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Mezzi a difesa del possesso

La peculiarità del possesso consiste ed emerge nella sua interezza proprio sotto il profilo della tutela.

Il possessore può infatti esperire varie azioni a tutela del suo potere di fatto, a prescindere da indagini circa la sua legittimazione.

Le azioni a tutela del possesso vengono qualificate possessorie, in contrapposizione a quelle petitorie esperibili a tutela di diritti reali (rivendicazione, azione negatoria, azione confessoria).

Mentre infatti le azioni petitorie presuppongono la prova della titolarità del diritto, spesso lunga e difficoltosa, le azioni possessorie si basano sul fatto stesso del possesso o su quello dell’avvenuto spoglio.

Esse sono pertanto notevolmente più snelle, con la conseguenza che lo stesso proprietario potrà preferirle alla rivendicazione al fine di recuperare il bene.

Si consideri tuttavia come nella prassi l’intento del legislatore sia di fatto frustrato da una miriade di intoppi processuali; non è così infrequente che l’intero procedimento, se si calcolano i tempi delle varie fasi nelle quali si articola, possa durare anche più di dieci anni, con buona pace delle esigenze di rapidità e snellezza volute dal legislatore.

In realtà le azioni possessorie in molti casi sono null’altro che un rimedio, usufruibile dallo stesso proprietario, per tutelare i propri beni; in molti casi esse tendono in altre parole ad apparire come un mero doppione di altri rimedi, come per esempio la rivendicazione, o i provvedimenti cautelari finalizzati ad ottenere una tutela urgente.

Si consideri ancora che nel nostro ordinamento esistono strumenti alternativi di tutela urgente, come per esempio il rimedio di cui all’art. 700 c.p.c.

Forse bisognerebbe avere il coraggio di riformare ex novo l’intero settore dei rimedi interdittali tramite nuove forme di azioni di applicazione generale, come per esempio l’art. 700 c.p.c., idonee a consentire una tutela veramente rapida ed urgente delle situazioni di appartenenza, a prescindere dai cavilli e dalle distinzioni più o meno arbitrarie che si sono sedimentate nel corso della storia in materia di azioni possessorie.

La legge comunque guarda con molto favore al possessore riconoscendogli una tutela assai ampia che si concretezza nelle azioni possessorie, e cioè: l’azione di reintegrazione (volta a riottenere il possesso se lo si é perso), l’azione di manutenzione (finalizzata a far cessare le molestie e le turbativa), la denuncia di nuova opera e di danno temuto (indirizzata ad impedire la minaccia di turbative e l’incombere di fatti lesivi del possesso).

Per poter usufruire della suddetta tutela occorre essere possessore ovverosia esercitare un potere di fatto sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale minore.

Più in particolare, riguardo alla azione di reintegrazione, si può dire che quest’ultima è diretta al ripristino della preesistente situazione di fatto; essa ha funzione recuperatoria, con la conseguenza che non può essere proposta nell’ipotesi di totale distruzione della cosa stessa.

Tale rimedio è previsto dall’art. 1168 c.c., che ravvisa quale presupposto essenziale la presenza di uno spoglio violento o clandestino.

Per spoglio si deve intendere la privazione o sottrazione del possesso al possessore che avvenga in modo violento; concetto quest’ultimo che è stato reso molto flessibile dalla giurisprudenza secondo cui non è necessario che la violenza si estrinsechi nell’esperibilità di atti fisici o minacce ma è sufficiente che lo spoglio sia avvenuto senza o contro la volontà effettiva o presunta del possessore (Cass. 29 gennaio 1993 n. 1131).

La clandestinità, invece, ricorre nei casi in cui lo spoglio sia commesso ad insaputa dello spogliato, il quale ne viene a conoscenza in un momento successivo.

Le condotte sopra descritte che costituiscono l’elemento oggettivo presupposto dell’azione possessoria si affiancano ad un ulteriore elemento che non può mai mancare affinché si possa integrare lo spoglio: l’elemento soggettivo dell’animus. L’animus spoliandi o turbandi consiste nel fatto di privare del godimento della cosa il possessore od il detentore, contro la volontà espressa o tacita del medesimo; pertanto, è un elemento insito nella condotta stessa.

