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Cassazione SU Civili: giurisdizione per il pubblico impiego

Nota a Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 giugno 2006, n. 13912
Premesso di avere espletato alcuni incarichi presso l’azienda sanitaria locale in un periodo in parte anteriore ed in parte successivo alla data del 30 giugno 1998 (art. 69 del D.Lgs. n. 165 del 2001), i lavoratori chiedevano che i rapporti di lavoro (instaurati in base ai contratti a tempo determinato) fossero assoggettati alla disciplina della legge n.230/1962: dovevano essere quindi considerati a tempo indeterminato, con la conseguenza che la risoluzione all’ultima scadenza pattuita equivaleva ad un recesso illegittimo del datore di lavoro.

Il giudice adito ha rigettato le domande e la Corte di Appello di Palermo, accogliendo l’eccezione riproposta in appello dall’azienda, ha declinato la propria giurisdizione affermando che la controversia doveva essere devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, in quanto attinente a rapporti di pubblico impiego, per questioni relative ad un periodo antecedente al 30 giugno 1998. In applicazione della regola del discrimine temporale per il riparto della giurisdizione di cui all’art.45 d.lgs. n.80/1998, per i primi contratti del 1996 e del 1997 la cognizione spettava al giudice amministrativo. Alla stessa soluzione doveva pervenirsi anche per i contratti del 1998, posto che la configurabilità di un licenziamento risultava legato alla ritenuta illegittimità dell’apposizione del termine owero della sua proroga, e quindi al riconoscimento della natura indeterminata del rapporto fin dall’inizio. Avverso questa sentenza i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione.

Ancora una volta le Sezioni Unite si sono pronunciate sul riparto di giurisdizione in materia di pubblico impiego, ribadendo il principio secondo cui qualora il lavoratore, sul presupposto dell’affermazione del proprio diritto, riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo alla data del 30 giugno 1998 (art. 69 del D.Lgs. n. 165 del 2001), la competenza giurisdizionale va ripartita tra il Giudice amministrativo in sede esclusiva ed il Giudice ordinario in relazione rispettivamente alle due fasi temporali del rapporto. Va quindi dichiarata la giurisdizione del Giudice amministrativo per tutte le domande spiegate e relative alla fase del rapporto anteriore al 30 giugno 1998, dovendosi invece dichiarare la giurisdizione del Giudice ordinario per tutte le questioni attinenti al periodo lavorativo successivo al 30 giugno 1998.

I lavoratori hanno fatto valere in giudizio diritti derivanti da distinti contratti a tempo determinato, relativi ad epoche diverse. I primi contratti, stipulati nel luglio 1996, sono venuti a scadenza prima della suddetta data del 30 giugno 1998; i successivi incarichi a tempo determinato (semestrali) sono stati conferiti a seguito di successiva delibera del marzo 1998, con durata prevista dal 1 aprile al 30 settembre 1998. I fatti posti a fondamento delle pretese azionate dai lavoratori risalgono non al momento di stipulazione dei contratti con decorrenza dal 1 aprile 1998, ma a quello della successiva proroga degli stessi (disposta dalla citata delibera dell’ottobre successivo), che assume rilevanza giuridica autonoma ai fini della dedotta trasformazione dei rapporti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.

I lavoratori hanno peraltro fatto valere l’esistenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche sotto un autonomo profilo, essendo stata dedotta (indipendentemente dalla legittimità dell’apposizione del termine) l’insussistenza dei presupposti richiesti dall’art.2 della medesima legge n.230/1962 per la proroga dei contratti a tempo detenninato, nella specie disposta dall’amministrazione datrice di lavoro con delibera del 7 ottobre 1998.

Le considerazioni da fare sono dunque le seguenti:

- il contratto di lavoro cui sia stata illegittimamente apposta la clausola di durata si reputa a tempo indeterminato, e, come per ogni altro contratto di lavoro a tempo indeterminato, il rapporto può estinguersi per recesso del datore di lavoro, dimissioni del lavoratore, risoluzione consensuale. L’illegittima previsione iniziale di un termine e la scadenza di questo non interferiscono con la permanenza o l’estinzione del rapporto. Ad integrare un recesso tacito non basta quindi un comportamento incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto: il rapporto continua in forza del titolo (la volontà iniziale integrata, in caso di clausola di durata nulla, dalla legge) e non perché sorretto da una volontà di prosecuzione; sicché comportamento concludente non è quello incompatibile con una tale volontà, ma quello che presuppone la volontà di produrre l’effetto giuridico dello scioglimento del vincolo;

- in ipotesi di contratto con clausola di durata nulla, la semplice cessazione dell’esecuzione non equivale di per sé a recesso o risoluzione; il fatto che essa intervenga alla scadenza del termine illegittimamente apposto, quindi in conformità alla teorica estinzione del rapporto, può qualificare soggettivamente il comportamento delle parti (escludere, ad es., l’inadempimento) ma non in misura sufficiente per attribuire alle stesse la volontà di liberarsi dalle reciproche obbligazioni; il datore di lavoro sarà quindi tenuto al risarcimento del danno, eventualmente pari alle retribuzioni non corrisposte, se (e dal momento in cui) verrà a trovarsi in mora accipiendi.

