 11, infatti, assoggettava a tassazione anche tutte le “somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni d’urgenza divenute illegittime”, modalità di esercizio della procedura espropriativa che, come precisato nel precedente paragrafo esplicativo della disciplina amministrativa di settore, sono state ormai accantonate dal TUME;

- sempre in ordine alla natura innovativa delle previsioni (con particolare riferimento, per quanto di interesse nella presente trattazione, a quelle fiscali) contenute nel TUME è utile esaminare, poi, la loro relazione con i principi fissati, in materia di abrogazione di norme, dall’art. 15 delle “Disposizioni sulla legge in generale” del Codice Civile.

Stando al dettato della norma appena citata, secondo cui “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”, sembra che nel caso di specie possa proprio rilevarsi un’ipotesi di abrogazione implicita delle previsioni recate dall’art. 11 della Legge del 1991, in quanto lo scopo principale del TUME è proprio quello di regolare in maniera unitaria l’intera disciplina delle espropriazioni.

Per altro verso, le caratteristiche legislative del TUME, adottato secondo le tecniche di redazione dei Testi unici contenute nella legge delega n. 50 del 1999, inducono a tenere in considerazione talune ulteriori importanti riflessioni connesse, ancora, alla natura innovativa delle previsioni in esso contenute.

In primo luogo, l’art. 7, comma 2, della legge appena citata prevedeva che gli emanandi testi unici comprendessero in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari, riferendosi, come chiarito dal Consiglio di Stato, nel parere 147/2000, e confermato dalla legge n. 340 del 2000, di modifica dell’art. 7 in questione, a testi unici misti, contenenti norme di grado diverso, ma non norme miste, quindi testi, per una parte legislativi, e per una parte regolamentari, distinte quanto alla loro collocazione nella gerarchia delle fonti, nonché, testi, frutto della redazione di tre diversi atti normativi da emanare contestualmente (un decreto legislativo ed un regolamento di delegificazione - si segnala, infatti, che il D.P.R. n. 327 citato deve essere preso in considerazione unitamente al D.L.gs. n. 325 ed al D.P.R. n. 326, recanti tutti la medesima data di entrata in vigore), producenti ciascuno gli effetti normativi loro propri, quindi, il testo unico complessivo, che li contiene entrambi (Tratto da: “Le innovazioni introdotte dal d.P.R. 327/2001, Testo unico sulle espropriazioni, come modificato dal d.lgs. 302/2002: l’occupazione d’urgenza e l’indennità di esproprio”, di Ginevra Giussani, reperibile all’indirizzo web: http://www.astridonline.it/Gli-osserv/llpp/G_Giussani-Espropiazioni-pu-25_03_05.pdf).

Sicuramente di minor importanza, ma comunque degne di nota per le implicazioni fiscali che ne derivano, sono poi le previsioni – del tutto innovative rispetto alla previgente disciplina – recate dal combinato disposto degli artt. 37, comma 9, e 40, comma 4, del TUME.

In base a tali disposizioni, i proprietari dei terreni espropriati che siano allo stesso tempo coltivatori diretti – sia nell’ipotesi di aree edificabili ma utilizzate per scopi agricoli, sia per l’ipotesi di aree agricole effettivamente coltivate – hanno diritto ad una identica indennità aggiuntiva, pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata.

È chiaro che la ratio legislativa va qui ricercata nella volontà di evitare sperequazioni tra soggetti che svolgono la medesima attività e a risarcire, oltre la perdita della proprietà privata, la lesione del diritto costituzionale al lavoro.

Sulla specifica tematica, si ritiene, benché ancora non siano stati forniti chiarimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria, che a tale indennità aggiuntiva (che viene quindi corrisposta al proprietario del fondo unitamente alla indennità di espropriazione vera e propria), in quanto caratterizzata dalla stessa natura giuridica, non possa che essere riservato il medesimo trattamento fiscale – che, come visto in precedenza consiste nella completa esenzione tributaria – riservato alle indennità aggiuntive erogate ai coloni, mezzadri, fittavoli ed agli altri coltivatori diretti del fondo espropriato.

Anche in detti casi, infatti, le specifiche somme corrisposte non costituiscono il corrispettivo per il trasferimento della proprietà sull’immobile, ma rappresentano esclusivamente una forma di ulteriore ristoro nei confronti degli stessi proprietari che, oltre ad essere privati dell’immobile, perdono anche la possibilità di produrre il loro reddito di lavoro agricolo.

L’aspetto innovativo è indubbiamente da rinvenire nel fatto che ora la ulteriore indennità corrisposta al proprietario dell’area edificabile effettivamente coltivata sarà esclusa dalla tassazione, mentre la maggiorazione che veniva riconosciuta allo stesso soggetto in base alla previgente disciplina, andando direttamente ad aumentare il corrispettivo per la cessione dell’area da espropriare, veniva ricondotta, per espressa previsione dell’art. 11, comma 5, della legge n. 413, nell’ambito della sfera di applicazione delle previsioni di cui all’art. 81, comma 1, lett. b), del TUIR (attualmente art. 67, come si è già più volte sottolineato).

Si ricorda, infatti, che a mente dell’abrogato (Vgs., al riguardo, l’art. 58, comma 1, punto n. 99, del TUME) art. 17, comma 1, della legge n. 865 del 1971 citata, nel caso in cui l’area da espropriare risultava effettivamente coltivata dallo stesso proprietario, non era prevista la corresponsione di alcuna indennità aggiuntiva, ma soltanto la triplicazione dell’indennità provvisoria che poteva essere riconosciuta in favore dello stesso soggetto nella sola ipotesi di cessione volontaria del terreno.

3. La dichiarazione dei redditi del soggetto espropriato e la richiesta di rimborso.

Si osserva che soltanto in caso di esercizio dell’opzione per la tassazione ordinaria (o separata), il contribuente potrà, qualora rinunci alla tassazione sostitutiva ora disciplinata dall’art. 35 del TUME, procedere:

a. per le somme compendiate al comma 1 dell’art. 35 in discorso procedere alla determinazione della plusvalenza secondo i criteri previsti dall’art. 68 del nuovo TUIR;

b. al calcolo delle imposte dovute per i redditi diversi derivanti dalla corresponsione delle somme indicate dal successivo comma 6 dell’art. 35.

Premesso che, come per la previgente disciplina, gli “interessi percepiti per il ritardato pagamento…” e “…l’indennità di occupazione…” concorrono alla formazione dei redditi diversi per il loro intero ammontare e, pertanto, non consentendo alcun margine di scelta, non permettono particolari “strategie” in ordine alle loro modalità di tassazione, nell’ipotesi sub a., invece, la ritenuta, analogamente al passato, deve essere ri-calcolata dall’espropriato che opti per la tassazione ordinaria/separata.

Così facendo (art. 35, comma 2, secondo periodo) la stessa non sarà più “d’imposta” (ovvero definitiva), ma “d’acconto” e soggetta, pertanto, a rideterminazione.

Il primo passo da porre in essere da parte del contribuente che ritenga fiscalmente vantaggioso rinunciare alla tassazione sostitutiva, è, pertanto, l’effettuazione della scelta per la tassazione ordinaria o separata nell’ambito della dichiarazione dei redditi per il periodo in cui sono state conseguite le predette somme.