L’animus spoliandi è insito nel comportamento di colui che sovverta la situazione possessoria contro la volontà espressa o presunta del possessore (Cass. 1933/84) o del detentore, onde privarlo del potere di fatto sulla cosa (Cass. 6583/88), rimanendo irrilevante l’intento di nuocere o meno all’agente, così come la sua convinzione di esercitare un proprio diritto (Cass. 1132/85).

L’animus spoliandi deve essere essere escluso, qualora risulti che, al momento della materiale apprensione del bene, l’autore dello spoglio non conosceva e non era in grado di conoscere l’altrui possesso (Cass. 6268/85).

La prova di tale animus incombe su chi si pretende spogliato, trattandosi di un elemento costitutivo della fattispecie.

L’azione di reintegrazione,come detto, è diretta a porre rimedio alla sottrazione della cosa oggetto di possesso al fine di ripristinare la preesistente situazione possessoria. Legittimati a promuovere tale azione sono sia il possessore che il detentore, purché non per ragioni di servizio o di ospitalità, nei confronti dell’autore dello spoglio.

Anche il conduttore di un immobile, pertanto, può promuovere azione possessoria nei confronti dell’autore dello spoglio. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (sent. 29 aprile 2002 n. 6221) specificando che il conduttore va considerato "detentore qualificato" per conto del locatore possessore.

Ne discende che egli ha diritto a tutelare la propria situazione giuridica attraverso l’esercizio dell’azione di reintegrazione.

Le azioni di reintegra o di manutenzione possono essere proposte non solo contro l’autore materiale dello spoglio o della molestia, ma anche contro chi ne sia stato l’autore morale, intendendosi per tale sia il mandante, cioè colui che preventivamente abbia dato incarico ad altri di porre in essere gli atti in cui lo spoglio si concreta o li abbia comunque autorizzati, sia colui che ex post abbia utilizzato a proprio vantaggio i risultati dello spoglio o della molestia (Trib. Catania sent. n. 2553 del 12.07.2001).

Affinché la domanda sia accoglibile è inoltre necessario che la cosa si trovi ancora nella materiale disponibilità di chi l’ha sottratta e non sia stata distrutta o consegnata ad altri. L’attore, poi, deve essere spogliato del suo possesso in modo volontario e violento o clandestino.

La violenza non deve necessariamente consistere in un’attività materiale, essendo sufficiente ad integrarla un qualsiasi comportamento che produca la privazione totale o parziale del possesso contro la volontà espressa o anche solo presunta del possessore (Cass. 1577/87).

Clandestino è, invece, lo spoglio compiuto con atti tali da rendere impossibile all’interessato o ai suoi rappresentanti, che abbiano usato l’ordinaria diligenza, di averne conoscenza (Cass. 6589/86).

L’azione in commento è peraltro sottoposta al termine di decadenza di un anno, con decorrenza dal sofferto spoglio o dalla scoperta della perdita del possesso.

A ben vedere, l’immediatezza della tutela possessoria emerge già dalla lettera dell’art. 1168 c. c., ai sensi del quale il giudice deve ordinare la reintegrazione sulla base della semplice notorietà del fatto, senza dilazione.

Ne discende che, in caso di riconoscimento dell’avvenuto spoglio, l’autore di questo deve provvedere senza indugio alla reintegrazione del possesso.

Il rifiuto, se non altrimenti giustificato, è frutto di una libera scelta dall’obbligato, di provvedere nei tempi assegnati e si configura come inerzia dell’obbligato, indipendentemente dai possibili riflessi di ordine penale del comportamento descritto.

Si tratta di inerzia, che è giustificata dal sistema e configura un fatto illecito, il quale, secondo l’ordinamento, può derivare dall’inadempimento di un’obbligazione contrattuale (art. 1218 cod. civ.) o da altro fatto o atto suscettibile di arrecare danno (art. 2043 cod. civ.) (Cass. Sentenza, 20-02-2004, n. 3400)

La procedura di esecuzione dei provvedimenti di reintegrazione nel possesso non deve necessariamente svolgersi nelle stesse forme dell’esecuzione forzata, in quanto detti provvedimenti non danno luogo ad un’alternativa tra adempimento spontaneo ed esecuzione forzata, ma ad un fenomeno intrinsecamente coattivo, svolgentesi ex officio iudicis, la cui attuazione non ha come presupposto necessario la notifica del titolo spedito in forma esecutiva o del precetto; ne consegue che il ricorrente non incorre nella inosservanza di alcuna formalità processuale nel caso in cui si proceda alla notificazione del suddetto titolo e del relativo precetto senza indicare in quest’ultimo il termine non inferiore a dieci giorni per l’adempimento (Cass. 2460/79).