Premesso di avere espletato alcuni incarichi presso l’azienda sanitaria locale in un periodo in parte anteriore ed in parte successivo alla data del 30 giugno 1998 (art. 69 del D.Lgs. n. 165 del 2001), i lavoratori chiedevano che i rapporti di lavoro (instaurati in base ai contratti a tempo determinato) fossero assoggettati alla disciplina della legge n.230/1962: dovevano essere quindi considerati a tempo indeterminato, con la conseguenza che la risoluzione all’ultima scadenza pattuita equivaleva ad un recesso illegittimo del datore di lavoro.

Il giudice adito ha rigettato le domande e la Corte di Appello di Palermo, accogliendo l’eccezione riproposta in appello dall’azienda, ha declinato la propria giurisdizione affermando che la controversia doveva essere devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, in quanto attinente a rapporti di pubblico impiego, per questioni relative ad un periodo antecedente al 30 giugno 1998. In applicazione della regola del discrimine temporale per il riparto della giurisdizione di cui all’art.45 d.lgs. n.80/1998, per i primi contratti del 1996 e del 1997 la cognizione spettava al giudice amministrativo. Alla stessa soluzione doveva pervenirsi anche per i contratti del 1998, posto che la configurabilità di un licenziamento risultava legato alla ritenuta illegittimità dell’apposizione del termine owero della sua proroga, e quindi al riconoscimento della natura indeterminata del rapporto fin dall’inizio. Avverso questa sentenza i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione.

Ancora una volta le Sezioni Unite si sono pronunciate sul riparto di giurisdizione in materia di pubblico impiego, ribadendo il principio secondo cui qualora il lavoratore, sul presupposto dell’affermazione del proprio diritto, riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo alla data del 30 giugno 1998 (art. 69 del D.Lgs. n. 165 del 2001), la competenza giurisdizionale va ripartita tra il Giudice amministrativo in sede esclusiva ed il Giudice ordinario in relazione rispettivamente alle due fasi temporali del rapporto. Va quindi dichiarata la giurisdizione del Giudice amministrativo per tutte le domande spiegate e relative alla fase del rapporto anteriore al 30 giugno 1998, dovendosi invece dichiarare la giurisdizione del Giudice ordinario per tutte le questioni attinenti al periodo lavorativo successivo al 30 giugno 1998.

I lavoratori hanno fatto valere in giudizio diritti derivanti da distinti contratti a tempo determinato, relativi ad epoche diverse. I primi contratti, stipulati nel luglio 1996, sono venuti a scadenza prima della suddetta data del 30 giugno 1998; i successivi incarichi a tempo determinato (semestrali) sono stati conferiti a seguito di successiva delibera del marzo 1998, con durata prevista dal 1 aprile al 30 settembre 1998. I fatti posti a fondamento delle pretese azionate dai lavoratori risalgono non al momento di stipulazione dei contratti con decorrenza dal 1 aprile 1998, ma a quello della successiva proroga degli stessi (disposta dalla citata delibera dell’ottobre successivo), che assume rilevanza giuridica autonoma ai fini della dedotta trasformazione dei rapporti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.

I lavoratori hanno peraltro fatto valere l’esistenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche sotto un autonomo profilo, essendo stata dedotta (indipendentemente dalla legittimità dell’apposizione del termine) l’insussistenza dei presupposti richiesti dall’art.2 della medesima legge n.230/1962 per la proroga dei contratti a tempo detenninato, nella specie disposta dall’amministrazione datrice di lavoro con delibera del 7 ottobre 1998.

Le considerazioni da fare sono dunque le seguenti:

- il contratto di lavoro cui sia stata illegittimamente apposta la clausola di durata si reputa a tempo indeterminato, e, come per ogni altro contratto di lavoro a tempo indeterminato, il rapporto può estinguersi per recesso del datore di lavoro, dimissioni del lavoratore, risoluzione consensuale. L’illegittima previsione iniziale di un termine e la scadenza di questo non interferiscono con la permanenza o l’estinzione del rapporto. Ad integrare un recesso tacito non basta quindi un comportamento incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto: il rapporto continua in forza del titolo (la volontà iniziale integrata, in caso di clausola di durata nulla, dalla legge) e non perché sorretto da una volontà di prosecuzione; sicché comportamento concludente non è quello incompatibile con una tale volontà, ma quello che presuppone la volontà di produrre l’effetto giuridico dello scioglimento del vincolo;

- in ipotesi di contratto con clausola di durata nulla, la semplice cessazione dell’esecuzione non equivale di per sé a recesso o risoluzione; il fatto che essa intervenga alla scadenza del termine illegittimamente apposto, quindi in conformità alla teorica estinzione del rapporto, può qualificare soggettivamente il comportamento delle parti (escludere, ad es., l’inadempimento) ma non in misura sufficiente per attribuire alle stesse la volontà di liberarsi dalle reciproche obbligazioni; il datore di lavoro sarà quindi tenuto al risarcimento del danno, eventualmente pari alle retribuzioni non corrisposte, se (e dal momento in cui) verrà a trovarsi in mora accipiendi.