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Il nuovo processo cautelare

Il complesso (quanto improvviso) intervento operato dalla legge di conversione (l. 14 maggio 2005, n. 80) al decreto legge c.d. “sulla Competitività” (d.l. 14 marzo 2005, n. 35), nell’ambito della riforma del processo civile, ha particolarmente innovato anche il processo cautelare.

Gli articoli interessati dalla novella, per quanto riguarda il processo cautelare, sono sostanzialmente quattro:

1. l’art. 669-quinquies c.p.c.: relativamente alla competenza in pendenza di controversia arbitrale, ovvero di sussistenza di clausola compromissoria o di compromesso;

2. l’art. 669-octies c.p.c.: relativamente al provvedimento di accoglimento e, in particolare, delle conseguenze della mancata instaurazione della causa di merito;

3. l’art. 669-decies c.p.c.: sulla competenza relativamente alla revoca o alla modifica del provvedimento cautelare;

4. l’art. 669-terdecies c.p.c.: sul reclamo.

1. Sulla competenza cautelare in caso di arbitrato (art. 669-quinquies c.p.c.)

1.1. Con tre semplici parole il legislatore ha finalmente risolto una diatriba giurisprudenziale e dottrinale che durava ormai da anni.

Con l’operata riforma, infatti, è stata definitivamente sancita la competenza del giudice ordinario in materia cautelare anche in pendenza di arbitrato (o in concomitanza con clausole compromissorie o compromessi) di tipo irrituale (o libero, che dir si voglia).

Prima di questa novella, infatti, la mancanza di una specifica indicazione legislativa sulla competenza della giustizia ordinaria con riferimento ai provvedimenti cautelari (ancorché in pendenza di arbitrato) era limitata (o meglio formalmente limitata) all’arbitrato rituale.

L’art. 669-quinquies, infatti, non facendo alcuno specifico riferimento sul punto è sempre stato interpretato con riferimento al solo arbitrato rituale (proprio perché il codice di rito non conosce l’alternativa irrituale che – come si evince dal termine stesso – è frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale).

Il disinteresse del legislatore (fino ad oggi) per il “fratello illegittimo” dell’arbitrato codicistico, ha fatto sì che molti interpreti (e, soprattutto, la più diffusa giurisprudenza della Suprema Corte) abbiano drasticamente limitato l’operatività della norma in commento alla sola fattispecie “ordinaria”.

1.2. La Corte di Cassazione, pressoché in modo costante, ha sempre ravvisato nel compromesso per arbitrato libero o irrituale una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti relativi al rapporto controverso.

Ciò in quanto detto arbitrato si concreta in un atto negoziale compiuto, in sostituzione della volontà delle parti, dagli arbitri che, come mandatari di queste, non svolgono attività di giudici.

Tale rinuncia alla tutela giurisdizionale, secondo la prospettazione della Suprema Corte, non poteva non riferirsi anche alle misure cautelari. Invero, i provvedimenti emessi in via cautelare sono preordinati e sono strumentali, nel nostro sistema processuale, ad un giudizio di merito (salvo per quanto si vedrà in seguito con riferimento alle ulteriori novelle della riforma in commento); essi, quindi, presuppongono la possibilità di proposizione o la pendenza di un processo di merito relativo al diritto da tutelare.

Se detto giudizio non sia proponibile per una libera scelta delle parti, non vi è neppure spazio per l’emissione di un provvedimento che sia diretto ad assicurare gli effetti di un giudizio di merito non instaurabile (Cassazione civile, sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15524, in Giur. it. 2001, 1107; Cassazione civile, sez. I, 25 novembre 1995, n. 12225, in Giur. it. 1996, I,1, 897; Cassazione civile, sez. I, 29 gennaio 1993, n. 1142, in Riv. arbitrato 1994, 83).

1.3. Avverso questa posizione della giurisprudenza di Cassazione si era formato un consiste filone di merito (e dottrinale) che affermava l’esatto contrario.

Secondo quest’ultima posizione, infatti, la clausola compromissoria che preveda la devoluzione ad un collegio arbitrale di tipo irrituale, non preclude la possibilità, per gli interessati, di ricorrere al giudice ordinario, al fine di ottenere un provvedimento cautelare.

Tale soluzione, da ritenersi valida tanto nel caso di arbitrato rituale che irrituale, trae le sue basi dalla considerazione che le parti non effettuano, con detta clausola, una rinuncia alla tutela giurisdizionale, in presenza della quale si creerebbe un “pericoloso vuoto di giustizia”. La rinuncia alla giurisdizione insita nella sottoscrizione di una clausola compromissoria per arbitrato libero è limitata al giudizio di merito e non può investire anche la tutela cautelare (Tribunale Rimini, 8 settembre 2003, in Dir. e prat. soc. 2003, f. 24, 79; Tribunale Lanciano, 29 novembre 2001, in Giur. Merito 2002, 340; Tribunale Catania, 16 ottobre 2001, in Società 2002, 63; Tribunale Torino, 21 maggio 2001, in Riv. Arbitrato 2002, 85; Tribunale Roma, 7 agosto 1997, in Giur. it. 1998, 2070).

Anche la dottrina si è sempre prevalentemente uniformata a questa posizione delle corti di merito (ARIETA, Riv. dir. priv. 1993, 758; SASSANI, Riv. arb. 1996, 709; CASELLA, Riv. dir. priv. 1995, 1028; MONTESANO, Riv. dir. proc. 1991; CECCHELLA, Il processo cautelare, Commentario, Torino 1997).

Non è mancata infine anche una pronuncia della Corte Costituzionale (Corte Costituzionale, 5 luglio 2002, n. 320, in Riv. Arbitrato 2002, 503) che, tuttavia, dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che la questione era meramente interpretativa, e pur prendendo atto delle diverse posizioni sopra richiamante, non ha voluto assumere una posizione a riguardo (come in altre occasioni ha avuto modo di fare con sentenze interpretative di rigetto).

1.4. Il legislatore, peraltro fin dai lavori preparatori, ha manifestato subito la propensione per la posizione più estensiva delle Corti di merito.

Già infatti la posizione della “Commissione di studio per la predisposizione di uno schema di disegno di legge per la riforma del processo civile”, istituita con d.l. 23.11.01 e presieduta dal prof. Romano Vaccarella, si è espressa in favore di tale interpretazione.

La Commissione Vaccarella infatti nella propria relazione conclusiva (15 luglio 2002) ha dichiarato: “merita un autonomo richiamo la proposta di una norma di chiusura a soluzione della cruciale questione del c.d. arbitrato irrituale, fonte perpetua di equivoci e problemi pratici e sistematici. Si è ritenuto in proposito necessario stabilire la applicabilità della disciplina normativa a tutti gli arbitrati (senza distinzione di “natura”). Si è voluto, in altre parole, impedire che il problema della disciplina applicabile sia condizionato dalle formule adoperate dalle parti o dalle classificazioni operate dagli interpreti”.

Il novellato art. 669-quinquies c.p.c., quindi, con l’introduzione delle parole “anche non rituali” ha definitivamente risolto questa annosa questione, riconoscendo finalmente che con la devoluzione agli arbitri irrituali non può ritenersi implicita la rinuncia alla giurisdizione ordinaria anche per le pronunce cautelari che, per mancanza di poteri coercitivi degli arbitri, non potrebbero essere altrimenti emanate.

2. Il tramonto della strumentalità necessaria

2.1. Sebbene i primi cinque commi dell’art. 669-octies c.p.c. siano rimasti sostanzialmente immutati, salvo per l’estensione del termine massimo (o comunque legale, in mancanza di determinazione giudiziale) per iniziare la causa di merito (da 30 a 60 giorni), sono stati introdotti tre nuovi commi che ne hanno radicalmente mutato la portata.

Ai sensi del sesto e settimo comma del novellato art. 669-octies c.p.c., infatti, può dirsi tramontato il caposaldo del principio di strumentalità del processo cautelare rispetto al giudizio di merito.

Per essere più precisi, si dovrebbe dire che è venuta meno la necessaria strumentalità del processo cautelare, mantenendo tale effetto in via meramente eventuale.