Spetta al giudice dare l’esatta qualificazione alla domanda indipendentemente dall’esattezza delle indicazioni della parte o dalla mancanza di indicazioni, con il solo limite di non mutarne gli elementi obiettivi come fissati dall’attore; in particolare, legittimamente il giudice può qualificare quali mere turbative i fatti prospettatigli come spoglio, traendone le dovute conseguenze sul piano dei rimedi possessori, senza con ciò violare il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, atteso che la domanda di reintegrazione nel possesso comprende quella di manutenzione, costituendo la semplice turbativa un minus rispetto alla privazione totale del possesso.  (Trib. Catania sent. n. 2553 del 12.07.2001).

A volte è possibile che la domanda di reintegro nel possesso sia rivolta nei confronti di un soggetto che venga successivamente a mancare: si pone perciò il problema di dover continuare a far valere i propri diritti nei confronti degli eredi del de cuius.

In tema di locazione, ad esempio, è stato stabilito che nel regime giuridico dell’equo canone, la morte del conduttore in assenza dei successibili indicati nell’articolo 6 della legge 392/78 ovvero del convivente more uxorio per effetto della sentenza additiva della Corte Costituzionale n.. 404 del 1988, non comporta la reviviscenza dell’art. 1614 c.c.,sicché l’erede non convivente, mentre non può esimersi dall’obbligo di soddisfare le passività gravanti sull’asse ereditario alla data dell’avvenuta successione, secondo i principi generali, in quanto relative ad obbligazioni già scadute ed insolute del dante causa, viene, per il resto, a trovarsi in una relazione di mero fatto con la cosa locata e, pertanto, di detenzione senza titolo che, non essendo nemmeno applicabile l’art. 1146 c.c., in relazione al possesso, può far sorgere, ai sensi dell’art. 2043 c.c., esclusivamente la responsabilità extra-contrattuale per la restituzione dell’immobile e per il risarcimento del danno o per arricchimento senza causa (Tribunale Roma sent. del 08/06/92).

La peculiarità del possesso consiste ed emerge nella sua interezza proprio sotto il profilo della tutela.

Il possessore può infatti esperire varie azioni a tutela del suo potere di fatto, a prescindere da indagini circa la sua legittimazione.

Le azioni a tutela del possesso vengono qualificate possessorie, in contrapposizione a quelle petitorie esperibili a tutela di diritti reali (rivendicazione, azione negatoria, azione confessoria).

Mentre infatti le azioni petitorie presuppongono la prova della titolarità del diritto, spesso lunga e difficoltosa, le azioni possessorie si basano sul fatto stesso del possesso o su quello dell’avvenuto spoglio.

Esse sono pertanto notevolmente più snelle, con la conseguenza che lo stesso proprietario potrà preferirle alla rivendicazione al fine di recuperare il bene.

Si consideri tuttavia come nella prassi l’intento del legislatore sia di fatto frustrato da una miriade di intoppi processuali; non è così infrequente che l’intero procedimento, se si calcolano i tempi delle varie fasi nelle quali si articola, possa durare anche più di dieci anni, con buona pace delle esigenze di rapidità e snellezza volute dal legislatore.

In realtà le azioni possessorie in molti casi sono null’altro che un rimedio, usufruibile dallo stesso proprietario, per tutelare i propri beni; in molti casi esse tendono in altre parole ad apparire come un mero doppione di altri rimedi, come per esempio la rivendicazione, o i provvedimenti cautelari finalizzati ad ottenere una tutela urgente.

Si consideri ancora che nel nostro ordinamento esistono strumenti alternativi di tutela urgente, come per esempio il rimedio di cui all’art. 700 c.p.c.

Forse bisognerebbe avere il coraggio di riformare ex novo l’intero settore dei rimedi interdittali tramite nuove forme di azioni di applicazione generale, come per esempio l’art. 700 c.p.c., idonee a consentire una tutela veramente rapida ed urgente delle situazioni di appartenenza, a prescindere dai cavilli e dalle distinzioni più o meno arbitrarie che si sono sedimentate nel corso della storia in materia di azioni possessorie.

