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Responsabilità della banca per omessa segnalazione di operazione sospetta di riciclaggio

Nota a Tribunale di Mondovì, Sezione Unica Civile, sentenza 28 gennaio 2003, G.U. Simonetta Boccaccia
TRIBUNALE DI MONDOVI’, Sez. unica civile, sentenza 28 gennaio 2003; G.U. Simonetta Boccaccia; Banca Regionale Europea (Avv. Morera) c. Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. Bovetti).

Art. 3 legge 5 luglio 1991, n. 197 – Mancata segnalazione di operazione sospetta – Responsabilità della banca -

(Cod. pen. art. 648-bis )

L’obbligo, previsto dall’art. 3 della legge n. 197 del 5 luglio 1991 per le banche e gli altri intermediari finanziari, di segnalare all’UIC operazioni sospette di riciclaggio non sorge in capo a questi soggetti per il solo fatto che le operazioni ad essi richieste presentino aspetti peculiari ovvero siano poco ortodosse. In ogni caso, la citata normativa non impone alle banche la segnalazione di ogni operazione che fuoriesca dall’ordinario svolgimento dei rapporti bancari, ma solo di quelle che oggettivamente e soggettivamente rivestano carattere “sospetto”.(1).

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(1) L’insostenibile “soggettività” della valutazione di operazioni sospette di riciclaggio.

La sentenza che si annota ripropone con forza e con una carica di preoccupante “aleatorietà” per l’interprete, il problema dell’attuazione, in concreto, dell’art. 3 della legge 5 luglio 1991, n. 197, che colpisce – unitamente all’art. 648-bis del codice penale – il riciclaggio di denaro sporco.

Trattasi di questione antica, oggetto di diatribe poche volte giurisprudenziali, ma anche troppe nella prassi, con gli operatori schierati a favore dell’oggettivizzazione del procedimento segnalatorio e, dalla parte opposta, le Autorità (Banca d’Italia, UIC, Ministero dell’Economia, ecc.), pervicacemente attestate – peraltro con il supporto del dato (testuale) normativo – sulla c.d. “collaborazione attiva”, atto dovuto nella lotta al riciclaggio.

Si dà il caso, però, che il concetto di “collaborazione attiva” sia evanescente e poco definibile in concreto almeno quanto quello della “sana e prudente gestione” di un intermediario piuttosto che quello del “quadro chiaro e fedele” che il bilancio di una azienda deve civilisticamente fornire a chi lo legge.

Ma, mentre nei due esempi che abbiamo testè riportato è risultata (relativamente) più facile, almeno sino ad oggi, l’individuazione di un qualche appiglio ermeneutico, concretizzatosi in prassi quasi universalmente riconosciute, nel caso dell’art. 3 della nominata legge 197/1991 non si può dire ancora di aver avuto analoghe fortune, dato lo sterile (come in questo caso) apporto giurisprudenziale e l’insufficienza, per forza di cose, degli sforzi compiuti dalla Banca d’Italia e dalle Associazioni di categoria degli intermediari finanziari.

L’Autorità creditizia, con le sue “Istruzioni operative per l’individuazione di operazioni sospette” emanate in versione “ter” il 12 gennaio 2001, ha concorso – come abbiamo più volte e in altri casi rammentato[1] – a dissipare molta della fumosità dell’espressione utilizzata dal legislatore del 1991.

Le associazioni di categoria, per la verità, si sono limitate – nelle ipotesi migliori – a tentativi di “equilibrismo interpretativo”, a metà strada tra la “deferenza” verso le disposizioni di cui sopra e “l’opportunismo lobbistico” che deriva dalle loro mission.

Chi scrive crede sia giunto il momento – ne può costituire occasione il prossimo recepimento della Direttiva 2001/97/CE che modifica la 91/308/CE[2] – di fare chiarezza, con un deciso intervento legislativo e poi, autoritativo, su quelli che sono gli esatti confini della materia.

Con la tutela del risparmio non si può scherzare, indugiare, lesinare; il bene giuridico tutelato, per chi ancora non lo avesse chiaro, è questo, secondo quanto si evince da un’attenta lettura a sistema delle norme di primo e secondo livello contro il riciclaggio[3].

Il fatto.

Alla Banca ricorrente presso il Tribunale di Mondovì è stata notificata dal Ministero dell’Economia, così come prevede l’art. 5, comma 5, della legge 197/1991, ingiunzione di pagamento della somma di circa quattordici miliardi di vecchie lire per violazione dell’art. 3 della richiamata legge, ossia per la “omessa segnalazione” di operazioni sospette.

Tali operazioni, compiute da un cliente dell’Istituto di credito, erano evidentemente state trascurate nella loro (apparente) anomalia dal direttore di filiale – condannato in solido con la Banca al pagamento della suddetta somma -, mentre la Guardia di Finanza e il Ministero le avevano ritenute palesemente “anomale”, anzi “sospette”[4].

E’ questo il cardine di questa sentenza, sul quale riteniamo opportuno che si incentri la nostra attenzione, tralasciando le disposizioni, anche perché il tribunale non ha accolto questa eccezione della difesa, sulla (supposta) tardività della notifica del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 14 della legge 689/1981[5].

Per quanto riguarda, invece, le operazioni contestate, il Giudice adìto ha deciso che esse non configurano illecito, ai sensi della normativa de qua, poiché il “giro di assegni” posto in essere dal cliente (e sul quale in appresso si tornerà funditus) non può essere inquadrato tra gli “indici di anomalia” predisposti dalla Banca d’Italia nelle sue “Istruzioni per l’individuazione di operazioni sospette” del 12 gennaio 2001[6] o, meglio, non potrebbe, in base alle circostanze riferite dall’opponente e dai due consulenti tecnici richiesti dallo stesso Giudice, meritare in nessun caso la qualifica di anomalia necessaria, come da legge, all’approfondimento da parte delle Autorità.

Si chiarisce, inoltre, che le operazioni de quibus non integrano il reato di “abusivismo finanziario” ex art. 132 del T.U. bancario, ed anche su questo aspetto non indugiamo in questa sede, se non altro perché è sufficientemente chiaro che ne difettano gli estremi.