Il sesto comma dell’art. 669-octies c.p.c., infatti, costituisce una deroga ai primi commi (deroga talmente ampia da sfiorare la contraddizione con quanto sancito dalla prima parte dell’articolo), per cui l’inizio del giudizio di merito viene degradato a mera facoltà delle parti e non più onere del ricorrente vittorioso, in tutti i casi in cui i provvedimenti cautelari emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. o comunque previsti dal codice civili o dalle leggi speciali (oltre alla denunzia di nuova opera o di danno temuto) anticipino gli effetti del giudizio di merito.

2.2. Si pone quindi, in primo luogo, il problema di identificare l’ambito di applicazione di questa importante deroga (che è già stata conosciuta con la disciplina del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, limitatamente al processo societario).

I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. sono facilmente individuabili: proprio perché atipici e residuali non sono altro che tutti i provvedimenti cautelari con cui potrebbe sbizzarrirsi la fantasia del giudice, in assenza di altri provvedimenti tipici adottabili.

Più complessa, al contrario, la qualificazione dei provvedimenti cautelari tipici aventi natura anticipatoria.

Per comprendere la portata di questa definizione, dobbiamo rimetterci alle interpretazioni già espresse sul nuovo processo cautelare societario, che (come anticipato) è stato il precursore di questa nuova disciplina processual - civilistica.

Nell’ambito di tale definizione, infatti, sono state espresse diverse interpretazioni, che spaziando dalla più rigida (provvedimenti totalmente anticipatori del giudizio finale; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario (note a prima lettura), in Foro it., 2003, V, c. 14 s.) alla più libera (per cui è anticipatorio qualunque provvedimento che garantisca gli “effetti” finali del giudizio di merito; Saletti, in Sassani (a cura di), La riforma delle società. Il processo, Torino, 2003, p. 222 ss.; Olivieri, La tutela cautelare ante causam e in corso di causa nella riforma del processo societario, saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it), passano per tesi intermedie per cui i provvedimenti anticipatori dovrebbero “anticipare” non tutto il giudizio finale, ma solo (rectius quantomeno) uno o più effetti di questo (Arieta-De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, p. 381 ss.; Fabiani, Il rito cautelare societario: contraddizioni e dubbi irrisolti, saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it).

Gli autori che hanno scritto sul nuovo processo societario, ed in particolare gli autori che hanno sostenuto l’interpretazione più estensiva, ad esempio, si sono soffermati sulla misura cautelare della sospensiva della delibera assembleare.

Evidentemente tale misura non può ritenersi interamente (e direi anche parzialmente) anticipatoria della sentenza finale, tuttavia ne preserva decisamente gli effetti (si pensi ad esempio alla sospensione della delibera di esclusione del socio, se si accede alla tesi che la sentenza di merito non può ordinare la reintegrazione del socio ma solo la liquidazione della sua quota ed il risarcimento dei danni).

Di certo, si possono escludere i provvedimenti di sequestro (ancorché anch’essi, secondo questa tesi estensiva, avrebbero lo scopo di garantire gli “effetti finali” del giudizio di merito) e i provvedimenti cautelari in materia di proprietà industriale quali i provvedimenti di descrizione di marchi e brevetti (che hanno natura di istruzione preventiva).

In ogni caso, quali che siano i provvedimenti esclusi (perché non anticipatori) non si comprende il motivo di introdurre questa deroga proprio per i provvedimenti anticipatori vista la necessaria strumentalità di questi con il giudizio di merito.

Se infatti ne anticipano gli effetti, quale motivo di sussistenza dovrebbero avere questi provvedimenti se non in diretta connessione (rectius strumentalità) con il giudizio finale?

Ad ogni buon conto, per chi scrive, se di provvedimenti anticipatori si deve parlare, non si possono comprendere tutti i provvedimenti che possano (anche latamente) preservare gli effetti dell’eventuale giudizio di merito, perché tale caratteristica è propria di qualunque provvedimento cautelare.

Fintanto quindi che il legislatore non vorrà mettere mano a questa riforma, meglio chiarendo (con interpretazione autentica) la portata della norma, ritengo più coerente limitare la deroga (alla strumentalità necessaria) a quei provvedimenti che più propriamente anticipano il giudizio finale (ancorché non interamente – si pensi ad un’inibitoria a compiere un determinato atto, cui nel giudizio di merito potrebbe seguire anche una condanna al risarcimento dei danni).

2.3. Anche la generica estensione a tutti i provvedimenti d’urgenza (in aggiunta ai provvedimenti anticipatori del giudizio finale) non è esente da critiche.

La distinzione appare, infatti, superflua posto che se il cuore della distinzione si identifica nella diversificazione tra le misure anticipatorie rispetto a quelle conservative non si comprende per quale motivo sia necessario distinguere ulteriormente tra i provvedimenti tipici e quelli atipici, come se questi ultimi (nella misura in cui avessero natura conservativa) potessero beneficiare della medesima estensione, in contrasto con il principio enunciato sui provvedimenti conservativi tipici.

A causa di questa inopportuna distinzione (già formulata nel processo societario), quindi, si sono formate (anche su questo aspetto) diverse correnti di pensiero.

Esistono infatti autori (Saletti, op. cit., p. 223) che sostengono che il nuovo regime di stabilità della misura cautelare si possa applicare solo ai provvedimenti atipici che abbiano natura anticipatoria e autori (Romano, Riflessioni sui provvedimenti cautelari nel nuovo processo societario, in Riv. dir. proc., 2004, p. 1173) che, al contrario, ritengono che tale interpretazione alteri il contenuto della norma, che molto chiaramente intende estendere questo regime a tutti i provvedimenti atipici, senza distinzioni di sorta.

Secondo altri autori (Buoncristiani, Tutela cautelare ante causam nel nuovo rito societario. Assenza di strumentalità necessaria. Saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it), ancora, non si dovrebbe nemmeno distinguere tra tutela conservativa e tutela anticipatoria, perché si possono ipotizzare diverse forme di tutela cautelare che non sono né di tipo anticipatorio né conservativo, bensì di contemperamento degli opposti interessi, ponendo limiti o correttivi all’esercizio della situazione giuridica oggetto di contenzioso ossia regolamentando in via provvisoria la situazione contesa (purché nell’ambito dei diritti disponibili).

Secondo quest’ultima tesi, quindi, ferma l’esclusione delle misure cautelari conservative tipiche, il nuovo regime cautelare può essere esteso sia ai provvedimenti tipici di carattere anticipatorio sia ai provvedimenti atipici non conservativi, con la precisazione che la discrezionalità del giudice (nell’ambito dei provvedimenti atipici e con il limite dei diritti disponibili) è quanto più ampia possibile, potendo ben sconfinare oltre alla mera anticipatorietà del provvedimento; si parla, ad esempio, di provvedimenti assicuratori, ma non contenutisticamente anticipatori (Consolo, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corr. giur. 2003, p. 1518 s.s.).

Quest’ultima interpretazione sembra, invero, la più coerente (avuto riguardo allo scopo della norma); i provvedimenti atipici, quindi, ancorché non specificatamente anticipatori, si devono quindi ritenere tutti compresi nella disposizione.

2.4. Passando ora ad analizzare la portata più innovativa della riforma in commento, si coglie subito, fin dalla prima lettura della norma, che il principio di strumentalità, tipico del processo cautelare, risulta profondamente mutato.

Il provvedimento cautelare nasce storicamente con lo scopo di anticipare il giudizio finale per evitare il pericolo che nelle more di esso la parte vittoriosa possa rimanere comunque pregiudicata; i provvedimenti cautelari sono connotati infatti da una “strumentalità qualificata, ossia elevata, per così dire, al quadrato: essi sono infatti, immancabilmente, un mezzo predisposto per la miglior riuscita del provvedimento definitivo, che a sua volta è un mezzo per l’attuazione del diritto; sono cioè, in relazione alla finalità ultima della funzione giurisdizionale, strumenti dello strumento” (Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, in Opere giuridiche, IX, Napoli, 1983, p. 176).

La strumentalità costituisce (rectius costituiva) la causa propria della sommarietà; mentre infatti i procedimenti ingiuntivi (anch’essi connotati da cognizione sommaria) hanno la loro ragion d’essere (e quindi si giustificano) in forza della natura esecutiva e comunque della cognizione piena che può essere successivamente (ed eventualmente) instaurata con il giudizio di opposizione, i procedimenti cautelari giustificano la propria sommarietà in forza della connessione strumentale con il giudizio di merito.