In ordine ai criteri da tenere in considerazione per l’effettuazione della descritta scelta impositiva, è appena il caso di evidenziare che mentre la tassazione ordinaria risulta conveniente solo allorquando il contribuente abbia un notevole importo di oneri detraibili capaci di abbattere, magari fino a concorrenza, l’imposta dovuta, quella separata, per contro, almeno fino al 31 dicembre 2002, presentava taluni vantaggi solamente in presenza di redditi molto bassi rientranti nel primo scaglione d’imposta o addirittura non imponibili.

Il riferimento temporale, come noto, è da porre in relazione alla riforma del sistema impositivo sui redditi – operata prima con la legge n. 289 del 2002 (Finanziaria 2003) e poi, ulteriormente definita con la legge n. 311 del 2004 (Finanziaria 2005) – che ha condotto alla introduzione dell’IRE ed alla riformulazione, a partire dal 1° gennaio 2003, delle aliquote e degli scaglioni d’imposta con l’innalzamento, tra l’altro, dell’aliquota del 18%, applicabile in relazione al primo scaglione reddituale, al 23%.

Ciò, come si vedrà, ha determinato delle rilevanti conseguenze anche in relazione alle tematiche di cui si discute apportando taluni peculiari correttivi sui quali vi è la necessità di richiamare l’attenzione dei lettori.

Come noto, nel caso di scelta della tassazione separata, secondo quanto stabilito negli artt. 16, comma 1, lett. g-bis, e 18, commi 1 e 3, del vecchio TUIR (norme riprese fedelmente negli artt. 17 e 21 del nuovo Testo unico), era previsto che alla plusvalenza così determinata venisse applicata la cosiddetta aliquota media calcolata con riguardo ad un determinato biennio di riferimento.

In base al primo comma del predetto art. 18 (21 del nuovo TUIR) l’aliquota media era pari all’“aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui è sorto il diritto alla loro percezione…”; in altre parole era quella corrispondente all’imposta calcolata sulla media del reddito complessivo netto del biennio di riferimento diviso per il reddito medio stesso.

Fatta questa necessaria premessa e volendo prendere spunto da un autorevole esempio(“LE IMPOSTE SUI REDDITI NEL TESTO UNICO” di Leo, Monacchi, Schiavo, Giuffrè Editore, 1999) per chiarire come le suddette manovre fiscali abbiano in sostanza precluso la possibilità per i percettori di indennità di espropriazione – già titolari di redditi di scarso ammontare o non imponibili – di beneficiare di un concreto vantaggio fiscale:

- se un contribuente percepiva nell’anno 2002 un’indennità di esproprio, in relazione alla quale decideva di avvalersi della tassazione separata, e nel biennio (di riferimento) 2000-2001 anteriore all’anno in cui era sorto il diritto alla percezione aveva conseguito redditi imponibili rientranti nel primo scaglione d’imposta – ad esempio: per un ammontare complessivo pari a 20.000,00 euro – il calcolo dell’aliquota media doveva essere operato con le seguenti modalità:

20.000,00:2= 10.000,00

Su tale importo, applicando le aliquote dell’anno 2002, si aveva un’imposta di 1.800,00 euro. Volendo determinare l’aliquota media, essa risultava dalla seguente formula:

(1.800,00 x 100)/10.000,00= 18.

L’aliquota del 18% è quella che, pertanto, doveva essere applicata alla indennità di esproprio conseguita per la quale si era preferita l’opzione della tassazione separata. Ciò, ad evidenza, comportava un risparmio fiscale che si sostanziava nella possibilità di scomputare dalla ritenuta del 20% operata dall’ente espropriante un 2% che poteva essere chiesto a rimborso con le modalità in seguito descritte (in particolare, applicando l’aliquota media alla plusvalenza si avrà l’imposta effettivamente dovuta. Sottraendo tale ammontare dalla ritenuta operata dall’Ente espropriante si otterrà l’importo di cui bisogna chiedere il rimborso). Tale agevolazione, in base a quanto disposto nel terzo comma dell’art. 18 del vecchio TUIR, era, di fatto, concessa anche nelle ipotesi in cui:

.. in uno dei due anni anteriori non vi fosse stato reddito imponibile, in quanto in tale circostanza, infatti, la richiamata norma prevedeva l’applicazione dell’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto dell’altro anno.

Nell’esempio citato è chiaro come sulla metà del reddito conseguito in uno dei due anni (cioè: 5.000,00 euro) si rendeva, a maggior ragione, applicabile l’aliquota del 18% prevista nel 2002 per il primo scaglione d’imposta;

.. in entrambi gli anni considerati, non vi fosse stato reddito imponibile. Per tali situazioni, infatti, il secondo periodo del terzo comma in esame prevedeva (e continua a prevedere nella formulazione dell’art. 21 del nuovo TUIR) l’applicazione dell’aliquota – del 18% – al tempo stabilita per il primo scaglione d’imposta dall’art. 11 dello stesso Testo unico.

- nel caso in cui l’indennità di espropriazione, invece, risulti conseguita a partire dal 1° gennaio 2003, pur considerando la presenza nel biennio anteriore di redditi rientranti nel primo scaglione d’imposta ovvero non imponibili, in base alle previsioni introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. c), n. 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, si rende comunque applicabile – per le ragioni descritte nel precedente punto – l’aliquota del 23% con la conseguente ed evidente improponibilità dell’opzione per la tassazione separata.

Tale svantaggioso effetto non viene escluso né dalla presenza nel nuovo assetto impositivo della cd. “no tax area” - correttivo introdotto dal Legislatore nel 2003 che opera sui redditi più bassi ed assicura una migliore progressività dell’imposta attraverso l’individuazione di una fascia di reddito esentata dall’imposizione il cui ammontare varia in funzione dell’aumentare del reddito complessivo e della presenza di oneri deducibili ex art. 10 del TUIR – che operando, a monte, nella fase di determinazione del reddito imponibile non interviene direttamente sulle questioni di cui si discute, né la possibilità di utilizzare la cd. “clausola di salvaguardia” – introdotta dalla richiamata legge Finanziaria per il 2003 ed estesa dalle leggi finanziarie 2005 e 2006 anche ai periodi d’imposta 2005 e 2006 – che concerne, invece, la possibilità di optare per le regole di determinazione dell’imposta in vigore al 31 dicembre 2002 se più favorevoli al contribuente.

In relazione a tale ultima ipotesi, si osserva, infatti, che le disposizioni introdotte per la riforma del sistema impositivo descritte hanno espressamente escluso l’applicazione della clausola di salvaguardia in tutte le fattispecie in cui l’imposta non è determinata previo inserimento del singolo reddito nel reddito complessivo, come ad esempio, accade in relazione ai redditi assoggettati a tassazione separata, a quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, nonché a quelli soggetti a imposta sostitutiva(Cfr. circolari ministeriali n. 2 del 15 gennaio 2003 e del 3 gennaio 2005).