Qualche considerazione sull’art. 3 della Legge 197/1991

Il vizio di fondo che ha condotto alle conclusioni appena enunciate e, secondo chi scrive, errate per la parte riguardante la non imputabilità della banca per omessa segnalazione, il Tribunale giudicante, deve essere “ripartito” tra il legislatore della 197/1991 e il Tribunale stesso, poiché l’art. 3 della legge antiriciclaggio è stato scritto male e, di conseguenza, interpretato spesso in misura non rispondente alla ratio legis.

L’obbligo di segnalazione che grava sugli intermediari bancari e finanziari, oggi esteso anche ad altri soggetti e sempre più all’attenzione delle Autorità nazionali ed internazionali[7], non può essere adempiuto correttamente se si eseguono, alla lettera, le indicazioni del richiamato art. 3. Quest’ultimo impone, infatti, di segnalare all’UIC “ogni operazione che, per caratteristiche, entità, natura e qualsivoglia altra circostanza conosciuta a ragione delle funzioni esercitate, induca a ritenere” che la stessa venga posta in essere per occultare la provenienza illecita del denaro o dei titoli che ne formano oggetto.

Abbiamo più volte contestato, in altre sedi[8], la “vaghezza” dei criteri, che per comodità definiremo “oggettivi”, appena richiamati. Ciò vale anche per quelli “soggettivi”, dato che la norma prosegue chiedendo la comparazione dei primi con la “capacità economica” e “l’attività svolta” dal cliente.

Viene da chiedersi, innanzitutto, se questi sei elementi (i quattro oggettivi e i due soggettivi) debbano essere presenti tutti simultaneamente, o ne bastino solo alcuni.

Propenderemmo per quest’ultima interpretazione, anche perché non si tratta di segnalazione di una notitia criminis, come è stato chiarito più volte[9], e quindi, ad esempio, il principio della “tassatività” della fattispecie penale non è applicabile[10].

Il passaggio successivo sta nella definizione, allora, dei casi in cui effettivamente si possa dire che scatti l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette.

Ed è questo, ad oggi, il dilemma irrisolto e, purtroppo, irrisolvibile, almeno fino a quando il meccanismo di attivazione della comunicazione all’UIC di operazioni sospette dovrà passare per una serie di valutazioni tipicamente “soggettive” da parte degli operatori finanziari.

La Banca d’Italia, per sua stessa ammissione nella Premessa alle tre edizioni del suo Decalogo, ha affermato che non può che trattarsi di un ausilio per i suddetti operatori, essendo poi la casistica ivi contenuta non esaustiva; né, tantomeno, essa comporta l’obbligo di attivare il meccanismo de quo in presenza di situazioni che siano astrattamente riconducibili alle fattispecie da essa enucleate nel citato documento.

L’UIC, nella circolare 22 agosto 1997, afferma che per effettuare correttamente le segnalazioni di operazioni sospette il riferimento primario è costituito dal Decalogo della Banca d’Italia, non potendo ovviamente dire che esso è l’unico. Di tal guisa, però, si converrà sul fatto che tale documento dell’Organo di vigilanza sulle banche assurge al rango di “fonte del diritto antiriciclaggio”, come tale non eludibile solo perché – come assurdamente a chi scrive è parso di percepire dagli operatori e, soprattutto, dalla giurisprudenza – è (appare) una mera enunciazione di principi e casi[11].

Ci troveremmo di fronte, quindi, ad una sorta di “norma penale in bianco”, come si è detto da parte di alcuni disquisendo intorno alla nuova formulazione del delitto di usura?

Ovviamente provocatoria è questa nostra impostazione, coscienti - come siamo - che l’art. 3 della legge n. 197/1991 non costituisce, di per sé stessa, norma di matrice penale; semmai, essa assurge a tale ruolo per il richiamo che effettua al codice penale, onde qualificare la fattispecie che deve (rectius: dovrebbe) formare oggetto di segnalazione all’UIC[12].

Tutto quanto precede getta nello sconforto l’interprete, ed anche gli operatori, che dall’interpretazione – specie se giudiziale – del primo dipendono per la qualificazione dalle loro responsabilità in caso di omessa segnalazione[13].

Una cosa appare però certa: laddove l’operatore si trovi in presenza di elementi che facciano ritenere, ad una persona di media diligenza – diligenza qui “qualificata” dal fatto di svolgere una mansione che consente di avere la conoscenza tecnica e l’expertise necessaria allo scopo[14] – che il denaro che si sta in qualche modo movimentando possa essere di provenienza illecita (ed in questo agevola la riferibilità a “qualsiasi” delitto non colposo” ex art. 648-bis c.p.[15]), egli dovrà segnalare (id est: dare impulso alla segnalazione) il fatto a chi gli succede nell’iter interno stabilito dall’intermediario presso il quale lavora.

Beninteso: non è richiesto di fornire “prove” del compiuto delitto, né di riciclaggio né tantomeno di quello presupposto (dato che ciò spetta poi agli investigatori), bensì unicamente di fare presenti situazioni “anomale” nella relazione con il cliente.

Ciò nell’ottica preventiva, è bene ribadirlo, della salvaguardia delle “sana e prudente gestione” dell’intermediario e, per tale via, della tutela della “stabilità” dell’intero sistema finanziario; non invece, come si è portati a ritenere, in un’ottica repressiva di condotte malavitose, che spetta alle Autorità giudiziaria e di polizia[16].

Stiamo però attenti, d’altro canto, a non ingenerare convinzioni del tutto “lassiste” sull’applicazione dell’art. 3 della legge antiriciclaggio, stante la dimostrata difficoltà di approccio alla materia[17].

Non v’è dubbio, infatti, che nel caso in cui un riciclaggio conclamato (e condannato) in sede giudiziaria, originato da indagini della polizia valutaria che, secondariamente, abbiano condotto all’intermediario presso il quale si sono compiute operazioni le quali, icto oculi, sono anomale, ciò obbligherà l’operatore – invertendosi, ipso facto, l’onere della prova – a fornire traccia di una sua attività valutativa, ancorché essa si sia conclusa con l’archiviazione delle segnalazioni.

Ed è qui che il discorso si complica; sì, perché necessariamente, a questo punto, il profilo sanzionatorio di tipo amministrativo segna una profonda divaricazione da quello giuspenalistico.

Senza voler indugiare, comunque, sulla fattispecie che immagina il legislatore dell’art. 648-bis c.p., suffragato della giurisprudenza dominante, non possiamo esimerci dal formulare, in questa sede, qualche osservazione circa il “delitto di riciclaggio”, che è propedeutica ad un più consapevole esame dell’apparato normativo che è stato costruito “a latere” di questa norma.