La legge comunque guarda con molto favore al possessore riconoscendogli una tutela assai ampia che si concretezza nelle azioni possessorie, e cioè: l’azione di reintegrazione (volta a riottenere il possesso se lo si é perso), l’azione di manutenzione (finalizzata a far cessare le molestie e le turbativa), la denuncia di nuova opera e di danno temuto (indirizzata ad impedire la minaccia di turbative e l’incombere di fatti lesivi del possesso).

Per poter usufruire della suddetta tutela occorre essere possessore ovverosia esercitare un potere di fatto sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale minore.

Più in particolare, riguardo alla azione di reintegrazione, si può dire che quest’ultima è diretta al ripristino della preesistente situazione di fatto; essa ha funzione recuperatoria, con la conseguenza che non può essere proposta nell’ipotesi di totale distruzione della cosa stessa.

Tale rimedio è previsto dall’art. 1168 c.c., che ravvisa quale presupposto essenziale la presenza di uno spoglio violento o clandestino.

Per spoglio si deve intendere la privazione o sottrazione del possesso al possessore che avvenga in modo violento; concetto quest’ultimo che è stato reso molto flessibile dalla giurisprudenza secondo cui non è necessario che la violenza si estrinsechi nell’esperibilità di atti fisici o minacce ma è sufficiente che lo spoglio sia avvenuto senza o contro la volontà effettiva o presunta del possessore (Cass. 29 gennaio 1993 n. 1131).

La clandestinità, invece, ricorre nei casi in cui lo spoglio sia commesso ad insaputa dello spogliato, il quale ne viene a conoscenza in un momento successivo.

Le condotte sopra descritte che costituiscono l’elemento oggettivo presupposto dell’azione possessoria si affiancano ad un ulteriore elemento che non può mai mancare affinché si possa integrare lo spoglio: l’elemento soggettivo dell’animus. L’animus spoliandi o turbandi consiste nel fatto di privare del godimento della cosa il possessore od il detentore, contro la volontà espressa o tacita del medesimo; pertanto, è un elemento insito nella condotta stessa.

L’animus spoliandi è insito nel comportamento di colui che sovverta la situazione possessoria contro la volontà espressa o presunta del possessore (Cass. 1933/84) o del detentore, onde privarlo del potere di fatto sulla cosa (Cass. 6583/88), rimanendo irrilevante l’intento di nuocere o meno all’agente, così come la sua convinzione di esercitare un proprio diritto (Cass. 1132/85).

L’animus spoliandi deve essere essere escluso, qualora risulti che, al momento della materiale apprensione del bene, l’autore dello spoglio non conosceva e non era in grado di conoscere l’altrui possesso (Cass. 6268/85).

La prova di tale animus incombe su chi si pretende spogliato, trattandosi di un elemento costitutivo della fattispecie.

L’azione di reintegrazione,come detto, è diretta a porre rimedio alla sottrazione della cosa oggetto di possesso al fine di ripristinare la preesistente situazione possessoria. Legittimati a promuovere tale azione sono sia il possessore che il detentore, purché non per ragioni di servizio o di ospitalità, nei confronti dell’autore dello spoglio.

Anche il conduttore di un immobile, pertanto, può promuovere azione possessoria nei confronti dell’autore dello spoglio. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (sent. 29 aprile 2002 n. 6221) specificando che il conduttore va considerato "detentore qualificato" per conto del locatore possessore.

Ne discende che egli ha diritto a tutelare la propria situazione giuridica attraverso l’esercizio dell’azione di reintegrazione.

Le azioni di reintegra o di manutenzione possono essere proposte non solo contro l’autore materiale dello spoglio o della molestia, ma anche contro chi ne sia stato l’autore morale, intendendosi per tale sia il mandante, cioè colui che preventivamente abbia dato incarico ad altri di porre in essere gli atti in cui lo spoglio si concreta o li abbia comunque autorizzati, sia colui che ex post abbia utilizzato a proprio vantaggio i risultati dello spoglio o della molestia (Trib. Catania sent. n. 2553 del 12.07.2001).

Affinché la domanda sia accoglibile è inoltre necessario che la cosa si trovi ancora nella materiale disponibilità di chi l’ha sottratta e non sia stata distrutta o consegnata ad altri. L’attore, poi, deve essere spogliato del suo possesso in modo volontario e violento o clandestino.