Sulla necessità di effettuare l’opzione in discorso nella dichiarazione dei redditi, qualora non si intenda essere assoggettati alla tassazione sostitutiva del 20%, è utile segnalare una recente sentenza (n. 2490 dell’8 febbraio 2005) della Corte di Cassazione, nella quale viene sancito, in sostanza, che se i contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi non hanno optato per la tassazione ordinaria non possono avanzare alcuna pretesa di rimborso sulle somme già assoggettate, sulla base della tassazione sostitutiva in discorso, alla ritenuta del 20 per cento.

Nel dettaglio, la Corte di Cassazione ha stabilito preliminarmente che in ordine alla lamentata circostanza per la quale “...la ritenuta "secca" del 20% è stata operata sulla intera somma percepita e non sulla sola plusvalenza, con la conseguenza che il prelievo configurerebbe una sorta di "esproprio" che ha colpito il suo patrimonio e non soltanto il reddito prodotto dal patrimonio stesso…” non persistono cause di illegittimità costituzionale. Prosegue, poi, la Corte: “…Quanto ai profili di incostituzionalità eccepiti in relazione alle modalità di attuazione del prelievo fiscale, il comma 7 dell’art. 11 della legge 413/1991, dispone che "Gli enti eroganti, all’atto della corresponsione delle somme di cui ai commi 5 e 6, comprese le somme per occupazione temporanea, risarcimento danni da occupazione acquisitiva, rivalutazione ed interessi, devono operare una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento. È facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, per la tassazione ordinaria, nel qual caso la ritenuta si considera effettuata a titolo di acconto". Quindi, il contribuente può scegliere tra la ritenuta "secca" del 20% operata sulla intera somma erogata, e la tassazione ordinaria, che determina l’ammontare dell’imposta dovuta tenendo conto della sola plusvalenza, unitamente alle altre componenti reddituali. La facoltà di scelta è lasciata esclusivamente al contribuente, che potrà utilizzarla in ragione della propria convenienza, senza che nulla possa eccepire l’amministrazione finanziaria.

Ne deriva che se il contribuente, come nella specie, non chiede di optare per la tassazione ordinaria, vuol dire che la tassazione "secca" realizza un prelievo fiscale inferiore a quello che risulterebbe rispettando il principio della tassazione in base alla capacità contributiva, invocato dal P. Con la ulteriore conseguenza che, se il prelievo fiscale attuato con il metodo della ritenuta "secca" (accettato dal contribuente) è al di sotto dell’ammontare del prelievo che risulterebbe dovuto tassando soltanto la plusvalenza, allora non si vede come si possa sostenere che il prelievo abbia "eroso" una parte del patrimonio. Evidentemente, il legislatore si accontenta di "un minimo garantito", piuttosto che pretendere la tassazione secondo le forme ordinarie, privilegiando la scelta della rapidità e della certezza del prelievo, piuttosto che pretendere "tutto quanto dovuto", a tutto beneficio del contribuente. Peraltro, la Corte Costituzionale ha già rilevato dimostrare la non configurabilità di fatto, di una plusvalenza da esproprio" (Corte Cost. Ord. 395/2002)”.

Per il calcolo della plusvalenza, si considera il prezzo sostenuto per l’acquisto del terreno e tutte le spese inerenti, quali la parcella notarile, l’imposta di registro e le imposte ipotecarie e catastali. Il valore iniziale del terreno, in linea con l’ormai invalso orientamento giurisprudenziale, deve essere, anche con riferimento ai terreni acquisiti per successione o donazione (Vgs. la sentenza della Corte Costituzionale, n. 328 del 9 luglio 2002), rivalutato in base alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.

Per quanto riguarda, invece, i terreni posseduti al 1° gennaio 2002, al 1° gennaio 2003 o al 1° gennaio 2006, rivalutati in base ad apposita perizia giurata di stima, previo pagamento dell’imposta sostitutiva, si considera il valore di perizia.

Il riferimento è alla procedura introdotta dall’art. 7 della Legge 28 dicembre 2001 n. 448, che consente di assumere “in luogo del costo di acquisto o del valore dei terreni edificabili e di quelli agricoli posseduti alla data del 1° gennaio 2002, il valore ad essi attribuito a tale data mediante una perizia giurata di stima, previo pagamento di un’imposta sostitutiva del 4 per cento”. L’importanza di questa norma si manifesta in tutti i casi in cui il costo di acquisto (o il valore assunto nella dichiarazione di successione o donazione) risulta di molto inferiore al valore attuale del terreno. Infatti, tanto maggiore risulta la differenza tra il costo di acquisto e il valore attuale, tanto più conveniente, in prospettiva di una futura cessione, sarà la rivalutazione concessa dalla Legge. Il termine per operare la detta rivalutazione, per i terreni posseduti al 1° luglio 2003, è stato prorogato al 30 giugno 2005, dalla legge n. 311 del 30 dicembre 2005 – Finanziaria 2005. Da ultimo, con l’art. 11 quaterdecies, comma 4, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è stato stabilito che la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni edificabili e con destinazione agricola può essere effettuata per i (predetti) beni posseduti alla data del 1° gennaio 2005 e che la redazione ed il giuramento della perizia devono essere effettuati entro il 30 giugno 2006.

Pertanto, il contribuente che ritenga l’applicazione della ritenuta del 20% troppo onerosa rispetto alla normale tassazione IRPEF, ordinaria o separata, della sola plusvalenza, deve indicare nella dichiarazione dei redditi la plusvalenza, scorporando l’avvenuto prelievo a titolo di acconto. Nella dichiarazione dei redditi dovranno essere indicati (rigo F10 del Mod. 730/2005, ovvero quadro RM di UNICO/2005):

- l’ammontare della plusvalenza realizzata;

- la ritenuta subita (quella operata dal Comune).

Circa le modalità ed i termini di effettuazione della richiesta di rimborso, è utile rilevare che in base all’art. 37, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, sulla riscossione delle entrate erariali, il contribuente assoggettato a ritenuta diretta può ricorrere nei confronti dell’Ufficio Finanziario competente, chiedendo il rimborso, entro il termine di decadenza di 48 mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata, anche nel caso di “…..inesistenza totale o parziale dell’obbligazione tributaria”.

Avverso la decisione dell’Amministrazione finanziaria, ovvero trascorso il termine di 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che sia intervenuta alcuna decisione in merito, il contribuente può presentare ricorso alla Commissione Tributaria provinciale competente, fino a quando il diritto al rimborso, nei termini di cui all’art. 2946 del Codice Civile, non sia prescritto.

Sul punto, una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 18522 del 20 settembre 2005) nella quale è stato ribadito che la mancata presentazione dell’istanza di rimborso entro il termine di 48 mesi preclude la facoltà di ottenere la tutela innanzi al giudice e che la richiesta di documenti inoltrata al contribuente dall’Amministrazione, finalizzata a verificare la fondatezza del diritto al rimborso, non può essere considerata interruttiva del termine prescrizionale.

4. Conclusioni.

Come si è avuto modo di illustrare nel corso del presente lavoro, gli interventi normativi recati, sia dal D.P.R. n. 327 più volte citato, sia dalla legge Finanziaria per il 2006, non hanno contribuito a definire il complesso ed articolato quadro normativo che disciplina la materia. C’è da dire che tale occasione, invero, è stata mancata proprio con la recente legge n. 266 del 2005, dove, in particolar modo, al posto del comma 444 di cui si è discusso, avrebbe potuto trovare spazio una norma interpretativa di più ampia portata, la quale, certamente, poteva fare chiarezza su tutti gli aspetti di criticità segnalati.