Abbiamo già avuto modo di servirci, in questo scritto, di un’attenta dottrina in argomento, dalla quale traiamo, ex multiis, i tratti qualificanti la fattispecie de qua.

Si tratta di un reato che, comunque, da quando è stato introdotto nel nostro ordinamento – con la legge 18 marzo 1978, n. 197 – “ha visto ampliato fino quasi ad annullarsi il suo stesso perimetro”[18].

E’ certo che esso si qualifica con l’occultamento della provenienza illecita del denaro o delle cose che ne formano oggetto, prescindendo dalla destinazione delle medesime.

E’ reato generico, che può essere compiuto da chiunque e che necessita di un “reato presupposto” – nel nostro ordinamento “qualsiasi delitto non colposo” – per essere perpetrato. Non necessariamente esso è “concorsuale”, ben potendo essere – almeno secondo chi scrive e la dottrina (che parrebbe essere) minoritaria[19] – commesso dallo stesso autore del reato cosiddetto presupposto.

D’altro canto, va smontata (secondo noi) la prevalente giurisprudenza quando esclude la punibilità dell’autore del reato a monte, fregiandosi della formula di esordio contenuta nel ripetuto art. 648-bis (che recita “fuori dai casi di concorso nel reato”)[20].

Fermandoci su questo ultimo rilievo, e volutamente omettendone approfondimenti poco opportuni in questa sede, possiamo già concludere che le disposizioni intorno alla fattispecie di reato non interferiscono con quelle sulla legge speciale dettata per gli intermediari finanziari.

Tra quest’ultima e il codice penale (rectius: tra le loro statuizioni in subiecta materia) non può, a nostro avviso, nemmeno esistere un rapporto di “genus” e “species”, né tantomeno di interferenza, nella gerarchia delle fonti.

Qui l’errore del legislatore è a monte, è sistematico: non si possono agganciare obblighi sussumibili nella categoria delle prescrizioni amministrative o di vigilanza, che dir si voglia, ad un apparato sanzionatorio e contenutistico di matrice prettamente penale.

La sentenza in epigrafe ne costituisce un precedente paradigmatico. Le sue conclusioni, nonché tutto l’iter argomentativo seguiti dal Tribunale adìto, sono contraddittorie non ex se, ma in relazione al suesposto quadro nel quale esse dovrebbero iscriversi.

Essendo infatti, a torto o a ragione, la fattispecie del riciclaggio “finanziario” – ci si consenta la forzatura terminologica per distinguerlo da quello definito in sede meramente “penale” – costruita intorno al ruolo dell’intermediazione bancaria o finanziaria stessa nella “prevenzione”, attraverso un attento screening dell’operatività della clientela, e conseguente collaborazione attiva con l’Autorità; contenendo, la legge n. 197/1991, precetti più di natura “amministrativo–aziendalistica” che penale; avendo, le Autorità in materia (Banca d’Italia e UIC), assunto ex lege la vigilanza anche su questa materia, con l’ausilio di veri e propri poteri istruttori e di intelligence finanziaria[21]; prevedendo, tutta la normativa (di qualsiasi livello) sugli intermediari finanziari una loro diligenza “particolarmente qualificata” (se ci si passa, anche qui, quella che, peraltro, è solo una apparente “cacofonia giuridica”!); beh, se tutto è ciò è vero, ci si chiede come non si possa mettere in discussione non solo la condotta del cliente della banca ricorrente, ma soprattutto quest’ultima ed il suo apparato “difensivo” contro il riciclaggio.

La legge n.197/1991 è proprio questo che ha richiesto (e altro non poteva fare): l’apprestamento di strumenti “aziendali” idonei a contrastare il fenomeno del riciclaggio, corredandone il mancato possesso da parte degli intermediari per lo più con sanzioni amministrativo-pecuniarie, e confinando le ipotesi reclusive alla mancata tenuta dell’Archivio Unico Informatico (AUI)[22], alla divulgazione della segnalazione di operazioni sospette a soggetti diversi da quelli legittimati a riceverle, al mancato rapporto (da parte dei sindaci) agli organi di vigilanza circa eventuali disfunzioni procedurali riscontrate.

Conferma tutte queste ipotesi l’oggetto della contesa, che verte – se si legge con attenzione il dispositivo della sentenza – sulla valutazione di una più o meno corretta applicazione della legge 689/1981, nonché – e su questo ora ci soffermeremo – sulla fondatezza della riconduzione di una situazione di “fido di fatto” ad un’ipotesi di “anomalia” ai sensi non del codice penale, bensì delle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia emanate il 12 gennaio 2001.

Il Decalogo-ter e il “fido di fatto” sono incompatibili?

Lo spirito del Decalogo della Banca d’Italia e della normativa antiriciclaggio viene correttamente sintetizzato dal Giudice estensore nella premessa (pagg. 11–14) alla trattazione della questione relativa alla mancata segnalazione da parte della banca ricorrente.

Come vedremo, però, la conclusione cui il Tribunale giunge non pare in linea con detta premessa.

Se si ammette, citando testualmente, che “il regime di segnalazione è indubbiamente un regime obbligatorio”, poiché il legislatore ha ritenuto che le finalità della preservazione della solidità e integrità del sistema finanziario “non potessero essere perseguite adeguatamente senza un diretto coinvolgimento degli operatori e una loro responsabilizzazione in ordine al fenomeno dei flussi finanziari causati dall’attività criminale”[23].

Se si conferma, sempre nel documento che stiamo analizzando, che “la dottrina più recente ritiene che già dalla lettura della norma si desumono alcuni criteri cardine atti a classificare l’operazione come sospetta (…), con la conseguenza che diventa fondamentale per la banca, considerata a ogni effetto “ausiliaria di giustizia”, la conoscenza del cliente”, e che la casistica di cui al citato decalogo della Banca d’Italia è solo esemplificativa, ci si chiede, a fortiori, come si possa concludere che un articolato meccanismo di “giro d’assegni” tra più conti intestati al medesimo soggetto ovvero a soggetti a lui in qualche modo riconducibili non possa, in nessun caso, risultare “anomalo” e, per questo, oggetto di segnalazione da parte della banca?[24]

Sì, in nessun caso, perché da quanto affermano sia la difesa della banca condannata per omessa segnalazione, sia il Tribunale che la assolve, si potrebbe tranquillamente assumere – data altresì la penuria di sentenza in materia – che un “fido di fatto”[25] è cosa normale, che un cliente già affidato che si tenta di fare “rientrare” della propria esposizione (non importa come, anzi, sì: con l’utilizzo di potenziali “prestanome”, quali potrebbero essere i soggetti a lui riconducibili che risultano parti del giro di assegni in questione![26]) non può essere un riciclatore, in quanto fa semplicemente il suo “dovere”, cioè quello di restituire dei soldi alla banca (non importa donde essi provengano!)