La “strumentalità serve quindi a colorare la provvisorietà del provvedimento cautelare, distinguendola dalla provvisorietà del provvedimento sommario-esecutivo: il provvedimento cautelare è provvisorio nel fine, essendo destinato ad esaurirsi quando verrà emanata la decisione di merito (sia che riconosca l’esistenza ovvero l’inesistenza del diritto controverso) ovvero quando è diventata impossibile l’emanazione della decisione di merito (per mancato inizio del giudizio di merito nel termine fissato ovvero per estinzione del giudizio di merito); il provvedimento sommario-esecutivo è invece provvisorio nella formazione (essendo preso a seguito di cognizione sommaria), ma definitivo nello scopo.

È per questo che il provvedimento cautelare a differenza del provvedimento sommario-esecutivo non si pone in rapporto con il giudizio di merito in termini di convalida: nel giudizio di merito non si accerterà l’esistenza del periculum in mora e il provvedimento principale o definitivo, se di riconoscimento dell’esistenza del diritto controverso cautelato, non fa altro che esaurire lo scopo o funzione del provvedimento cautelare, che, quindi, non viene convalidato, ma perde efficacia, avendo raggiunto il suo fine; al contrario, il giudizio di merito, se riconosce esistente il diritto controverso, convaliderà, a seguito di cognizione piena, il provvedimento sommario di accertamento” (Buoncristiani, op. cit).

Il venir meno quindi della strumentalità necessaria del provvedimento cautelare rischia di privare di giustificazione causale la stessa ragion d’essere del provvedimento stesso, sia sotto il profilo del periculum in mora che del fumus boni iuris.

In fin dei conti, per quanto riguarda il primo aspetto (periculum in mora), lo dice la parola stessa allorché impone il presupposto che nelle “more” (del provvedimento finale) possa essere emesso il provvedimento cautelare; se il provvedimento finale non è più necessario e la mancata instaurazione del giudizio di merito non costituisce più una causa di decadenza, non si comprende che cosa dovrebbe preservare il provvedimento cautelare nelle more, posto che le more stesse diverrebbero la situazione definitiva (a cui non seguirebbe il giudizio di merito).

Ma la strumentalità necessaria non è solo legata al presupposto del periculum in mora perché anche rispetto al fumus boni iuris è costituito (rectius era costituito) un vincolo di strumentalità.

L’indicazione nel ricorso cautelare del diritto controverso e del tipo di domanda (petitum) che si sarebbe inteso promuovere nel giudizio di merito, costituisce (o, ancora, costituiva) un elemento essenziale della domanda, a pena di nullità e/o inammissibilità (Tribunale Verona, 18 agosto 2003, Giur. merito 2004, 1140; Tribunale Napoli, 30 aprile 1997, Giur. merito 1998, 674; Pretura Vallo Lucania, 19 marzo 1997, Giur. merito 1998, 674; Pretura Monza, 3 febbraio 1993, Foro it. 1993, I, 1693).

L’assenza di strumentalità necessaria, quindi, dovrebbe esaurire anche questo requisito, giacché non avrebbe più giustificazione logico-sistematica imporre un presupposto connesso ad un procedimento (il giudizio di merito) la cui instaurazione non è più obbligatoria.

In verità, sul tema, la giurisprudenza che di recente si è già occupata del nuovo rito societario (che, come già segnalato, ha introdotto per primo la novità dell’assenza di strumentalità necessaria dei procedimenti cautelari) ha già dato risposta negativa a questa tesi.

Infatti “Anche successivamente all’entrata in vigore dell’art. 23 d.lg. n. 17 del 2003, l’istanza cautelare "ante causam", deve contenere tutti gli elementi richiesti dall’art. 125 c.p.c., il quale è sicuramente applicabile quale norma generale anche in virtù del richiamo operato dal comma 7 dell’art. 23 d.lg. n. 17 del 2003. La domanda cautelare ex art. 23 d.lg. n. 17 del 2003 deve, pertanto, contenere l’esatta indicazione dell’azione di merito in vista della quale è proposto il cautelare o almeno consentirne l’individuazione in modo certo e alla mancata indicazione della domanda di merito consegue la declaratoria di nullità ex art. 156 comma 2 c.p.c. poiché il ricorso non può raggiungere la scopo che gli è proprio.” (Tribunale Rovereto, 14 giugno 2004, Giur. merito 2004, 2481).

2.4. Al principio, quindi, della strumentalità necessaria, viene a sostituirsi il nuovo principio della strumentalità ipotetica, che richiede comunque la connessione strumentale con il giudizio di merito (e la necessaria indicazione del petitum meritale ne costituisce la prova) senza tuttavia che quest’ultimo sia elevato al rango di requisito di “persistenza” dell’efficacia del provvedimento provvisorio.

La tutela cautelare è comunque funzionale al diritto controverso, ancorché non necessariamente strumentale al giudizio meritale; “Il provvedimento cautelare nasce non in attesa del provvedimento di merito, ma pur sempre in funzione del diritto controverso” (Buoncristiani, op. cit.).

3. Sulla revoca o modifica del provvedimento cautelare e sulla competenza per la revoca o la modifica

3.1. La novella dell’art. 669-decies c.p.c. ha chiarito due aspetti non del tutto espliciti nella precedente formulazione della norma:

- ha specificato la competenza sulla modifica e sulla revoca del provvedimento cautelare;

- ha esplicato i motivi di revoca o modifica del provvedimento cautelare.

3.2. Per quanto riguarda la competenza per l’emissione di un’ordinanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare è ormai chiarito che il giudice istruttore della causa di merito, ancorché il provvedimento sia emesso ante causam, sia l’unica autorità giudiziaria competente a modificare o privare di effetti il provvedimento precedentemente emesso (anche, quindi, se per decisione di un altro giudice).

La regola trova la sua naturale eccezione nell’ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia oggetto di reclamo.

In questo caso, essendo già investito della decisione sulla riforma del provvedimento un altro organo giurisdizionale (il collegio o un’altra sezione della Corte d’Appello), la permanenza di tale competenza in capo al giudice di merito potrebbe cagionare un conflitto di giudicato.

In verità, a giudizio dello scrivente, si è persa l’occasione di definire un ulteriore chiarimento sulla competenza del giudice del reclamo.

 

Infatti, ancorché sia stata definita l’esclusiva competenza del collegio (o di un’altra sezione della Corte d’Appello, investita del reclamo) anche sulla modifica/revoca del provvedimento cautelare in presenza di circostanze nuove ovvero (come esamineremmo successivamente) in presenza di fatti anteriore successivamente conosciuti, tuttavia non è stato chiarito se, in ipotesi di rigetto dell’istanza di modifica o revoca, sia competente a decidere su un’ulteriore istanza l’organo giudiziario investito del reclamo ovvero, di nuovo, il giudice istruttore (a cui potrebbe essere riproposta l’istanza).

Attualmente, la posizione della giurisprudenza sembra prevalentemente assestata sulla competenza del giudice del reclamo (Tribunale S.Angelo Lombardi, 5 marzo 2002, Giur. merito 2002, 936; Tribunale Lucca, 13 ottobre 1999, Giur. it. 2000, 1855; Tribunale Padova, 12 novembre 1998, Giur. it. 2000, 87; Tribunale Milano, 20 giugno 1997, Giur. it. 1998, 1625; Tribunale S.Maria Capua V., 5 novembre 1996, Foro it. 1997, I,1634; Tribunale Roma, 27 giugno 1995, Foro it. 1996, I,1086).

Non mancano, tuttavia, opinioni contrarie (Tribunale Milano, 29 agosto 2002, Giur. it. 2003, 2087; Tribunale Palermo, 4 luglio 1997, Giur. merito 1999, 795; Tribunale Roma, 26 maggio 1995, Foro it. 1996, I,1091: Tribunale Torino, 29 marzo 1995, Giur. it. 1995, I,2, 907; Tribunale Milano, 16 gennaio 1995, Vita not. 1996, 1220), che il legislatore in quest’occasione avrebbe potuto opportunamente confermare o confutare (chiarendo definitivamente anche questo aspetto).

3.3. Anche i presupposti per la pronuncia di un’ordinanza modificativa o estintiva hanno trovato una maggiore esplicazione nella recente novella.