La violenza non deve necessariamente consistere in un’attività materiale, essendo sufficiente ad integrarla un qualsiasi comportamento che produca la privazione totale o parziale del possesso contro la volontà espressa o anche solo presunta del possessore (Cass. 1577/87).

Clandestino è, invece, lo spoglio compiuto con atti tali da rendere impossibile all’interessato o ai suoi rappresentanti, che abbiano usato l’ordinaria diligenza, di averne conoscenza (Cass. 6589/86).

L’azione in commento è peraltro sottoposta al termine di decadenza di un anno, con decorrenza dal sofferto spoglio o dalla scoperta della perdita del possesso.

A ben vedere, l’immediatezza della tutela possessoria emerge già dalla lettera dell’art. 1168 c. c., ai sensi del quale il giudice deve ordinare la reintegrazione sulla base della semplice notorietà del fatto, senza dilazione.

Ne discende che, in caso di riconoscimento dell’avvenuto spoglio, l’autore di questo deve provvedere senza indugio alla reintegrazione del possesso.

Il rifiuto, se non altrimenti giustificato, è frutto di una libera scelta dall’obbligato, di provvedere nei tempi assegnati e si configura come inerzia dell’obbligato, indipendentemente dai possibili riflessi di ordine penale del comportamento descritto.

Si tratta di inerzia, che è giustificata dal sistema e configura un fatto illecito, il quale, secondo l’ordinamento, può derivare dall’inadempimento di un’obbligazione contrattuale (art. 1218 cod. civ.) o da altro fatto o atto suscettibile di arrecare danno (art. 2043 cod. civ.) (Cass. Sentenza, 20-02-2004, n. 3400)

La procedura di esecuzione dei provvedimenti di reintegrazione nel possesso non deve necessariamente svolgersi nelle stesse forme dell’esecuzione forzata, in quanto detti provvedimenti non danno luogo ad un’alternativa tra adempimento spontaneo ed esecuzione forzata, ma ad un fenomeno intrinsecamente coattivo, svolgentesi ex officio iudicis, la cui attuazione non ha come presupposto necessario la notifica del titolo spedito in forma esecutiva o del precetto; ne consegue che il ricorrente non incorre nella inosservanza di alcuna formalità processuale nel caso in cui si proceda alla notificazione del suddetto titolo e del relativo precetto senza indicare in quest’ultimo il termine non inferiore a dieci giorni per l’adempimento (Cass. 2460/79).

Spetta al giudice dare l’esatta qualificazione alla domanda indipendentemente dall’esattezza delle indicazioni della parte o dalla mancanza di indicazioni, con il solo limite di non mutarne gli elementi obiettivi come fissati dall’attore; in particolare, legittimamente il giudice può qualificare quali mere turbative i fatti prospettatigli come spoglio, traendone le dovute conseguenze sul piano dei rimedi possessori, senza con ciò violare il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, atteso che la domanda di reintegrazione nel possesso comprende quella di manutenzione, costituendo la semplice turbativa un minus rispetto alla privazione totale del possesso.  (Trib. Catania sent. n. 2553 del 12.07.2001).

A volte è possibile che la domanda di reintegro nel possesso sia rivolta nei confronti di un soggetto che venga successivamente a mancare: si pone perciò il problema di dover continuare a far valere i propri diritti nei confronti degli eredi del de cuius.

In tema di locazione, ad esempio, è stato stabilito che nel regime giuridico dell’equo canone, la morte del conduttore in assenza dei successibili indicati nell’articolo 6 della legge 392/78 ovvero del convivente more uxorio per effetto della sentenza additiva della Corte Costituzionale n.. 404 del 1988, non comporta la reviviscenza dell’art. 1614 c.c.,sicché l’erede non convivente, mentre non può esimersi dall’obbligo di soddisfare le passività gravanti sull’asse ereditario alla data dell’avvenuta successione, secondo i principi generali, in quanto relative ad obbligazioni già scadute ed insolute del dante causa, viene, per il resto, a trovarsi in una relazione di mero fatto con la cosa locata e, pertanto, di detenzione senza titolo che, non essendo nemmeno applicabile l’art. 1146 c.c., in relazione al possesso, può far sorgere, ai sensi dell’art. 2043 c.c., esclusivamente la responsabilità extra-contrattuale per la restituzione dell’immobile e per il risarcimento del danno o per arricchimento senza causa (Tribunale Roma sent. del 08/06/92).