Ci pare, francamente, che alla base di tale ragionamento ci sia un macroscopico misunderstanding, peraltro - come ribadiamo – in parte “giustificato” dalle incertezze interpretative che, a profusione, la normativa antiriciclaggio pone quotidianamente[27].

Conclusioni

Il fraintendimento dei giudici risiede, a nostro avviso, nella reale portata della legislazione antiriciclaggio, sulla quale invece la dottrina comincia ad essere più convinta e consistente che in passato[28].

Ad abundantiam, va aggiunta l’ammissione (implicita) di colpa da parte della banca, che dichiara – per bocca del direttore generale – di essere a conoscenza del giro di assegni e di tollerarlo per agevolare il rientro della propria creditoria.

Con ciò spostando l’attenzione dal fatto che il soggetto in questione poteva essere già “sospetto” per avere una pluralità di conti, anche se a lui non intestati, ma proprio per questo propenso a quei “frazionamenti” ed a quelle “interposizioni di persone” che, questi sì, costituiscono oggi – al di là del ripetuto dato testuale ex art. 3, co. 1, della legge 197/1991 - nella prassi investigativa dei pericolosi indici di anomalia (quando non di sospetto) circa il rapporto con l’intermediario.

E la banca in questione non potrà, qui, essere così certa (come, giustamente, sulle altre notizie in suo possesso) dell’origine dei fondi utilizzati per “coprire” gli assegni di comodo emessi per alimentare – come descritto dal consulente del Tribunale – il fido di fatto.

Infine, last but not least, dovremmo discutere sulla liceità – se non altro rispetto alle regole di vigilanza, che pure le banche sono tenute ad osservare – dall’abusiva concessione del credito da parte dell’operatore bancario.

Laddove questa fosse, infatti, qualificabile come tale, non vi sarebbe più alcun dubbio – ma di questo il Collegio giudicante pare disinteressarsi in questa vicenda – sulla infondatezza (rectius: sulla erroneità) della tesi assolutoria, contro la quale, peraltro, il Dicastero soccombente ha già proposto ricorso.

Chi scrive non è certamente tra i fautori di questa soggettività imperante nella attribuzione di responsabilità di omessa segnalazione di operazioni sospette[29]; ma, dall’esame della legislazione vigente – che dobbiamo come tale tenere per buona – i casi come quello qui analizzato lasciano ben poco spazio a dubbi, creando anzi pesanti sperequazioni (le opposte conclusioni dal Tribunale in questione rispetto a fattispecie analoghe relativamente alla “oggettività” dei comportamenti) che hanno già formato oggetto di sanzione[30].



[1] Ci sia consentito rinviare, tra gli altri, al nostro Osservazioni sul nuovo regime di segnalazione di operazioni sospette ai sensi del d. lgs. 26 maggio 1997, n. 153, in questa Riv., 1998, II, pag. 35.

[2] Per un primo commento della quale si veda R. Razzante, Le nuove regole comunitarie per la lotta al riciclaggio, in Dir. Pr. Soc., n. 6-8/2002, pag. 33. Nel frattempo, va segnalato che il Consiglio dei Ministri ha approvato, nella seduta del 7 novembre u.s., lo schema di d. lgs. che recepisce la citata direttiva; per un esame del testo ed un primo commento si veda il nostro Guerra al riciclaggio, su Italia Oggi del 8 novembre 2003, pag. 35.

[3] In tal senso, soprattutto per un’analisi internazionale del fenomeno, si veda T. Lupacchini Trevisson , Strumenti internazionali per il contrasto del riciclaggio di capitali, in Giust. Pen., 2002, III, pag. 194.

[4] Sulla distinzione tra operazione “anomala” e operazione “sospetta” si veda, per tutti, U. Morera, Sull’obbligo di segnalazione delle operazioni bancarie ex art. 3, legge antiriciclaggio, in questa Riv., 1999, I, pag. 47.

[5] Risulta infatti abbastanza pacifico come differenti siano i termini (rectius: il loro computo) a seconda che ci si trovi di fronte ad un’attività di accertamento da parte della P.A. più o meno complesso ed articolato; conforme, in dottrina, A. Carrato-F. De Stefano, Le sanzioni amministrative, Milano, 1994, pag. 123. In merito, si ritengono poi più che sufficienti i puntuali richiami giurisprudenziali operati dall’estensore della sentenza che qui si annota e, in particolare (almeno secondo chi scrive), quello a Cass. 19 maggio 2000, n. 6531 (in Mass. Giur. It. 2000), secondo il quale orientamento “spetta al giudice di merito di apprezzare la congruità del tempo ragionevolmente necessario alla PA per acquisire i dati e valutarne la consistenza ai fini della corretta formulazione della contestazione”: senza questa possibilità, stante la peculiarità delle indagini che gli organi accertatori sono costretti ad effettuare in subiecta materia, qualsivoglia contestazione potrebbe – nei fatti – essere resa vana per meri motivi formali, “brutalizzando” la ratio della normativa antiriciclaggio.

[6] Pubblicate nella G.U. n. 37 del 14 febbraio 2001, e da noi commentate approfonditamente in questa Riv., Il Decalogo-ter contro il riciclaggio: prime osservazioni, 2001, I, pag. 92 e ss.

[7] Il cennato schema di d. lgs. approvato dal Governo recepisce altresì le indicazioni già fornite dal legislatore nazionale con il d. lgs. n. 374 del 25 settembre 1999, da noi commentato in Arch. Civ., La normativa antiriciclaggio per le imprese non finanziarie, n. 2/2000, pag. 149. Per un commento più specifico alla nuova direttiva si veda, da ultimo, R. Razzante, Antiriciclaggio e libere professioni, in Dir. Econ. dell’Ass.,2003, pag. 141; per la ratio della medesima, nell’ottica internazionale, da ultimo F. de Brouwer, Vers une nouvelle directive en matiere de blanchiment de capitaux, in Revue de Droit des Affaires Internationales, 2000, pag. 301.