Rimangono pertanto delle “zone d’ombra”, rimesse per ora alle valutazioni dell’interprete, che – si spera – vengano, al più presto, fatte oggetto di uno specifico intervento interpretativo al fine di impedire la formazione, innanzi agli organi di giustizia tributaria competenti, di un consistente contenzioso alimentato proprio dalle questioni ermeneutiche segnalate.

1. Premessa.

A quasi tre anni dalla data di entrata in vigore del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 – con il quale è stato adottato il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità” (d’ora innanzi: TUME) – e, in particolar modo, alla luce dei chiarimenti forniti da una recente norma di interpretazione autentica recata dall’ultima Legge Finanziaria, occorre fare il punto della situazione in merito al quadro normativo che disciplina la tassazione delle indennità corrisposte nell’ambito dei procedimenti di espropriazione per causa di pubblica utilità.

Nell’attuare tale intento, non si può infatti prescindere dall’analisi di alcune norme contenute proprio nel citato testo unico, a mente delle quali, non senza dare adito, tuttavia, a complesse questioni di ordine interpretativo, sono state introdotte, come vedremo, nell’ambito della disciplina che regolamenta l’imposizione tributaria delle somme corrisposte in conseguenza della espropriazione per pubblica utilità, talune novità di assoluto rilievo.

2. Il regime fiscale delle indennità di espropriazione.

2.1. La previgente disciplina. L’art. 11 della legge n. 413 del 1991.

Prima dell’avvento delle previsioni contenute nel citato D.P.R. n. 327, la norma di riferimento in tema di tassazione delle indennità in discorso era da rinvenirsi nell’art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413.

In questa norma, particolare rilievo assumeva il comma 5 secondo il quale: “Per le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, comma 1, lettera b), ultima parte, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, introdotta dal comma 1, lettera f) del presente articolo”.

Nel merito dell’anzidetta disposizione, si osserva come la stessa, vista per schemi, qualificava quali plusvalenze da assoggettare a tassazione – rectius – ai sensi dell’art. 67 del nuovo TUIR, le somme:

a. corrisposte, relativamente ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, definite dagli strumenti urbanistici vigenti:

(1) per indennità di esproprio;

(2) a seguito di cessioni volontarie concluse nell’ambito del procedimento espropriativo;

(3) a qualunque titolo, per acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime.

La norma si riferiva, come precisato dall’Amministrazione finanziaria nella circolare ministeriale n. 194/E del 24 luglio 1998, sia alle occupazioni avvenute sulla base di un titolo autorizzatorio (decreto di esproprio) divenuto in seguito illegittimo, sia a quelle effettuate senza alcun titolo giuridico per le quali si era verificata la cosiddetta “accessione invertita”.

Se, infatti, l’espropriazione risultava finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche od infrastrutture urbane era necessario verificare se il terreno rientrava in una delle zone omogenee richiamate dalla norma e non, per contro, se esso risultava edificabile o agricolo (Vgs., sul punto, la R.M. n. 111/E dell’11 luglio 1996). Non andavano pertanto assoggettate a tassazione le indennità corrisposte per l’espropriazione – finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche od infrastrutture urbane – di aree classificate come zona E o F del già menzionato decreto del 1968;

b. comunque dovute a seguito della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167.

Ove l’esproprio veniva disposto per destinare l’area ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica o popolare di cui alla citata legge n. 167, la relativa indennità di esproprio doveva essere sempre assoggettata a tassazione, in quanto in tali casi non assumeva alcun rilievo la collocazione dell’area espropriata all’interno delle zone omogenee di cui al decreto del 1968 che, per contro, dovevano essere prese in considerazione solo laddove il procedimento espropriativo fosse stato posto in essere per la realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane (Cfr. la R.M. n. 30/E del 18 febbraio 1997).

Il successivo comma 6 dell’art. 11 in esame disponeva invece in merito al trattamento fiscale delle indennità e delle somme diverse da quelle sopra considerate. Dalla lettera della norma e dai chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria nella predetta circolare, rientravano nella fattispecie in esame:

- le indennità di occupazione. Tali indennità, nella previgente disciplina, venivano riconosciute, tra l’altro, per l’occupazione d’urgenza di cui all’art. 20 della legge n. 865 del 1971 in tutti i casi in cui, scaduto il termine quinquennale stabilito dalla stessa norma senza che fosse stato emanato il relativo decreto di esproprio, l’occupazione diveniva illegittima per illecito comportamento della P.A. (le predette somme miravano, in sostanza, a risarcire il proprietario della diminuzione patrimoniale concreta a cui veniva sottoposto nel pubblico interesse.);

- gli interessi comunque dovuti su tutte le somme di cui al precedente comma 5.

Relativamente al trattamento fiscale delle anzidette somme, veniva stabilito che queste non costituivano plusvalenze, ma – in caso di opzione da parte del contribuente per la tassazione nei modi ordinari – dovevano essere acquisite a tassazione nel loro intero ammontare.

2.2. Le novità fiscali rilevabili nel TUME.

Come si è già anticipato, le norme contenute nel TUME hanno, per molti versi, introdotto nel panorama normativo che disciplina la materia della espropriazione per pubblica utilità, profonde innovazioni.

Per quanto riguarda gli aspetti di ordine eminentemente tributario è da porre in evidenza come, a parere di chi scrive, talune peculiari novità siano rinvenibili nel corpo degli artt. 35 e 37 dello stesso TUME.

L’art. 35, nel dettaglio, ad una prima lettura appare, invero, ripercorrere fedelmente la formulazione dell’art. 11 della legge del 1991 innanzi analizzato, ma un esame più approfondito lascia emergere talune notevoli discordanze con quanto sancito dalla legge del 1991. La norma testualmente dispone l’applicazione delle disposizioni sulla tassazione delle plusvalenze contenute – ora, come già ricordato, – nell’art. 67 del TUIR: “qualora sia corrisposta a chi non eserciti una impresa commerciale una somma a titolo di indennità di esproprio, ovvero di corrispettivo di cessione volontaria o di risarcimento del danno per acquisizione coattiva, di un terreno ove sia stata realizzata un’opera pubblica, un intervento di edilizia residenziale pubblica o una infrastruttura urbana all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici”.

Esemplificando, la plusvalenza da esproprio dovrà pertanto essere tassata in tutti i casi in cui le somme corrisposte a favore del proprietario del fondo, riguardino:

- l’indennità di esproprio;

- la cessione volontaria nell’ambito del procedimento espropriativo;

- il risarcimento del danno per acquisizione coattiva conseguente alla realizzazione di un’opera pubblica;

- un intervento di edilizia residenziale pubblica;

- la realizzazione di una infrastruttura urbana,

relativamente a terreni collocati all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici vigenti.