Oltre quindi al criterio dei “mutamenti nelle circostanze” è ora codicisticamente ammessa la modifica o revoca del provvedimento cautelare qualora vengano allegati anche fatti anteriori.

La norma, tuttavia, nel facoltizzare l’istanza di modifica/revoca sul presupposto anche di fatti anteriori, tuttavia, impone un importante onere probatorio, richiedendo che sia certa la successiva conoscenza di tali fatti precedenti da parte dell’istante.

Anche su questo aspetto, sembra allo scrivente che il legislatore abbia mancato un’altra occasione di chiarimento.

In base alla precedente formulazione (che comunque faceva uso del termine “mutamenti nelle circostanze”) si sono diffuse due tesi sulla portata di questi c.d. “mutamenti” che, a seconda dell’opinione esaminata, può essere più o meno ampia.

La tesi più rigida, infatti, è quella secondo la quale l’espressione “mutamenti nelle circostanze” debba ritenersi limitata alle sole circostanze extra processuali, estranee quindi alle vicende relative alla causa di merito (Tribunale Trani, 22 gennaio 1996, Foro it. 1996, I, 2540; Tribunale Parma, 13 giugno 1994 e Tribunale Parma, 4 marzo 1995, Giur. it. 1995, I, 2, 489; Tribunale Bari, 15 febbraio 1993, Foro it. 1993, 952).

Secondo la tesi più estensiva, invece, i c.d. “mutamenti” devono ritenersi riferibili a qualsivoglia circostanza idonea ad incidere sulla perdurante legittimità della misura cautelare, ivi comprese quindi anche le nuove prove o le nuove acquisizioni del processo di merito (Tribunale Roma, 23 ottobre 1996, Foro Padano 1997, I, 138; Tribunale Firenze, 15 maggio 1995, Foro it. 1996, I, 1097; Tribunale Parma, 13 giugno 1994, Giur. It. 1995, I, 2, 488; Tribunale Udine 14 dicembre 1994, Foro It. 1995, I, 2295; Tribunale Foggia, 12 luglio 1993, Foro It. 1993, I, 2983).

La tesi più restrittiva sembrerebbe la più coerente dal momento che, oltre al potere di modifica, il ricorrente/resistente ha anche la facoltà di impugnazione (attraverso il mezzo del reclamo), lasciando quindi al soggetto soccombente ogni più ampia facoltà di difesa, senza la necessità che la possibilità di modificare/revocare il provvedimento cautelare debba essere ulteriormente ampliata.

Il legislatore, quindi, avrebbe potuto opportunamente chiarire anche questo aspetto, che trova ancora molteplici contrasti in giurisprudenza.

4. Sul reclamo

4.1. Seguendo l’intento chiarificatore già dimostrato nelle precedenti modifiche, il legislatore ha codificato quella che oramai era già un’assunzione incontestabile ossia la facoltà di impugnare (e quindi proporre reclamo avverso) anche le pronunce negative.

Sebbene, infatti, il tenore letterale della precedente formulazione dell’art. 669-terdecies c.p.c. non sembrasse dare adito a dubbi (il reclamo infatti era testualmente concesso solo contro l’ordinanza con cui era stato “concesso un provvedimento cautelare”), la possibilità di impugnare le pronunce negative era già stata oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali.

Se una certa parte della giurisprudenza non manifestava dubbi su tale facoltà (Tribunale Padova, 24 giugno 1993 e Tribunale Milano, 15 aprile 1993, entrambi Giur. it. 1994, I, 2, 484), esisteva invero un filone del tutto contrario a tale possibilità (Tribunale Bologna, 21 luglio 1993, Giur. it. 1993, I, 2, 713; Tribunale Verona 28 gennaio 1994, Giur. it. 1994 I, 2, 485), sul presupposto che la norma non lasciasse spazio ad interpretazioni estensive.

La questione è stata infine oggetto di sindacato di legittimità costituzionale che ne ha definitivamente chiarito la portata.

Con la sentenza della Corte Costituzionale del 23 giugno 1994, n. 253 (in Giur. it. 1994, I, 409) è stato dichiarato incostituzionalmente illegittimo l’art. 669-terdecies c.p.c. nella parte in cui non ammette il reclamo anche avverso l’ordinanza di rigetto della domanda cautelare.

Secondo la Corte Costituzionale, infatti, la vecchia formulazione dell’art. 669-terdecies c.p.c. (introdotto dall’art. 74 l. 26 novembre 1990 n. 353) era costituzionalmente illegittima, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui limitava la possibilità di reclamo ai soli provvedimenti concessivi di tutela cautelare e non anche ai provvedimenti che rigettassero la domanda volta ad ottenere tale tutela (domanda che si sarebbe potuta riproporre – in tal caso - avanti allo stesso giudice nella sola ipotesi di mutamento delle circostanze), poiché ciò determinava una ingiustificata disparità di trattamento ed una limitazione del diritto di difesa della parte ricorrente rimasta soccombente, rispetto alla parte resistente, alla quale era invece già consentita espressamente tale facoltà di reclamo.

Dando quindi esecuzione alla pronuncia della Corte Costituzionale, il legislatore ha modificato la norma e ha espressamente introdotto tale previsione che prevede, appunto, la facoltà del ricorrente-soccombente di impugnare la decisione di rigetto.

4.2. Il novellato art. 669-terdecies c.p.c., inoltre, ha esteso il termine per proporre reclamo a quindici giorni (dai precedenti dieci) e, uniformemente all’art. 669-decies c.p.c., ha disposto che la fase del reclamo rappresenti il momento processuale ultimo dove proporre le circostanze o i motivi sopravvenuti rispetto alla decisione del giudice monocratico ma precedentemente alla decisione del collegio (ovvero della sezione della Corte d’Appello investita del reclamo).

Ritornando quindi ai motivi sopravvenuti, la riforma ha stabilito i seguenti criteri:

- è ammessa la modifica o revoca del provvedimento cautelare per mutamenti nelle circostanze che siano intervenuti dopo la pronuncia del giudice monocratico (o della Corte d’Appello, purché non sia pendente il reclamo) ovvero che siano intervenuti prima ma vi sia la prova della conoscenza successiva;

- laddove sia pendente il reclamo le circostanze e i motivi sopravvenuti devono (a pena di decadenza) essere proposti dinanzi al giudice del reclamo.

Sebbene il legislatore abbia utilizzato espressioni letterali differenti all’art. 669-decies c.p.c. (dove si usano i termini “mutamenti nelle circostanze” e “fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare”) rispetto all’art. 669-terdecies c.p.c. (dove si parla, invece, solo di “circostanze e motivi sopravvenuti”) non vi sono, in realtà, motivi per ritenere che si voglia far riferimento ad ipotesi distinte.

Sembra, infatti, più coerente affermare che, nonostante il diverso tenore lessicale, il legislatore abbia voluto coordinare le due norme, chiarendo ulteriormente quali siano gli “sbarramenti processuali” del nuovo processo cautelare.

Circostanze, fatti, motivi sopravvenuti o la cui conoscenza sia sopravvenuta, pertanto, dovrebbero far riferimento ad un unico complessivo criterio che permetta, purché già non intervenuta la decadenza del reclamo, la facoltà di richiedere la modifica o la revoca del provvedimento cautelare.

5. Conclusioni

Concludendo, quindi, questa prima analisi del nuovo processo cautelare, si devono pertanto sollevare i sopra espressi dubbi sull’intervento del legislatore, pur plaudendo allo sforzo chiarificatore, operato (anche se parzialmente) rispetto alla previgente giurisprudenza e dottrina in materia.

Forse la fretta di innovare una disciplina che, seppur ancora non troppo datata, aveva implicato la necessità di numerosi correttivi extralegislativi per la sua applicazione, è stata l’origine di una produzione normativa non proprio coerente e chiara.

L’abrogazione della strumentalità necessaria del provvedimento cautelare e, quel che è peggio, la poca chiarezza sulla distinzione tra provvedimenti ancora subordinati a questo principio e provvedimenti che non lo sono è, forse, la maggior pecca di questa novella.

Confidando che il legislatore riprenda in mano l’opera per correggere e chiarire i passaggi ancora criptici di questa disciplina, si auspica infine che si colga l’occasione per risolvere anche quelle piccole questioni giurisprudenziali (ancora residue rispetto alla previgente disciplina) sopra richiamate.