[8] Si vedano gli scritti citati nelle note precedenti, nonché quelli di altra e più autorevole dottrina ivi menzionati.

[9] Si veda il citato Decalogo della Banca d’Italia. Ancora, F. Toscano-R.Razzante, Il segreto bancario nelle indagini tributarie e antiriciclaggio, Milano, 2002, pag. 334; A. Manna, Riciclaggio e reati connessi con l’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, pag. 385 (e dottrina ivi citata).

[10] Non è necessario, cioè, che si verifichino – per la “determinatezza delle fattispecie incriminatici” – tutte le circostanze affinché si integri la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice stessa; e, in questo caso, detto principio non sarebbe applicabile anche per una ragione più immediatamente oggettiva, che abbiamo già evidenziato, di scarsa chiarezza del dettato normativo, per cui verrebbe elusa quella fondamentale impostazione dottrinale che recita: “una norma penale persegue lo scopo di essere obbedita, ma obbedita non può essere se il destinatario non ha la possibilità di conoscerne con sufficiente chiarezza il contenuto” (così G. Fiandaca-E.Musco,Diritto penale, Bologna, 2001, pag. 66).

[11] Pertanto, il mancato rispetto della parte più “oggettiva” del documento potrebbe essere sanzionabile alla stregua di una più o meno “grave” violazione delle disposizioni “amministrative” di cui parlano gli articoli 70 e 80 nell’enumerare i presupposti per l’assoggettamento ad amministrazione straordinaria ovvero a liquidazione coatta amministrativa. In tal senso sembra confortarci l’analisi della dottrina e giurisprudenza sul tema autorevolmente operata da F. Capriglione, Commento sub art. 70, in Commentario al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura dello stesso A., Padova, 2001, pag. 539 e ss. Non è peregrino pensare che queste possano costituire una sorta di sanzioni “accessorie” nei casi che qui si discutono, anche perché la Banca d’Italia, a seguito di procedimenti penali, le ha – seppure rarissimamente – già applicate.

[12] Di “autonomia strutturale” intercorrente fra le diverse fattispecie previste dalla legge n. 197/1991 parla S. Faiella, Offesa e sanzione nel cd. “riciclaggio di carte di credito”, in Cass. Pen., 2002, 9 (nota a SS.UU. n. 22902 del 28 marzo 2001).

[13] E qui non si può che concordare con S. Faiella, L’integrazione europea nella disciplina antiriciclaggio, in Giust. Pen., 2001, II, pag. 251, laddove egli afferma che “l’assetto normativo dettato per il reato in oggetto, segnatamente alla luce dell’interpretazione che di esso viene offerta dalla prevalente giurisprudenza, sembra aver seguito senza posa, e senza approfondita riflessione, l’allarme sociale destato dal fenomeno, tracciando così i contorni di una disciplina di tale ultimo priva di una rigida logica giuridica nella selezione delle condotte e dei fatti realmente dotati di disvalore penale”.

[14] Si segnala in materia una interessante (e pionieristica) sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (la n. 12414 del 22 agosto 2002, pubblicata, con nostra nota di commento - Osservazioni in tema di normativa antiriciclaggio e doveri di fedeltà dei dipendenti bancari -, in Giur. It., 2003, pag. 646), la quale ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente di banca per aver posto in essere una serie di comportamenti agevolativi della violazione della normativa antiriciclaggio, anche facendo riferimento, chiaramente, alla omissione di diligenza.

[15] Con l’esclusione, rilevata da attenta dottrina, di tutti quelli che non siano capaci di “produrre ricchezza illecita” (v. Manna, op. cit., pag. 103).

[16] Per quanto attiene al “bene giuridico tutelato” dalla normativa in discorso, la sua individuazione è ancora controversa sia in dottrina che in giurisprudenza, ma si può essere indubbiamente d’accordo con U. Guerini, Le norme del codice penale in tema di repressione dei fenomeni di riciclaggio, in Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, a cura di A. Meyer e L. Stortoni, Utet, Torino, 2002, pag. 397, quando afferma che “il delitto di riciclaggio, nella sua attuale formulazione, si presenta come fattispecie plurilesiva, in quanto sono diversi i beni giuridici che possono considerarsi ricompresi nell’oggetto della tutela”.

[17] E’ frutto di un approccio distorto (oltre che poco approfondito), ad esempio, il commento di G. La Villa, Riciclaggio e responsabilità di amministratori e sindaci, in Giur. Comm., 1992, I, pag. 799, il quale afferma polemicamente che con la legge antiriciclaggio si è preferito “criminalizzare il povero funzionario di banca o il piazzista di prodotti finanziari” invece di “colpire con severità il crimine alle sue origini personali e territoriali”.

[18] Così Faiella, op. loc. ult. cit., pag. 235.

[19] Si vedano il già citato Faiella, pag. 241, che parla efficacemente di “autoriciclaggio”; Trevisson Lupacchini, op. cit., pag. 203, testualmente afferma che “nello schema tipico si avrà sempre un soggetto il quale, commesso un reato che ha prodotto accumulazione di proventi illeciti, movimenta flussi da riciclare, al fine di accrescere successivamente le sue disponibilità finanziarie, attraverso un’attività di investimento nel settore legale o di riaccumulazione nel settore illegale”.

[20] Contra, ad es., Manna, op. cit., pag. 95 e ss.

[21] Ci riferiamo, in particolare, all’UIC, ed alle competenze che gli sono state affidate dapprima con il d.lgs. n. 153/1997, poi con la legge n. 388/2000, per un’analisi delle quali rinviamo a B. Santacroce, Riciclaggio: rete UIC per lo scambio di informazioni, in Guida al Diritto, 2001, pag. 123; F. Capriglione, UME e riforme del sistema delle banche centrali: l’UIC tra passato e avvenire, in B.b.t.c., 1997, I, pag. 677.

[22] Un’efficace sintesi circa l’importanza della tenuta di tale Archivio è in G. Sbarra, I presidi antiriciclaggio, in Riv. G.d.F., 1997, pag. 1013; ancora, T. Luise, Il patrimonio informativo delle banche e degli intermediari finanziari, in Banche e banchieri, n. 3/1997, pag. 214.