Orbene è di tutta evidenza che, a differenza della previgente disciplina, la struttura della norma presenta delle significative differenze. Invero, è necessario porre in risalto la circostanza che della predetta disposizione sono formulabili due diverse interpretazioni, ed entrambe apportano sensibili mutamenti al quadro normativo disciplinato con l’art. 11, comma 5, della legge n. 413, ponendosi, peraltro, in contrasto con i chiarimenti forniti, sullo specifico punto, dalla richiamata C.M. 194/E del 1998.

In particolare:

(a) una prima lettura potrebbe essere quella di considerare la condizione specificata dall’art. 35 del TUME di inclusione del terreno nelle zone del decreto del 1968 riferita – quale conditio sine qua non per l’assoggettamento a tassazione – a tutte le fattispecie elencate dalla norma, compresa, in particolar modo, la corresponsione di somme, a qualsiasi titolo, per la realizzazione di un intervento di edilizia residenziale pubblica (Anche in tal caso il riferimento è, ovviamente, alla legge n. 167 del 1962 concernente le “Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”).

Così facendo, si avrebbe che, mentre in relazione alla previgente disciplina, nel caso di realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica, la ritenuta andava sempre applicata non avendo alcuna rilevanza il rimando alle zone territoriali omogenee, ora, anche in tali ipotesi, bisognerebbe far riferimento alla effettiva collocazione del terreno e soltanto nel caso in cui esso sia classificabile nell’ambito delle zone A, B, C, e D, del decreto ministeriale 2 aprile 1968, potrebbe trovare applicazione la ritenuta fiscale in argomento;

(b) una diversa interpretazione della norma in esame porterebbe, invece, a considerare la condizione della inclusione del terreno nelle zone A, B, C, e D, del predetto decreto, riferita all’ipotesi (l’ultima in ordine di citazione e più vicina, quindi, all’inciso che specifica la detta condizione) di realizzazione di una infrastruttura urbana.

In tal modo, ne deriverebbe – diversamente da quanto sancito dall’art. 11, più volte citato, – che il sistema impositivo in rassegna può trovare applicazione, prescindendo dalla collocazione del terreno nelle zone del decreto (e, quindi, anche per le zone di tipo E ed F), finanche sulle somme corrisposte, a qualsiasi titolo, per l’espropriazione di terreni destinati alla realizzazione di un’opera pubblica.

L’analisi delle due appena evidenziate soluzioni interpretative dell’art. 35 del TUME, pone in risalto una importante considerazione: tra le due ipotesi, la prima – restringendo, rispetto al passato, la sfera di applicazione della disciplina sui redditi diversi dettata dall’art. 67 del TUIR – può ritenersi, in un certo senso, limitativa dell’ambito di applicazione del sistema di tassazione, mentre la seconda opzione ne amplia la portata assoggettando al descritto regime fiscale talune altre fattispecie.

Vi è subito da rilevare come, a favore della interpretazione più restrittiva innanzi descritta, deponga, peraltro – soprattutto alla luce della novella contenuta nel comma 444 dell’articolo unico della Legge 23 dicembre 2005, n. 266 (FINANZIARIA 2006) – la formulazione del comma 6 dell’art. 35 del TUME che, testualmente recita: “Gli interessi percepiti per il ritardato pagamento della somma di cui al comma 1 e l’indennità di occupazione costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi”.

Il combinato disposto tra le due previsioni e il tenore della richiamata novella legislativa, la quale, in punto di interpretazione autentica, ha stabilito che il comma 6 del citato art. 35 deve essere inteso “nel senso che le indennità di occupazione costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi se riferite a terreni ricadenti nelle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite dagli strumenti urbanistici vigenti”, sembrano infatti far emergere la possibilità che il Legislatore, nel riscrivere le norme fiscali in tema di tassazione da esproprio, abbia voluto considerare la condizione di inclusione del terreno nelle zone contemplate dal decreto del 1968, quale requisito necessario – in ogni caso – ai fini dell’assoggettamento a qualsiasi tipo di imposizione tributaria prevista in materia espropriativa.

Trascurando ogni considerazione circa le questioni di diritto intertemporale derivanti dalla evidente natura interpretativa della norma contenuta nell’ultima legge finanziaria citata, preme porre in evidenza come questa “precisazione” consenta, infatti, per quanto di più diretto interesse, di escludere dalla tassazione quelle indennità corrisposte a titolo di occupazione per tutti i terreni ricadenti nelle zone omogenee di tipo E ed F e come, così disponendo, indirettamente sembri suffragare la ricostruzione più rigorosa operata in precedenza, secondo la quale per tutte le fattispecie elencate dalla norma bisogna tenere in debito conto – diversamente da quanto stabilito nella previgente disciplina – la localizzazione del terreno rispetto alle richiamate zone A, B, C e D, del decreto del 1968.

In ordine, invece, alla indubbia “antinomia” che scaturisce dal controverso rapporto tra le disposizioni recate dall’art. 35 del TUME e l’art. 11 della legge del 1991, non resta che spendere qualche considerazione in merito a quello che potrebbe essere il criterio più adatto alla sua composizione.

Volendo, infatti, disquisire in merito all’efficacia delle predette novelle legislative ed al loro rapporto con l’art. 11 della legge n. 413, bisogna soffermare l’attenzione su alcune questioni, di fatto e di diritto, di primario interesse:

- vi è da dire, innanzitutto, che l’art. 11 della legge n. 413 del 1991 non è stato espressamente abrogato dal TUME, nel cui testo è sancita (Cfr. art. 58, comma 1, punto n. 131) la sola esplicita abrogazione del comma 9 di tale disposizione normativa che, peraltro, come già evidenziato, era da ritenersi non più attuale già prima della entrata in vigore del Testo unico in esame.

Nemmeno la norma compendiata al punto n. 141 dello stesso art. 58, che contiene una disposizione abrogativa residuale, sembra far riferimento, sia direttamente che indirettamente, alla abrogazione delle altre disposizioni contenute nell’art. 11 della legge n. 413;

- è opportuno evidenziare come l’esame sistematico delle due previsioni normative, anche in forza delle ulteriori motivazioni che saranno addotte nel prosieguo, induca a ritenere che, sullo specifico punto appena analizzato, le previsioni recate dal comma 5 dell’art. 11 – e, conseguentemente, i chiarimenti forniti, sempre con riferimento alla segnalata questione, dalla richiamata circolare ministeriale – siano da ritenersi sostanzialmente superati dalle statuizioni recate dall’art. 35 del TUME.

A sostegno di tale tesi, innanzitutto, la ravvisata necessità per il Legislatore di riformulare le disposizioni fiscali di settore dal momento che la norma del 1991, in particolare, conteneva ancora delle previsioni che, ad evidenza, si ponevano in evidente contrasto con la riformulata disciplina della materia. L’art. 11, infatti, assoggettava a tassazione anche tutte le “somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni d’urgenza divenute illegittime”, modalità di esercizio della procedura espropriativa che, come precisato nel precedente paragrafo esplicativo della disciplina amministrativa di settore, sono state ormai accantonate dal TUME;

- sempre in ordine alla natura innovativa delle previsioni (con particolare riferimento, per quanto di interesse nella presente trattazione, a quelle fiscali) contenute nel TUME è utile esaminare, poi, la loro relazione con i principi fissati, in materia di abrogazione di norme, dall’art. 15 delle “Disposizioni sulla legge in generale” del Codice Civile.