Il complesso (quanto improvviso) intervento operato dalla legge di conversione (l. 14 maggio 2005, n. 80) al decreto legge c.d. “sulla Competitività” (d.l. 14 marzo 2005, n. 35), nell’ambito della riforma del processo civile, ha particolarmente innovato anche il processo cautelare.

Gli articoli interessati dalla novella, per quanto riguarda il processo cautelare, sono sostanzialmente quattro:

1. l’art. 669-quinquies c.p.c.: relativamente alla competenza in pendenza di controversia arbitrale, ovvero di sussistenza di clausola compromissoria o di compromesso;

2. l’art. 669-octies c.p.c.: relativamente al provvedimento di accoglimento e, in particolare, delle conseguenze della mancata instaurazione della causa di merito;

3. l’art. 669-decies c.p.c.: sulla competenza relativamente alla revoca o alla modifica del provvedimento cautelare;

4. l’art. 669-terdecies c.p.c.: sul reclamo.

1. Sulla competenza cautelare in caso di arbitrato (art. 669-quinquies c.p.c.)

1.1. Con tre semplici parole il legislatore ha finalmente risolto una diatriba giurisprudenziale e dottrinale che durava ormai da anni.

Con l’operata riforma, infatti, è stata definitivamente sancita la competenza del giudice ordinario in materia cautelare anche in pendenza di arbitrato (o in concomitanza con clausole compromissorie o compromessi) di tipo irrituale (o libero, che dir si voglia).

Prima di questa novella, infatti, la mancanza di una specifica indicazione legislativa sulla competenza della giustizia ordinaria con riferimento ai provvedimenti cautelari (ancorché in pendenza di arbitrato) era limitata (o meglio formalmente limitata) all’arbitrato rituale.

L’art. 669-quinquies, infatti, non facendo alcuno specifico riferimento sul punto è sempre stato interpretato con riferimento al solo arbitrato rituale (proprio perché il codice di rito non conosce l’alternativa irrituale che – come si evince dal termine stesso – è frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale).

Il disinteresse del legislatore (fino ad oggi) per il “fratello illegittimo” dell’arbitrato codicistico, ha fatto sì che molti interpreti (e, soprattutto, la più diffusa giurisprudenza della Suprema Corte) abbiano drasticamente limitato l’operatività della norma in commento alla sola fattispecie “ordinaria”.

1.2. La Corte di Cassazione, pressoché in modo costante, ha sempre ravvisato nel compromesso per arbitrato libero o irrituale una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti relativi al rapporto controverso.

Ciò in quanto detto arbitrato si concreta in un atto negoziale compiuto, in sostituzione della volontà delle parti, dagli arbitri che, come mandatari di queste, non svolgono attività di giudici.

Tale rinuncia alla tutela giurisdizionale, secondo la prospettazione della Suprema Corte, non poteva non riferirsi anche alle misure cautelari. Invero, i provvedimenti emessi in via cautelare sono preordinati e sono strumentali, nel nostro sistema processuale, ad un giudizio di merito (salvo per quanto si vedrà in seguito con riferimento alle ulteriori novelle della riforma in commento); essi, quindi, presuppongono la possibilità di proposizione o la pendenza di un processo di merito relativo al diritto da tutelare.

Se detto giudizio non sia proponibile per una libera scelta delle parti, non vi è neppure spazio per l’emissione di un provvedimento che sia diretto ad assicurare gli effetti di un giudizio di merito non instaurabile (Cassazione civile, sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15524, in Giur. it. 2001, 1107; Cassazione civile, sez. I, 25 novembre 1995, n. 12225, in Giur. it. 1996, I,1, 897; Cassazione civile, sez. I, 29 gennaio 1993, n. 1142, in Riv. arbitrato 1994, 83).

1.3. Avverso questa posizione della giurisprudenza di Cassazione si era formato un consiste filone di merito (e dottrinale) che affermava l’esatto contrario.

Secondo quest’ultima posizione, infatti, la clausola compromissoria che preveda la devoluzione ad un collegio arbitrale di tipo irrituale, non preclude la possibilità, per gli interessati, di ricorrere al giudice ordinario, al fine di ottenere un provvedimento cautelare.

Tale soluzione, da ritenersi valida tanto nel caso di arbitrato rituale che irrituale, trae le sue basi dalla considerazione che le parti non effettuano, con detta clausola, una rinuncia alla tutela giurisdizionale, in presenza della quale si creerebbe un “pericoloso vuoto di giustizia”. La rinuncia alla giurisdizione insita nella sottoscrizione di una clausola compromissoria per arbitrato libero è limitata al giudizio di merito e non può investire anche la tutela cautelare (Tribunale Rimini, 8 settembre 2003, in Dir. e prat. soc. 2003, f. 24, 79; Tribunale Lanciano, 29 novembre 2001, in Giur. Merito 2002, 340; Tribunale Catania, 16 ottobre 2001, in Società 2002, 63; Tribunale Torino, 21 maggio 2001, in Riv. Arbitrato 2002, 85; Tribunale Roma, 7 agosto 1997, in Giur. it. 1998, 2070).

Anche la dottrina si è sempre prevalentemente uniformata a questa posizione delle corti di merito (ARIETA, Riv. dir. priv. 1993, 758; SASSANI, Riv. arb. 1996, 709; CASELLA, Riv. dir. priv. 1995, 1028; MONTESANO, Riv. dir. proc. 1991; CECCHELLA, Il processo cautelare, Commentario, Torino 1997).

Non è mancata infine anche una pronuncia della Corte Costituzionale (Corte Costituzionale, 5 luglio 2002, n. 320, in Riv. Arbitrato 2002, 503) che, tuttavia, dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che la questione era meramente interpretativa, e pur prendendo atto delle diverse posizioni sopra richiamante, non ha voluto assumere una posizione a riguardo (come in altre occasioni ha avuto modo di fare con sentenze interpretative di rigetto).

1.4. Il legislatore, peraltro fin dai lavori preparatori, ha manifestato subito la propensione per la posizione più estensiva delle Corti di merito.

Già infatti la posizione della “Commissione di studio per la predisposizione di uno schema di disegno di legge per la riforma del processo civile”, istituita con d.l. 23.11.01 e presieduta dal prof. Romano Vaccarella, si è espressa in favore di tale interpretazione.

La Commissione Vaccarella infatti nella propria relazione conclusiva (15 luglio 2002) ha dichiarato: “merita un autonomo richiamo la proposta di una norma di chiusura a soluzione della cruciale questione del c.d. arbitrato irrituale, fonte perpetua di equivoci e problemi pratici e sistematici. Si è ritenuto in proposito necessario stabilire la applicabilità della disciplina normativa a tutti gli arbitrati (senza distinzione di “natura”). Si è voluto, in altre parole, impedire che il problema della disciplina applicabile sia condizionato dalle formule adoperate dalle parti o dalle classificazioni operate dagli interpreti”.

Il novellato art. 669-quinquies c.p.c., quindi, con l’introduzione delle parole “anche non rituali” ha definitivamente risolto questa annosa questione, riconoscendo finalmente che con la devoluzione agli arbitri irrituali non può ritenersi implicita la rinuncia alla giurisdizione ordinaria anche per le pronunce cautelari che, per mancanza di poteri coercitivi degli arbitri, non potrebbero essere altrimenti emanate.

2. Il tramonto della strumentalità necessaria

2.1. Sebbene i primi cinque commi dell’art. 669-octies c.p.c. siano rimasti sostanzialmente immutati, salvo per l’estensione del termine massimo (o comunque legale, in mancanza di determinazione giudiziale) per iniziare la causa di merito (da 30 a 60 giorni), sono stati introdotti tre nuovi commi che ne hanno radicalmente mutato la portata.

Ai sensi del sesto e settimo comma del novellato art. 669-octies c.p.c., infatti, può dirsi tramontato il caposaldo del principio di strumentalità del processo cautelare rispetto al giudizio di merito.

Per essere più precisi, si dovrebbe dire che è venuta meno la necessaria strumentalità del processo cautelare, mantenendo tale effetto in via meramente eventuale.