[23] Autorevole conferma a questa tesi giunge, ex plurimis, da G. Nanula, Le bucature del sistema normativo antiriciclaggio, in Riv. G.d.F., 1997, pag. 47, laddove l’ex Comandante in Seconda delle Fiamme Gialle afferma che “il segreto per il buon esito, in tempi ragionevoli, delle indagini patrimoniali, risiede allora nello studio del soggetto inquisito, nel rilevamento dei suoi spostamenti, degli istituti di credito frequentati, degli uomini d’affari con i quali abbia rapporti, ecc.”; in senso analogo, B. Santacroce, L’intermediario finanziario e la legge antiriciclaggio: dall’anomalia al sospetto, in Il Fisco, 1996, pag. 5159; A. Laudati, Riciclaggio e intermediazione bancaria, in Riv. Pen. Econ., 1995, pag. 179, il quale assegna, in tali frangenti, addirittura un ruolo “pubblicistico” agli operatori finanziari; G. M. Flick, Intermediazione finanziaria, informazione e lotta al riciclaggio, in Riv. Soc., 1991, pag. 475; F. Toscano-R.Razzante, cit., passim; U. Di Nuzzo-R.Razzante, Scudo fiscale e lotta al terrorismo nel quadro della globalizzazione finanziaria, in questa Riv., 2002, pag. 3; A. Manna, op. cit., pagg. 211-245.

[24] Le Istruzioni (Decalogo-ter) della Banca d’Italia, proprio al par. 6 relativo agli indici di anomalia sui comportamenti della clientela, prevedono specificatamente (indice 6.7 e, ad abundantiam, il 6.10) come “anomali” i comportamenti della specie di quelli posti in essere dal cliente di cui al provvedimento in commento.

[25] Circa questa particolare tipologia di fido, si veda in particolare U. Morera, Il fido bancario, Milano, 1998, pag. 168, il quale chiaramente (e più che giustamente, secondo noi) afferma che “la concessione del fido ad un’impresa in stato di decozione [forse qui ipotizzabile, ancorché per analogia, aggiungiamo noi], pur integrando in sè un’attività lecita e corrispondente all’esercizio di un diritto [?], si possa trovare esposta ad un’azione risarcitoria qualora (si provi che tale attività) sia chiaramente strumentale al diretto perseguimento di vantaggi egoistici a pregiudizio degli altri creditori”: è proprio il caso analizzato dalla sentenza in commento, e l’A. prosegue, d’altronde, con esempi che chiaramente vi sono accostabili.

[26] Comportamento, questo, esplicitamente censurato dalla norma primaria, l’art. 3, comma 1, della legge n. 197/1991, laddove parla di “interposizioni di persone”.

[27] D’altro canto, nel caso di specie, trova sicura applicazione quel concetto, ribadito dal Morera, op. loc. ult. cit., pag. 170, che “le vicende concernenti il contratto creditizio – pur concettualmente autonome rispetto alle vicende del fido – non risultano avulse e comunque del tutto indipendenti da queste ultime”; nella sentenza che si annota e, meglio ancora, nell’applicare la normativa antiriciclaggio, questo dovrebbe essere principio cardine per l’identificazione – secondo quanto richiesto dalla Banca d’Italia nel più volte citato Decalogo – della finalità dell’operazione posta in essere.

[28] Oltre a quella già citata in questo scritto, si vedano, sul punto, S. Bartone, Riciclaggio: status attuale della lotta e responsabilità degli enti finanziari, in Diritto e Giustizia, n. 19/2003, pag. 11; Ceradi-Luiss, La disciplina del riciclaggio, Audizione presso la VI Comm. del Senato della Repubblica del 12 dicembre 2001; V. Desario, La cooperazione nella lotta alla criminalità economica, in Documenti Banca d’Italia, n. 605/1998; A. Gasy, I soldi sporchi, ISBA, Trento, 2001; Secondo Rapporto Bocconi-DIA-DNA-UIC, Immigrazione e flussi finanziari, Milano, 2003; M. Condemi-F. De Pasquale, Profili internazionali di prevenzione e contrasto del riciclaggio di capitali illeciti, UIC, marzo 2003. Con riguardo, in particolare, alla “tutela penale del credito”, da noi tra l’altro ampiamente sostenuta (e in questa sentenza, ci pare, denegata) come ratio ispiratrice della normativa de qua, si veda, da ultimo, V. Patalano, Reati e illeciti del diritto bancario, Torino, 2003.

[29] Tra i nostri continui richiami alla “oggettivizzazione” delle segnalazioni, soprattutto con l’ausilio della mai attuata “anagrafe dei conti”, si veda, tra gli altri, quello contenuto in Il Decalogo-ter contro il riciclaggio, in questa Riv., 2001, pag. 94.

[30] Come affermato infatti da S. Faiella, op. cit., pag. 256 (al quale si rinvia per le citazioni della giurisprudenza cui facciamo riferimento), “se c’è qualcosa di incontestabile è che mai i denari sono più visibili di quando li si deposita su un conto corrente normale”. E si può aggiungere la frase di G. Santacroce, Usura, riciclaggio e sistema bancario: linee di una strategia composita di contrasto, in Giust. Pen., 1995, II, pag. 253, il quale significativamente (soprattutto ai fini che qui ci proponiamo) afferma che “avendo a che fare con concetti come il “sospetto” (…) o come la mera provenienza delittuosa potenziale dell’oggetto dell’operazione da uno dei delitti presupposti dell’art. 648-bis c.p. (…), l’omissione della segnalazione tende a porre l’intermediario in una situazione di pericolosa vicinanza col reato base, e quindi in una posizione di possibile coinvolgimento penale”.

TRIBUNALE DI MONDOVI’, Sez. unica civile, sentenza 28 gennaio 2003; G.U. Simonetta Boccaccia; Banca Regionale Europea (Avv. Morera) c. Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. Bovetti).