Stando al dettato della norma appena citata, secondo cui “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”, sembra che nel caso di specie possa proprio rilevarsi un’ipotesi di abrogazione implicita delle previsioni recate dall’art. 11 della Legge del 1991, in quanto lo scopo principale del TUME è proprio quello di regolare in maniera unitaria l’intera disciplina delle espropriazioni.

Per altro verso, le caratteristiche legislative del TUME, adottato secondo le tecniche di redazione dei Testi unici contenute nella legge delega n. 50 del 1999, inducono a tenere in considerazione talune ulteriori importanti riflessioni connesse, ancora, alla natura innovativa delle previsioni in esso contenute.

In primo luogo, l’art. 7, comma 2, della legge appena citata prevedeva che gli emanandi testi unici comprendessero in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari, riferendosi, come chiarito dal Consiglio di Stato, nel parere 147/2000, e confermato dalla legge n. 340 del 2000, di modifica dell’art. 7 in questione, a testi unici misti, contenenti norme di grado diverso, ma non norme miste, quindi testi, per una parte legislativi, e per una parte regolamentari, distinte quanto alla loro collocazione nella gerarchia delle fonti, nonché, testi, frutto della redazione di tre diversi atti normativi da emanare contestualmente (un decreto legislativo ed un regolamento di delegificazione - si segnala, infatti, che il D.P.R. n. 327 citato deve essere preso in considerazione unitamente al D.L.gs. n. 325 ed al D.P.R. n. 326, recanti tutti la medesima data di entrata in vigore), producenti ciascuno gli effetti normativi loro propri, quindi, il testo unico complessivo, che li contiene entrambi (Tratto da: “Le innovazioni introdotte dal d.P.R. 327/2001, Testo unico sulle espropriazioni, come modificato dal d.lgs. 302/2002: l’occupazione d’urgenza e l’indennità di esproprio”, di Ginevra Giussani, reperibile all’indirizzo web: http://www.astridonline.it/Gli-osserv/llpp/G_Giussani-Espropiazioni-pu-25_03_05.pdf).

Sicuramente di minor importanza, ma comunque degne di nota per le implicazioni fiscali che ne derivano, sono poi le previsioni – del tutto innovative rispetto alla previgente disciplina – recate dal combinato disposto degli artt. 37, comma 9, e 40, comma 4, del TUME.

In base a tali disposizioni, i proprietari dei terreni espropriati che siano allo stesso tempo coltivatori diretti – sia nell’ipotesi di aree edificabili ma utilizzate per scopi agricoli, sia per l’ipotesi di aree agricole effettivamente coltivate – hanno diritto ad una identica indennità aggiuntiva, pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata.

È chiaro che la ratio legislativa va qui ricercata nella volontà di evitare sperequazioni tra soggetti che svolgono la medesima attività e a risarcire, oltre la perdita della proprietà privata, la lesione del diritto costituzionale al lavoro.

Sulla specifica tematica, si ritiene, benché ancora non siano stati forniti chiarimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria, che a tale indennità aggiuntiva (che viene quindi corrisposta al proprietario del fondo unitamente alla indennità di espropriazione vera e propria), in quanto caratterizzata dalla stessa natura giuridica, non possa che essere riservato il medesimo trattamento fiscale – che, come visto in precedenza consiste nella completa esenzione tributaria – riservato alle indennità aggiuntive erogate ai coloni, mezzadri, fittavoli ed agli altri coltivatori diretti del fondo espropriato.

Anche in detti casi, infatti, le specifiche somme corrisposte non costituiscono il corrispettivo per il trasferimento della proprietà sull’immobile, ma rappresentano esclusivamente una forma di ulteriore ristoro nei confronti degli stessi proprietari che, oltre ad essere privati dell’immobile, perdono anche la possibilità di produrre il loro reddito di lavoro agricolo.

L’aspetto innovativo è indubbiamente da rinvenire nel fatto che ora la ulteriore indennità corrisposta al proprietario dell’area edificabile effettivamente coltivata sarà esclusa dalla tassazione, mentre la maggiorazione che veniva riconosciuta allo stesso soggetto in base alla previgente disciplina, andando direttamente ad aumentare il corrispettivo per la cessione dell’area da espropriare, veniva ricondotta, per espressa previsione dell’art. 11, comma 5, della legge n. 413, nell’ambito della sfera di applicazione delle previsioni di cui all’art. 81, comma 1, lett. b), del TUIR (attualmente art. 67, come si è già più volte sottolineato).

Si ricorda, infatti, che a mente dell’abrogato (Vgs., al riguardo, l’art. 58, comma 1, punto n. 99, del TUME) art. 17, comma 1, della legge n. 865 del 1971 citata, nel caso in cui l’area da espropriare risultava effettivamente coltivata dallo stesso proprietario, non era prevista la corresponsione di alcuna indennità aggiuntiva, ma soltanto la triplicazione dell’indennità provvisoria che poteva essere riconosciuta in favore dello stesso soggetto nella sola ipotesi di cessione volontaria del terreno.

3. La dichiarazione dei redditi del soggetto espropriato e la richiesta di rimborso.

Si osserva che soltanto in caso di esercizio dell’opzione per la tassazione ordinaria (o separata), il contribuente potrà, qualora rinunci alla tassazione sostitutiva ora disciplinata dall’art. 35 del TUME, procedere:

a. per le somme compendiate al comma 1 dell’art. 35 in discorso procedere alla determinazione della plusvalenza secondo i criteri previsti dall’art. 68 del nuovo TUIR;

b. al calcolo delle imposte dovute per i redditi diversi derivanti dalla corresponsione delle somme indicate dal successivo comma 6 dell’art. 35.

Premesso che, come per la previgente disciplina, gli “interessi percepiti per il ritardato pagamento…” e “…l’indennità di occupazione…” concorrono alla formazione dei redditi diversi per il loro intero ammontare e, pertanto, non consentendo alcun margine di scelta, non permettono particolari “strategie” in ordine alle loro modalità di tassazione, nell’ipotesi sub a., invece, la ritenuta, analogamente al passato, deve essere ri-calcolata dall’espropriato che opti per la tassazione ordinaria/separata.

Così facendo (art. 35, comma 2, secondo periodo) la stessa non sarà più “d’imposta” (ovvero definitiva), ma “d’acconto” e soggetta, pertanto, a rideterminazione.

Il primo passo da porre in essere da parte del contribuente che ritenga fiscalmente vantaggioso rinunciare alla tassazione sostitutiva, è, pertanto, l’effettuazione della scelta per la tassazione ordinaria o separata nell’ambito della dichiarazione dei redditi per il periodo in cui sono state conseguite le predette somme.

In ordine ai criteri da tenere in considerazione per l’effettuazione della descritta scelta impositiva, è appena il caso di evidenziare che mentre la tassazione ordinaria risulta conveniente solo allorquando il contribuente abbia un notevole importo di oneri detraibili capaci di abbattere, magari fino a concorrenza, l’imposta dovuta, quella separata, per contro, almeno fino al 31 dicembre 2002, presentava taluni vantaggi solamente in presenza di redditi molto bassi rientranti nel primo scaglione d’imposta o addirittura non imponibili.