Il sesto comma dell’art. 669-octies c.p.c., infatti, costituisce una deroga ai primi commi (deroga talmente ampia da sfiorare la contraddizione con quanto sancito dalla prima parte dell’articolo), per cui l’inizio del giudizio di merito viene degradato a mera facoltà delle parti e non più onere del ricorrente vittorioso, in tutti i casi in cui i provvedimenti cautelari emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. o comunque previsti dal codice civili o dalle leggi speciali (oltre alla denunzia di nuova opera o di danno temuto) anticipino gli effetti del giudizio di merito.

2.2. Si pone quindi, in primo luogo, il problema di identificare l’ambito di applicazione di questa importante deroga (che è già stata conosciuta con la disciplina del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, limitatamente al processo societario).

I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. sono facilmente individuabili: proprio perché atipici e residuali non sono altro che tutti i provvedimenti cautelari con cui potrebbe sbizzarrirsi la fantasia del giudice, in assenza di altri provvedimenti tipici adottabili.

Più complessa, al contrario, la qualificazione dei provvedimenti cautelari tipici aventi natura anticipatoria.

Per comprendere la portata di questa definizione, dobbiamo rimetterci alle interpretazioni già espresse sul nuovo processo cautelare societario, che (come anticipato) è stato il precursore di questa nuova disciplina processual - civilistica.

Nell’ambito di tale definizione, infatti, sono state espresse diverse interpretazioni, che spaziando dalla più rigida (provvedimenti totalmente anticipatori del giudizio finale; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario (note a prima lettura), in Foro it., 2003, V, c. 14 s.) alla più libera (per cui è anticipatorio qualunque provvedimento che garantisca gli “effetti” finali del giudizio di merito; Saletti, in Sassani (a cura di), La riforma delle società. Il processo, Torino, 2003, p. 222 ss.; Olivieri, La tutela cautelare ante causam e in corso di causa nella riforma del processo societario, saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it), passano per tesi intermedie per cui i provvedimenti anticipatori dovrebbero “anticipare” non tutto il giudizio finale, ma solo (rectius quantomeno) uno o più effetti di questo (Arieta-De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, p. 381 ss.; Fabiani, Il rito cautelare societario: contraddizioni e dubbi irrisolti, saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it).

Gli autori che hanno scritto sul nuovo processo societario, ed in particolare gli autori che hanno sostenuto l’interpretazione più estensiva, ad esempio, si sono soffermati sulla misura cautelare della sospensiva della delibera assembleare.

Evidentemente tale misura non può ritenersi interamente (e direi anche parzialmente) anticipatoria della sentenza finale, tuttavia ne preserva decisamente gli effetti (si pensi ad esempio alla sospensione della delibera di esclusione del socio, se si accede alla tesi che la sentenza di merito non può ordinare la reintegrazione del socio ma solo la liquidazione della sua quota ed il risarcimento dei danni).

Di certo, si possono escludere i provvedimenti di sequestro (ancorché anch’essi, secondo questa tesi estensiva, avrebbero lo scopo di garantire gli “effetti finali” del giudizio di merito) e i provvedimenti cautelari in materia di proprietà industriale quali i provvedimenti di descrizione di marchi e brevetti (che hanno natura di istruzione preventiva).

In ogni caso, quali che siano i provvedimenti esclusi (perché non anticipatori) non si comprende il motivo di introdurre questa deroga proprio per i provvedimenti anticipatori vista la necessaria strumentalità di questi con il giudizio di merito.

Se infatti ne anticipano gli effetti, quale motivo di sussistenza dovrebbero avere questi provvedimenti se non in diretta connessione (rectius strumentalità) con il giudizio finale?

Ad ogni buon conto, per chi scrive, se di provvedimenti anticipatori si deve parlare, non si possono comprendere tutti i provvedimenti che possano (anche latamente) preservare gli effetti dell’eventuale giudizio di merito, perché tale caratteristica è propria di qualunque provvedimento cautelare.

Fintanto quindi che il legislatore non vorrà mettere mano a questa riforma, meglio chiarendo (con interpretazione autentica) la portata della norma, ritengo più coerente limitare la deroga (alla strumentalità necessaria) a quei provvedimenti che più propriamente anticipano il giudizio finale (ancorché non interamente – si pensi ad un’inibitoria a compiere un determinato atto, cui nel giudizio di merito potrebbe seguire anche una condanna al risarcimento dei danni).

2.3. Anche la generica estensione a tutti i provvedimenti d’urgenza (in aggiunta ai provvedimenti anticipatori del giudizio finale) non è esente da critiche.

La distinzione appare, infatti, superflua posto che se il cuore della distinzione si identifica nella diversificazione tra le misure anticipatorie rispetto a quelle conservative non si comprende per quale motivo sia necessario distinguere ulteriormente tra i provvedimenti tipici e quelli atipici, come se questi ultimi (nella misura in cui avessero natura conservativa) potessero beneficiare della medesima estensione, in contrasto con il principio enunciato sui provvedimenti conservativi tipici.

A causa di questa inopportuna distinzione (già formulata nel processo societario), quindi, si sono formate (anche su questo aspetto) diverse correnti di pensiero.

Esistono infatti autori (Saletti, op. cit., p. 223) che sostengono che il nuovo regime di stabilità della misura cautelare si possa applicare solo ai provvedimenti atipici che abbiano natura anticipatoria e autori (Romano, Riflessioni sui provvedimenti cautelari nel nuovo processo societario, in Riv. dir. proc., 2004, p. 1173) che, al contrario, ritengono che tale interpretazione alteri il contenuto della norma, che molto chiaramente intende estendere questo regime a tutti i provvedimenti atipici, senza distinzioni di sorta.

Secondo altri autori (Buoncristiani, Tutela cautelare ante causam nel nuovo rito societario. Assenza di strumentalità necessaria. Saggio pubblicato sul sito internet www.judicium.it), ancora, non si dovrebbe nemmeno distinguere tra tutela conservativa e tutela anticipatoria, perché si possono ipotizzare diverse forme di tutela cautelare che non sono né di tipo anticipatorio né conservativo, bensì di contemperamento degli opposti interessi, ponendo limiti o correttivi all’esercizio della situazione giuridica oggetto di contenzioso ossia regolamentando in via provvisoria la situazione contesa (purché nell’ambito dei diritti disponibili).

Secondo quest’ultima tesi, quindi, ferma l’esclusione delle misure cautelari conservative tipiche, il nuovo regime cautelare può essere esteso sia ai provvedimenti tipici di carattere anticipatorio sia ai provvedimenti atipici non conservativi, con la precisazione che la discrezionalità del giudice (nell’ambito dei provvedimenti atipici e con il limite dei diritti disponibili) è quanto più ampia possibile, potendo ben sconfinare oltre alla mera anticipatorietà del provvedimento; si parla, ad esempio, di provvedimenti assicuratori, ma non contenutisticamente anticipatori (Consolo, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corr. giur. 2003, p. 1518 s.s.).

Quest’ultima interpretazione sembra, invero, la più coerente (avuto riguardo allo scopo della norma); i provvedimenti atipici, quindi, ancorché non specificatamente anticipatori, si devono quindi ritenere tutti compresi nella disposizione.

2.4. Passando ora ad analizzare la portata più innovativa della riforma in commento, si coglie subito, fin dalla prima lettura della norma, che il principio di strumentalità, tipico del processo cautelare, risulta profondamente mutato.

Il provvedimento cautelare nasce storicamente con lo scopo di anticipare il giudizio finale per evitare il pericolo che nelle more di esso la parte vittoriosa possa rimanere comunque pregiudicata; i provvedimenti cautelari sono connotati infatti da una “strumentalità qualificata, ossia elevata, per così dire, al quadrato: essi sono infatti, immancabilmente, un mezzo predisposto per la miglior riuscita del provvedimento definitivo, che a sua volta è un mezzo per l’attuazione del diritto; sono cioè, in relazione alla finalità ultima della funzione giurisdizionale, strumenti dello strumento” (Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, in Opere giuridiche, IX, Napoli, 1983, p. 176).

La strumentalità costituisce (rectius costituiva) la causa propria della sommarietà; mentre infatti i procedimenti ingiuntivi (anch’essi connotati da cognizione sommaria) hanno la loro ragion d’essere (e quindi si giustificano) in forza della natura esecutiva e comunque della cognizione piena che può essere successivamente (ed eventualmente) instaurata con il giudizio di opposizione, i procedimenti cautelari giustificano la propria sommarietà in forza della connessione strumentale con il giudizio di merito.