Art. 3 legge 5 luglio 1991, n. 197 – Mancata segnalazione di operazione sospetta – Responsabilità della banca -

(Cod. pen. art. 648-bis )

L’obbligo, previsto dall’art. 3 della legge n. 197 del 5 luglio 1991 per le banche e gli altri intermediari finanziari, di segnalare all’UIC operazioni sospette di riciclaggio non sorge in capo a questi soggetti per il solo fatto che le operazioni ad essi richieste presentino aspetti peculiari ovvero siano poco ortodosse. In ogni caso, la citata normativa non impone alle banche la segnalazione di ogni operazione che fuoriesca dall’ordinario svolgimento dei rapporti bancari, ma solo di quelle che oggettivamente e soggettivamente rivestano carattere “sospetto”.(1).

***

(1) L’insostenibile “soggettività” della valutazione di operazioni sospette di riciclaggio.

La sentenza che si annota ripropone con forza e con una carica di preoccupante “aleatorietà” per l’interprete, il problema dell’attuazione, in concreto, dell’art. 3 della legge 5 luglio 1991, n. 197, che colpisce – unitamente all’art. 648-bis del codice penale – il riciclaggio di denaro sporco.

Trattasi di questione antica, oggetto di diatribe poche volte giurisprudenziali, ma anche troppe nella prassi, con gli operatori schierati a favore dell’oggettivizzazione del procedimento segnalatorio e, dalla parte opposta, le Autorità (Banca d’Italia, UIC, Ministero dell’Economia, ecc.), pervicacemente attestate – peraltro con il supporto del dato (testuale) normativo – sulla c.d. “collaborazione attiva”, atto dovuto nella lotta al riciclaggio.

Si dà il caso, però, che il concetto di “collaborazione attiva” sia evanescente e poco definibile in concreto almeno quanto quello della “sana e prudente gestione” di un intermediario piuttosto che quello del “quadro chiaro e fedele” che il bilancio di una azienda deve civilisticamente fornire a chi lo legge.

Ma, mentre nei due esempi che abbiamo testè riportato è risultata (relativamente) più facile, almeno sino ad oggi, l’individuazione di un qualche appiglio ermeneutico, concretizzatosi in prassi quasi universalmente riconosciute, nel caso dell’art. 3 della nominata legge 197/1991 non si può dire ancora di aver avuto analoghe fortune, dato lo sterile (come in questo caso) apporto giurisprudenziale e l’insufficienza, per forza di cose, degli sforzi compiuti dalla Banca d’Italia e dalle Associazioni di categoria degli intermediari finanziari.

L’Autorità creditizia, con le sue “Istruzioni operative per l’individuazione di operazioni sospette” emanate in versione “ter” il 12 gennaio 2001, ha concorso – come abbiamo più volte e in altri casi rammentato[1] – a dissipare molta della fumosità dell’espressione utilizzata dal legislatore del 1991.

Le associazioni di categoria, per la verità, si sono limitate – nelle ipotesi migliori – a tentativi di “equilibrismo interpretativo”, a metà strada tra la “deferenza” verso le disposizioni di cui sopra e “l’opportunismo lobbistico” che deriva dalle loro mission.

Chi scrive crede sia giunto il momento – ne può costituire occasione il prossimo recepimento della Direttiva 2001/97/CE che modifica la 91/308/CE[2] – di fare chiarezza, con un deciso intervento legislativo e poi, autoritativo, su quelli che sono gli esatti confini della materia.

Con la tutela del risparmio non si può scherzare, indugiare, lesinare; il bene giuridico tutelato, per chi ancora non lo avesse chiaro, è questo, secondo quanto si evince da un’attenta lettura a sistema delle norme di primo e secondo livello contro il riciclaggio[3].

Il fatto.

Alla Banca ricorrente presso il Tribunale di Mondovì è stata notificata dal Ministero dell’Economia, così come prevede l’art. 5, comma 5, della legge 197/1991, ingiunzione di pagamento della somma di circa quattordici miliardi di vecchie lire per violazione dell’art. 3 della richiamata legge, ossia per la “omessa segnalazione” di operazioni sospette.

Tali operazioni, compiute da un cliente dell’Istituto di credito, erano evidentemente state trascurate nella loro (apparente) anomalia dal direttore di filiale – condannato in solido con la Banca al pagamento della suddetta somma -, mentre la Guardia di Finanza e il Ministero le avevano ritenute palesemente “anomale”, anzi “sospette”[4].

E’ questo il cardine di questa sentenza, sul quale riteniamo opportuno che si incentri la nostra attenzione, tralasciando le disposizioni, anche perché il tribunale non ha accolto questa eccezione della difesa, sulla (supposta) tardività della notifica del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 14 della legge 689/1981[5].

Per quanto riguarda, invece, le operazioni contestate, il Giudice adìto ha deciso che esse non configurano illecito, ai sensi della normativa de qua, poiché il “giro di assegni” posto in essere dal cliente (e sul quale in appresso si tornerà funditus) non può essere inquadrato tra gli “indici di anomalia” predisposti dalla Banca d’Italia nelle sue “Istruzioni per l’individuazione di operazioni sospette” del 12 gennaio 2001[6] o, meglio, non potrebbe, in base alle circostanze riferite dall’opponente e dai due consulenti tecnici richiesti dallo stesso Giudice, meritare in nessun caso la qualifica di anomalia necessaria, come da legge, all’approfondimento da parte delle Autorità.

Si chiarisce, inoltre, che le operazioni de quibus non integrano il reato di “abusivismo finanziario” ex art. 132 del T.U. bancario, ed anche su questo aspetto non indugiamo in questa sede, se non altro perché è sufficientemente chiaro che ne difettano gli estremi.

Qualche considerazione sull’art. 3 della Legge 197/1991

Il vizio di fondo che ha condotto alle conclusioni appena enunciate e, secondo chi scrive, errate per la parte riguardante la non imputabilità della banca per omessa segnalazione, il Tribunale giudicante, deve essere “ripartito” tra il legislatore della 197/1991 e il Tribunale stesso, poiché l’art. 3 della legge antiriciclaggio è stato scritto male e, di conseguenza, interpretato spesso in misura non rispondente alla ratio legis.

L’obbligo di segnalazione che grava sugli intermediari bancari e finanziari, oggi esteso anche ad altri soggetti e sempre più all’attenzione delle Autorità nazionali ed internazionali[7], non può essere adempiuto correttamente se si eseguono, alla lettera, le indicazioni del richiamato art. 3. Quest’ultimo impone, infatti, di segnalare all’UIC “ogni operazione che, per caratteristiche, entità, natura e qualsivoglia altra circostanza conosciuta a ragione delle funzioni esercitate, induca a ritenere” che la stessa venga posta in essere per occultare la provenienza illecita del denaro o dei titoli che ne formano oggetto.