Il riferimento temporale, come noto, è da porre in relazione alla riforma del sistema impositivo sui redditi – operata prima con la legge n. 289 del 2002 (Finanziaria 2003) e poi, ulteriormente definita con la legge n. 311 del 2004 (Finanziaria 2005) – che ha condotto alla introduzione dell’IRE ed alla riformulazione, a partire dal 1° gennaio 2003, delle aliquote e degli scaglioni d’imposta con l’innalzamento, tra l’altro, dell’aliquota del 18%, applicabile in relazione al primo scaglione reddituale, al 23%.

Ciò, come si vedrà, ha determinato delle rilevanti conseguenze anche in relazione alle tematiche di cui si discute apportando taluni peculiari correttivi sui quali vi è la necessità di richiamare l’attenzione dei lettori.

Come noto, nel caso di scelta della tassazione separata, secondo quanto stabilito negli artt. 16, comma 1, lett. g-bis, e 18, commi 1 e 3, del vecchio TUIR (norme riprese fedelmente negli artt. 17 e 21 del nuovo Testo unico), era previsto che alla plusvalenza così determinata venisse applicata la cosiddetta aliquota media calcolata con riguardo ad un determinato biennio di riferimento.

In base al primo comma del predetto art. 18 (21 del nuovo TUIR) l’aliquota media era pari all’“aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui è sorto il diritto alla loro percezione…”; in altre parole era quella corrispondente all’imposta calcolata sulla media del reddito complessivo netto del biennio di riferimento diviso per il reddito medio stesso.

Fatta questa necessaria premessa e volendo prendere spunto da un autorevole esempio(“LE IMPOSTE SUI REDDITI NEL TESTO UNICO” di Leo, Monacchi, Schiavo, Giuffrè Editore, 1999) per chiarire come le suddette manovre fiscali abbiano in sostanza precluso la possibilità per i percettori di indennità di espropriazione – già titolari di redditi di scarso ammontare o non imponibili – di beneficiare di un concreto vantaggio fiscale:

- se un contribuente percepiva nell’anno 2002 un’indennità di esproprio, in relazione alla quale decideva di avvalersi della tassazione separata, e nel biennio (di riferimento) 2000-2001 anteriore all’anno in cui era sorto il diritto alla percezione aveva conseguito redditi imponibili rientranti nel primo scaglione d’imposta – ad esempio: per un ammontare complessivo pari a 20.000,00 euro – il calcolo dell’aliquota media doveva essere operato con le seguenti modalità:

20.000,00:2= 10.000,00

Su tale importo, applicando le aliquote dell’anno 2002, si aveva un’imposta di 1.800,00 euro. Volendo determinare l’aliquota media, essa risultava dalla seguente formula:

(1.800,00 x 100)/10.000,00= 18.

L’aliquota del 18% è quella che, pertanto, doveva essere applicata alla indennità di esproprio conseguita per la quale si era preferita l’opzione della tassazione separata. Ciò, ad evidenza, comportava un risparmio fiscale che si sostanziava nella possibilità di scomputare dalla ritenuta del 20% operata dall’ente espropriante un 2% che poteva essere chiesto a rimborso con le modalità in seguito descritte (in particolare, applicando l’aliquota media alla plusvalenza si avrà l’imposta effettivamente dovuta. Sottraendo tale ammontare dalla ritenuta operata dall’Ente espropriante si otterrà l’importo di cui bisogna chiedere il rimborso). Tale agevolazione, in base a quanto disposto nel terzo comma dell’art. 18 del vecchio TUIR, era, di fatto, concessa anche nelle ipotesi in cui:

.. in uno dei due anni anteriori non vi fosse stato reddito imponibile, in quanto in tale circostanza, infatti, la richiamata norma prevedeva l’applicazione dell’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto dell’altro anno.

Nell’esempio citato è chiaro come sulla metà del reddito conseguito in uno dei due anni (cioè: 5.000,00 euro) si rendeva, a maggior ragione, applicabile l’aliquota del 18% prevista nel 2002 per il primo scaglione d’imposta;

.. in entrambi gli anni considerati, non vi fosse stato reddito imponibile. Per tali situazioni, infatti, il secondo periodo del terzo comma in esame prevedeva (e continua a prevedere nella formulazione dell’art. 21 del nuovo TUIR) l’applicazione dell’aliquota – del 18% – al tempo stabilita per il primo scaglione d’imposta dall’art. 11 dello stesso Testo unico.

- nel caso in cui l’indennità di espropriazione, invece, risulti conseguita a partire dal 1° gennaio 2003, pur considerando la presenza nel biennio anteriore di redditi rientranti nel primo scaglione d’imposta ovvero non imponibili, in base alle previsioni introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. c), n. 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, si rende comunque applicabile – per le ragioni descritte nel precedente punto – l’aliquota del 23% con la conseguente ed evidente improponibilità dell’opzione per la tassazione separata.

Tale svantaggioso effetto non viene escluso né dalla presenza nel nuovo assetto impositivo della cd. “no tax area” - correttivo introdotto dal Legislatore nel 2003 che opera sui redditi più bassi ed assicura una migliore progressività dell’imposta attraverso l’individuazione di una fascia di reddito esentata dall’imposizione il cui ammontare varia in funzione dell’aumentare del reddito complessivo e della presenza di oneri deducibili ex art. 10 del TUIR – che operando, a monte, nella fase di determinazione del reddito imponibile non interviene direttamente sulle questioni di cui si discute, né la possibilità di utilizzare la cd. “clausola di salvaguardia” – introdotta dalla richiamata legge Finanziaria per il 2003 ed estesa dalle leggi finanziarie 2005 e 2006 anche ai periodi d’imposta 2005 e 2006 – che concerne, invece, la possibilità di optare per le regole di determinazione dell’imposta in vigore al 31 dicembre 2002 se più favorevoli al contribuente.

In relazione a tale ultima ipotesi, si osserva, infatti, che le disposizioni introdotte per la riforma del sistema impositivo descritte hanno espressamente escluso l’applicazione della clausola di salvaguardia in tutte le fattispecie in cui l’imposta non è determinata previo inserimento del singolo reddito nel reddito complessivo, come ad esempio, accade in relazione ai redditi assoggettati a tassazione separata, a quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, nonché a quelli soggetti a imposta sostitutiva(Cfr. circolari ministeriali n. 2 del 15 gennaio 2003 e del 3 gennaio 2005).

Sulla necessità di effettuare l’opzione in discorso nella dichiarazione dei redditi, qualora non si intenda essere assoggettati alla tassazione sostitutiva del 20%, è utile segnalare una recente sentenza (n. 2490 dell’8 febbraio 2005) della Corte di Cassazione, nella quale viene sancito, in sostanza, che se i contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi non hanno optato per la tassazione ordinaria non possono avanzare alcuna pretesa di rimborso sulle somme già assoggettate, sulla base della tassazione sostitutiva in discorso, alla ritenuta del 20 per cento.