La “strumentalità serve quindi a colorare la provvisorietà del provvedimento cautelare, distinguendola dalla provvisorietà del provvedimento sommario-esecutivo: il provvedimento cautelare è provvisorio nel fine, essendo destinato ad esaurirsi quando verrà emanata la decisione di merito (sia che riconosca l’esistenza ovvero l’inesistenza del diritto controverso) ovvero quando è diventata impossibile l’emanazione della decisione di merito (per mancato inizio del giudizio di merito nel termine fissato ovvero per estinzione del giudizio di merito); il provvedimento sommario-esecutivo è invece provvisorio nella formazione (essendo preso a seguito di cognizione sommaria), ma definitivo nello scopo.

È per questo che il provvedimento cautelare a differenza del provvedimento sommario-esecutivo non si pone in rapporto con il giudizio di merito in termini di convalida: nel giudizio di merito non si accerterà l’esistenza del periculum in mora e il provvedimento principale o definitivo, se di riconoscimento dell’esistenza del diritto controverso cautelato, non fa altro che esaurire lo scopo o funzione del provvedimento cautelare, che, quindi, non viene convalidato, ma perde efficacia, avendo raggiunto il suo fine; al contrario, il giudizio di merito, se riconosce esistente il diritto controverso, convaliderà, a seguito di cognizione piena, il provvedimento sommario di accertamento” (Buoncristiani, op. cit).

Il venir meno quindi della strumentalità necessaria del provvedimento cautelare rischia di privare di giustificazione causale la stessa ragion d’essere del provvedimento stesso, sia sotto il profilo del periculum in mora che del fumus boni iuris.

In fin dei conti, per quanto riguarda il primo aspetto (periculum in mora), lo dice la parola stessa allorché impone il presupposto che nelle “more” (del provvedimento finale) possa essere emesso il provvedimento cautelare; se il provvedimento finale non è più necessario e la mancata instaurazione del giudizio di merito non costituisce più una causa di decadenza, non si comprende che cosa dovrebbe preservare il provvedimento cautelare nelle more, posto che le more stesse diverrebbero la situazione definitiva (a cui non seguirebbe il giudizio di merito).

Ma la strumentalità necessaria non è solo legata al presupposto del periculum in mora perché anche rispetto al fumus boni iuris è costituito (rectius era costituito) un vincolo di strumentalità.

L’indicazione nel ricorso cautelare del diritto controverso e del tipo di domanda (petitum) che si sarebbe inteso promuovere nel giudizio di merito, costituisce (o, ancora, costituiva) un elemento essenziale della domanda, a pena di nullità e/o inammissibilità (Tribunale Verona, 18 agosto 2003, Giur. merito 2004, 1140; Tribunale Napoli, 30 aprile 1997, Giur. merito 1998, 674; Pretura Vallo Lucania, 19 marzo 1997, Giur. merito 1998, 674; Pretura Monza, 3 febbraio 1993, Foro it. 1993, I, 1693).

L’assenza di strumentalità necessaria, quindi, dovrebbe esaurire anche questo requisito, giacché non avrebbe più giustificazione logico-sistematica imporre un presupposto connesso ad un procedimento (il giudizio di merito) la cui instaurazione non è più obbligatoria.

In verità, sul tema, la giurisprudenza che di recente si è già occupata del nuovo rito societario (che, come già segnalato, ha introdotto per primo la novità dell’assenza di strumentalità necessaria dei procedimenti cautelari) ha già dato risposta negativa a questa tesi.

Infatti “Anche successivamente all’entrata in vigore dell’art. 23 d.lg. n. 17 del 2003, l’istanza cautelare "ante causam", deve contenere tutti gli elementi richiesti dall’art. 125 c.p.c., il quale è sicuramente applicabile quale norma generale anche in virtù del richiamo operato dal comma 7 dell’art. 23 d.lg. n. 17 del 2003. La domanda cautelare ex art. 23 d.lg. n. 17 del 2003 deve, pertanto, contenere l’esatta indicazione dell’azione di merito in vista della quale è proposto il cautelare o almeno consentirne l’individuazione in modo certo e alla mancata indicazione della domanda di merito consegue la declaratoria di nullità ex art. 156 comma 2 c.p.c. poiché il ricorso non può raggiungere la scopo che gli è proprio.” (Tribunale Rovereto, 14 giugno 2004, Giur. merito 2004, 2481).

2.4. Al principio, quindi, della strumentalità necessaria, viene a sostituirsi il nuovo principio della strumentalità ipotetica, che richiede comunque la connessione strumentale con il giudizio di merito (e la necessaria indicazione del petitum meritale ne costituisce la prova) senza tuttavia che quest’ultimo sia elevato al rango di requisito di “persistenza” dell’efficacia del provvedimento provvisorio.

La tutela cautelare è comunque funzionale al diritto controverso, ancorché non necessariamente strumentale al giudizio meritale; “Il provvedimento cautelare nasce non in attesa del provvedimento di merito, ma pur sempre in funzione del diritto controverso” (Buoncristiani, op. cit.).

3. Sulla revoca o modifica del provvedimento cautelare e sulla competenza per la revoca o la modifica

3.1. La novella dell’art. 669-decies c.p.c. ha chiarito due aspetti non del tutto espliciti nella precedente formulazione della norma:

- ha specificato la competenza sulla modifica e sulla revoca del provvedimento cautelare;

- ha esplicato i motivi di revoca o modifica del provvedimento cautelare.

3.2. Per quanto riguarda la competenza per l’emissione di un’ordinanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare è ormai chiarito che il giudice istruttore della causa di merito, ancorché il provvedimento sia emesso ante causam, sia l’unica autorità giudiziaria competente a modificare o privare di effetti il provvedimento precedentemente emesso (anche, quindi, se per decisione di un altro giudice).

La regola trova la sua naturale eccezione nell’ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia oggetto di reclamo.

In questo caso, essendo già investito della decisione sulla riforma del provvedimento un altro organo giurisdizionale (il collegio o un’altra sezione della Corte d’Appello), la permanenza di tale competenza in capo al giudice di merito potrebbe cagionare un conflitto di giudicato.

In verità, a giudizio dello scrivente, si è persa l’occasione di definire un ulteriore chiarimento sulla competenza del giudice del reclamo.

 

Infatti, ancorché sia stata definita l’esclusiva competenza del collegio (o di un’altra sezione della Corte d’Appello, investita del reclamo) anche sulla modifica/revoca del provvedimento cautelare in presenza di circostanze nuove ovvero (come esamineremmo successivamente) in presenza di fatti anteriore successivamente conosciuti, tuttavia non è stato chiarito se, in ipotesi di rigetto dell’istanza di modifica o revoca, sia competente a decidere su un’ulteriore istanza l’organo giudiziario investito del reclamo ovvero, di nuovo, il giudice istruttore (a cui potrebbe essere riproposta l’istanza).

Attualmente, la posizione della giurisprudenza sembra prevalentemente assestata sulla competenza del giudice del reclamo (Tribunale S.Angelo Lombardi, 5 marzo 2002, Giur. merito 2002, 936; Tribunale Lucca, 13 ottobre 1999, Giur. it. 2000, 1855; Tribunale Padova, 12 novembre 1998, Giur. it. 2000, 87; Tribunale Milano, 20 giugno 1997, Giur. it. 1998, 1625; Tribunale S.Maria Capua V., 5 novembre 1996, Foro it. 1997, I,1634; Tribunale Roma, 27 giugno 1995, Foro it. 1996, I,1086).

Non mancano, tuttavia, opinioni contrarie (Tribunale Milano, 29 agosto 2002, Giur. it. 2003, 2087; Tribunale Palermo, 4 luglio 1997, Giur. merito 1999, 795; Tribunale Roma, 26 maggio 1995, Foro it. 1996, I,1091: Tribunale Torino, 29 marzo 1995, Giur. it. 1995, I,2, 907; Tribunale Milano, 16 gennaio 1995, Vita not. 1996, 1220), che il legislatore in quest’occasione avrebbe potuto opportunamente confermare o confutare (chiarendo definitivamente anche questo aspetto).

3.3. Anche i presupposti per la pronuncia di un’ordinanza modificativa o estintiva hanno trovato una maggiore esplicazione nella recente novella.