Nel dettaglio, la Corte di Cassazione ha stabilito preliminarmente che in ordine alla lamentata circostanza per la quale “...la ritenuta "secca" del 20% è stata operata sulla intera somma percepita e non sulla sola plusvalenza, con la conseguenza che il prelievo configurerebbe una sorta di "esproprio" che ha colpito il suo patrimonio e non soltanto il reddito prodotto dal patrimonio stesso…” non persistono cause di illegittimità costituzionale. Prosegue, poi, la Corte: “…Quanto ai profili di incostituzionalità eccepiti in relazione alle modalità di attuazione del prelievo fiscale, il comma 7 dell’art. 11 della legge 413/1991, dispone che "Gli enti eroganti, all’atto della corresponsione delle somme di cui ai commi 5 e 6, comprese le somme per occupazione temporanea, risarcimento danni da occupazione acquisitiva, rivalutazione ed interessi, devono operare una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento. È facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, per la tassazione ordinaria, nel qual caso la ritenuta si considera effettuata a titolo di acconto". Quindi, il contribuente può scegliere tra la ritenuta "secca" del 20% operata sulla intera somma erogata, e la tassazione ordinaria, che determina l’ammontare dell’imposta dovuta tenendo conto della sola plusvalenza, unitamente alle altre componenti reddituali. La facoltà di scelta è lasciata esclusivamente al contribuente, che potrà utilizzarla in ragione della propria convenienza, senza che nulla possa eccepire l’amministrazione finanziaria.

Ne deriva che se il contribuente, come nella specie, non chiede di optare per la tassazione ordinaria, vuol dire che la tassazione "secca" realizza un prelievo fiscale inferiore a quello che risulterebbe rispettando il principio della tassazione in base alla capacità contributiva, invocato dal P. Con la ulteriore conseguenza che, se il prelievo fiscale attuato con il metodo della ritenuta "secca" (accettato dal contribuente) è al di sotto dell’ammontare del prelievo che risulterebbe dovuto tassando soltanto la plusvalenza, allora non si vede come si possa sostenere che il prelievo abbia "eroso" una parte del patrimonio. Evidentemente, il legislatore si accontenta di "un minimo garantito", piuttosto che pretendere la tassazione secondo le forme ordinarie, privilegiando la scelta della rapidità e della certezza del prelievo, piuttosto che pretendere "tutto quanto dovuto", a tutto beneficio del contribuente. Peraltro, la Corte Costituzionale ha già rilevato dimostrare la non configurabilità di fatto, di una plusvalenza da esproprio" (Corte Cost. Ord. 395/2002)”.

Per il calcolo della plusvalenza, si considera il prezzo sostenuto per l’acquisto del terreno e tutte le spese inerenti, quali la parcella notarile, l’imposta di registro e le imposte ipotecarie e catastali. Il valore iniziale del terreno, in linea con l’ormai invalso orientamento giurisprudenziale, deve essere, anche con riferimento ai terreni acquisiti per successione o donazione (Vgs. la sentenza della Corte Costituzionale, n. 328 del 9 luglio 2002), rivalutato in base alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.

Per quanto riguarda, invece, i terreni posseduti al 1° gennaio 2002, al 1° gennaio 2003 o al 1° gennaio 2006, rivalutati in base ad apposita perizia giurata di stima, previo pagamento dell’imposta sostitutiva, si considera il valore di perizia.

Il riferimento è alla procedura introdotta dall’art. 7 della Legge 28 dicembre 2001 n. 448, che consente di assumere “in luogo del costo di acquisto o del valore dei terreni edificabili e di quelli agricoli posseduti alla data del 1° gennaio 2002, il valore ad essi attribuito a tale data mediante una perizia giurata di stima, previo pagamento di un’imposta sostitutiva del 4 per cento”. L’importanza di questa norma si manifesta in tutti i casi in cui il costo di acquisto (o il valore assunto nella dichiarazione di successione o donazione) risulta di molto inferiore al valore attuale del terreno. Infatti, tanto maggiore risulta la differenza tra il costo di acquisto e il valore attuale, tanto più conveniente, in prospettiva di una futura cessione, sarà la rivalutazione concessa dalla Legge. Il termine per operare la detta rivalutazione, per i terreni posseduti al 1° luglio 2003, è stato prorogato al 30 giugno 2005, dalla legge n. 311 del 30 dicembre 2005 – Finanziaria 2005. Da ultimo, con l’art. 11 quaterdecies, comma 4, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è stato stabilito che la rideterminazione del valore di acquisto dei terreni edificabili e con destinazione agricola può essere effettuata per i (predetti) beni posseduti alla data del 1° gennaio 2005 e che la redazione ed il giuramento della perizia devono essere effettuati entro il 30 giugno 2006.

Pertanto, il contribuente che ritenga l’applicazione della ritenuta del 20% troppo onerosa rispetto alla normale tassazione IRPEF, ordinaria o separata, della sola plusvalenza, deve indicare nella dichiarazione dei redditi la plusvalenza, scorporando l’avvenuto prelievo a titolo di acconto. Nella dichiarazione dei redditi dovranno essere indicati (rigo F10 del Mod. 730/2005, ovvero quadro RM di UNICO/2005):

- l’ammontare della plusvalenza realizzata;

- la ritenuta subita (quella operata dal Comune).

Circa le modalità ed i termini di effettuazione della richiesta di rimborso, è utile rilevare che in base all’art. 37, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, sulla riscossione delle entrate erariali, il contribuente assoggettato a ritenuta diretta può ricorrere nei confronti dell’Ufficio Finanziario competente, chiedendo il rimborso, entro il termine di decadenza di 48 mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata, anche nel caso di “…..inesistenza totale o parziale dell’obbligazione tributaria”.

Avverso la decisione dell’Amministrazione finanziaria, ovvero trascorso il termine di 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che sia intervenuta alcuna decisione in merito, il contribuente può presentare ricorso alla Commissione Tributaria provinciale competente, fino a quando il diritto al rimborso, nei termini di cui all’art. 2946 del Codice Civile, non sia prescritto.

Sul punto, una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 18522 del 20 settembre 2005) nella quale è stato ribadito che la mancata presentazione dell’istanza di rimborso entro il termine di 48 mesi preclude la facoltà di ottenere la tutela innanzi al giudice e che la richiesta di documenti inoltrata al contribuente dall’Amministrazione, finalizzata a verificare la fondatezza del diritto al rimborso, non può essere considerata interruttiva del termine prescrizionale.

4. Conclusioni.

Come si è avuto modo di illustrare nel corso del presente lavoro, gli interventi normativi recati, sia dal D.P.R. n. 327 più volte citato, sia dalla legge Finanziaria per il 2006, non hanno contribuito a definire il complesso ed articolato quadro normativo che disciplina la materia. C’è da dire che tale occasione, invero, è stata mancata proprio con la recente legge n. 266 del 2005, dove, in particolar modo, al posto del comma 444 di cui si è discusso, avrebbe potuto trovare spazio una norma interpretativa di più ampia portata, la quale, certamente, poteva fare chiarezza su tutti gli aspetti di criticità segnalati.

Rimangono pertanto delle “zone d’ombra”, rimesse per ora alle valutazioni dell’interprete, che – si spera – vengano, al più presto, fatte oggetto di uno specifico intervento interpretativo al fine di impedire la formazione, innanzi agli organi di giustizia tributaria competenti, di un consistente contenzioso alimentato proprio dalle questioni ermeneutiche segnalate.