Oltre quindi al criterio dei “mutamenti nelle circostanze” è ora codicisticamente ammessa la modifica o revoca del provvedimento cautelare qualora vengano allegati anche fatti anteriori.

La norma, tuttavia, nel facoltizzare l’istanza di modifica/revoca sul presupposto anche di fatti anteriori, tuttavia, impone un importante onere probatorio, richiedendo che sia certa la successiva conoscenza di tali fatti precedenti da parte dell’istante.

Anche su questo aspetto, sembra allo scrivente che il legislatore abbia mancato un’altra occasione di chiarimento.

In base alla precedente formulazione (che comunque faceva uso del termine “mutamenti nelle circostanze”) si sono diffuse due tesi sulla portata di questi c.d. “mutamenti” che, a seconda dell’opinione esaminata, può essere più o meno ampia.

La tesi più rigida, infatti, è quella secondo la quale l’espressione “mutamenti nelle circostanze” debba ritenersi limitata alle sole circostanze extra processuali, estranee quindi alle vicende relative alla causa di merito (Tribunale Trani, 22 gennaio 1996, Foro it. 1996, I, 2540; Tribunale Parma, 13 giugno 1994 e Tribunale Parma, 4 marzo 1995, Giur. it. 1995, I, 2, 489; Tribunale Bari, 15 febbraio 1993, Foro it. 1993, 952).

Secondo la tesi più estensiva, invece, i c.d. “mutamenti” devono ritenersi riferibili a qualsivoglia circostanza idonea ad incidere sulla perdurante legittimità della misura cautelare, ivi comprese quindi anche le nuove prove o le nuove acquisizioni del processo di merito (Tribunale Roma, 23 ottobre 1996, Foro Padano 1997, I, 138; Tribunale Firenze, 15 maggio 1995, Foro it. 1996, I, 1097; Tribunale Parma, 13 giugno 1994, Giur. It. 1995, I, 2, 488; Tribunale Udine 14 dicembre 1994, Foro It. 1995, I, 2295; Tribunale Foggia, 12 luglio 1993, Foro It. 1993, I, 2983).

La tesi più restrittiva sembrerebbe la più coerente dal momento che, oltre al potere di modifica, il ricorrente/resistente ha anche la facoltà di impugnazione (attraverso il mezzo del reclamo), lasciando quindi al soggetto soccombente ogni più ampia facoltà di difesa, senza la necessità che la possibilità di modificare/revocare il provvedimento cautelare debba essere ulteriormente ampliata.

Il legislatore, quindi, avrebbe potuto opportunamente chiarire anche questo aspetto, che trova ancora molteplici contrasti in giurisprudenza.

4. Sul reclamo

4.1. Seguendo l’intento chiarificatore già dimostrato nelle precedenti modifiche, il legislatore ha codificato quella che oramai era già un’assunzione incontestabile ossia la facoltà di impugnare (e quindi proporre reclamo avverso) anche le pronunce negative.

Sebbene, infatti, il tenore letterale della precedente formulazione dell’art. 669-terdecies c.p.c. non sembrasse dare adito a dubbi (il reclamo infatti era testualmente concesso solo contro l’ordinanza con cui era stato “concesso un provvedimento cautelare”), la possibilità di impugnare le pronunce negative era già stata oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali.

Se una certa parte della giurisprudenza non manifestava dubbi su tale facoltà (Tribunale Padova, 24 giugno 1993 e Tribunale Milano, 15 aprile 1993, entrambi Giur. it. 1994, I, 2, 484), esisteva invero un filone del tutto contrario a tale possibilità (Tribunale Bologna, 21 luglio 1993, Giur. it. 1993, I, 2, 713; Tribunale Verona 28 gennaio 1994, Giur. it. 1994 I, 2, 485), sul presupposto che la norma non lasciasse spazio ad interpretazioni estensive.

La questione è stata infine oggetto di sindacato di legittimità costituzionale che ne ha definitivamente chiarito la portata.

Con la sentenza della Corte Costituzionale del 23 giugno 1994, n. 253 (in Giur. it. 1994, I, 409) è stato dichiarato incostituzionalmente illegittimo l’art. 669-terdecies c.p.c. nella parte in cui non ammette il reclamo anche avverso l’ordinanza di rigetto della domanda cautelare.

Secondo la Corte Costituzionale, infatti, la vecchia formulazione dell’art. 669-terdecies c.p.c. (introdotto dall’art. 74 l. 26 novembre 1990 n. 353) era costituzionalmente illegittima, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui limitava la possibilità di reclamo ai soli provvedimenti concessivi di tutela cautelare e non anche ai provvedimenti che rigettassero la domanda volta ad ottenere tale tutela (domanda che si sarebbe potuta riproporre – in tal caso - avanti allo stesso giudice nella sola ipotesi di mutamento delle circostanze), poiché ciò determinava una ingiustificata disparità di trattamento ed una limitazione del diritto di difesa della parte ricorrente rimasta soccombente, rispetto alla parte resistente, alla quale era invece già consentita espressamente tale facoltà di reclamo.

Dando quindi esecuzione alla pronuncia della Corte Costituzionale, il legislatore ha modificato la norma e ha espressamente introdotto tale previsione che prevede, appunto, la facoltà del ricorrente-soccombente di impugnare la decisione di rigetto.

4.2. Il novellato art. 669-terdecies c.p.c., inoltre, ha esteso il termine per proporre reclamo a quindici giorni (dai precedenti dieci) e, uniformemente all’art. 669-decies c.p.c., ha disposto che la fase del reclamo rappresenti il momento processuale ultimo dove proporre le circostanze o i motivi sopravvenuti rispetto alla decisione del giudice monocratico ma precedentemente alla decisione del collegio (ovvero della sezione della Corte d’Appello investita del reclamo).

Ritornando quindi ai motivi sopravvenuti, la riforma ha stabilito i seguenti criteri:

- è ammessa la modifica o revoca del provvedimento cautelare per mutamenti nelle circostanze che siano intervenuti dopo la pronuncia del giudice monocratico (o della Corte d’Appello, purché non sia pendente il reclamo) ovvero che siano intervenuti prima ma vi sia la prova della conoscenza successiva;

- laddove sia pendente il reclamo le circostanze e i motivi sopravvenuti devono (a pena di decadenza) essere proposti dinanzi al giudice del reclamo.

Sebbene il legislatore abbia utilizzato espressioni letterali differenti all’art. 669-decies c.p.c. (dove si usano i termini “mutamenti nelle circostanze” e “fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare”) rispetto all’art. 669-terdecies c.p.c. (dove si parla, invece, solo di “circostanze e motivi sopravvenuti”) non vi sono, in realtà, motivi per ritenere che si voglia far riferimento ad ipotesi distinte.

Sembra, infatti, più coerente affermare che, nonostante il diverso tenore lessicale, il legislatore abbia voluto coordinare le due norme, chiarendo ulteriormente quali siano gli “sbarramenti processuali” del nuovo processo cautelare.

Circostanze, fatti, motivi sopravvenuti o la cui conoscenza sia sopravvenuta, pertanto, dovrebbero far riferimento ad un unico complessivo criterio che permetta, purché già non intervenuta la decadenza del reclamo, la facoltà di richiedere la modifica o la revoca del provvedimento cautelare.

5. Conclusioni

Concludendo, quindi, questa prima analisi del nuovo processo cautelare, si devono pertanto sollevare i sopra espressi dubbi sull’intervento del legislatore, pur plaudendo allo sforzo chiarificatore, operato (anche se parzialmente) rispetto alla previgente giurisprudenza e dottrina in materia.

Forse la fretta di innovare una disciplina che, seppur ancora non troppo datata, aveva implicato la necessità di numerosi correttivi extralegislativi per la sua applicazione, è stata l’origine di una produzione normativa non proprio coerente e chiara.

L’abrogazione della strumentalità necessaria del provvedimento cautelare e, quel che è peggio, la poca chiarezza sulla distinzione tra provvedimenti ancora subordinati a questo principio e provvedimenti che non lo sono è, forse, la maggior pecca di questa novella.

Confidando che il legislatore riprenda in mano l’opera per correggere e chiarire i passaggi ancora criptici di questa disciplina, si auspica infine che si colga l’occasione per risolvere anche quelle piccole questioni giurisprudenziali (ancora residue rispetto alla previgente disciplina) sopra richiamate.