Abbiamo più volte contestato, in altre sedi[8], la “vaghezza” dei criteri, che per comodità definiremo “oggettivi”, appena richiamati. Ciò vale anche per quelli “soggettivi”, dato che la norma prosegue chiedendo la comparazione dei primi con la “capacità economica” e “l’attività svolta” dal cliente.

Viene da chiedersi, innanzitutto, se questi sei elementi (i quattro oggettivi e i due soggettivi) debbano essere presenti tutti simultaneamente, o ne bastino solo alcuni.

Propenderemmo per quest’ultima interpretazione, anche perché non si tratta di segnalazione di una notitia criminis, come è stato chiarito più volte[9], e quindi, ad esempio, il principio della “tassatività” della fattispecie penale non è applicabile[10].

Il passaggio successivo sta nella definizione, allora, dei casi in cui effettivamente si possa dire che scatti l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette.

Ed è questo, ad oggi, il dilemma irrisolto e, purtroppo, irrisolvibile, almeno fino a quando il meccanismo di attivazione della comunicazione all’UIC di operazioni sospette dovrà passare per una serie di valutazioni tipicamente “soggettive” da parte degli operatori finanziari.

La Banca d’Italia, per sua stessa ammissione nella Premessa alle tre edizioni del suo Decalogo, ha affermato che non può che trattarsi di un ausilio per i suddetti operatori, essendo poi la casistica ivi contenuta non esaustiva; né, tantomeno, essa comporta l’obbligo di attivare il meccanismo de quo in presenza di situazioni che siano astrattamente riconducibili alle fattispecie da essa enucleate nel citato documento.

L’UIC, nella circolare 22 agosto 1997, afferma che per effettuare correttamente le segnalazioni di operazioni sospette il riferimento primario è costituito dal Decalogo della Banca d’Italia, non potendo ovviamente dire che esso è l’unico. Di tal guisa, però, si converrà sul fatto che tale documento dell’Organo di vigilanza sulle banche assurge al rango di “fonte del diritto antiriciclaggio”, come tale non eludibile solo perché – come assurdamente a chi scrive è parso di percepire dagli operatori e, soprattutto, dalla giurisprudenza – è (appare) una mera enunciazione di principi e casi[11].

Ci troveremmo di fronte, quindi, ad una sorta di “norma penale in bianco”, come si è detto da parte di alcuni disquisendo intorno alla nuova formulazione del delitto di usura?

Ovviamente provocatoria è questa nostra impostazione, coscienti - come siamo - che l’art. 3 della legge n. 197/1991 non costituisce, di per sé stessa, norma di matrice penale; semmai, essa assurge a tale ruolo per il richiamo che effettua al codice penale, onde qualificare la fattispecie che deve (rectius: dovrebbe) formare oggetto di segnalazione all’UIC[12].

Tutto quanto precede getta nello sconforto l’interprete, ed anche gli operatori, che dall’interpretazione – specie se giudiziale – del primo dipendono per la qualificazione dalle loro responsabilità in caso di omessa segnalazione[13].

Una cosa appare però certa: laddove l’operatore si trovi in presenza di elementi che facciano ritenere, ad una persona di media diligenza – diligenza qui “qualificata” dal fatto di svolgere una mansione che consente di avere la conoscenza tecnica e l’expertise necessaria allo scopo[14] – che il denaro che si sta in qualche modo movimentando possa essere di provenienza illecita (ed in questo agevola la riferibilità a “qualsiasi” delitto non colposo” ex art. 648-bis c.p.[15]), egli dovrà segnalare (id est: dare impulso alla segnalazione) il fatto a chi gli succede nell’iter interno stabilito dall’intermediario presso il quale lavora.

Beninteso: non è richiesto di fornire “prove” del compiuto delitto, né di riciclaggio né tantomeno di quello presupposto (dato che ciò spetta poi agli investigatori), bensì unicamente di fare presenti situazioni “anomale” nella relazione con il cliente.

Ciò nell’ottica preventiva, è bene ribadirlo, della salvaguardia delle “sana e prudente gestione” dell’intermediario e, per tale via, della tutela della “stabilità” dell’intero sistema finanziario; non invece, come si è portati a ritenere, in un’ottica repressiva di condotte malavitose, che spetta alle Autorità giudiziaria e di polizia[16].

Stiamo però attenti, d’altro canto, a non ingenerare convinzioni del tutto “lassiste” sull’applicazione dell’art. 3 della legge antiriciclaggio, stante la dimostrata difficoltà di approccio alla materia[17].

Non v’è dubbio, infatti, che nel caso in cui un riciclaggio conclamato (e condannato) in sede giudiziaria, originato da indagini della polizia valutaria che, secondariamente, abbiano condotto all’intermediario presso il quale si sono compiute operazioni le quali, icto oculi, sono anomale, ciò obbligherà l’operatore – invertendosi, ipso facto, l’onere della prova – a fornire traccia di una sua attività valutativa, ancorché essa si sia conclusa con l’archiviazione delle segnalazioni.

Ed è qui che il discorso si complica; sì, perché necessariamente, a questo punto, il profilo sanzionatorio di tipo amministrativo segna una profonda divaricazione da quello giuspenalistico.

Senza voler indugiare, comunque, sulla fattispecie che immagina il legislatore dell’art. 648-bis c.p., suffragato della giurisprudenza dominante, non possiamo esimerci dal formulare, in questa sede, qualche osservazione circa il “delitto di riciclaggio”, che è propedeutica ad un più consapevole esame dell’apparato normativo che è stato costruito “a latere” di questa norma.

Abbiamo già avuto modo di servirci, in questo scritto, di un’attenta dottrina in argomento, dalla quale traiamo, ex multiis, i tratti qualificanti la fattispecie de qua.

Si tratta di un reato che, comunque, da quando è stato introdotto nel nostro ordinamento – con la legge 18 marzo 1978, n. 197 – “ha visto ampliato fino quasi ad annullarsi il suo stesso perimetro”[18].

E’ certo che esso si qualifica con l’occultamento della provenienza illecita del denaro o delle cose che ne formano oggetto, prescindendo dalla destinazione delle medesime.

E’ reato generico, che può essere compiuto da chiunque e che necessita di un “reato presupposto” – nel nostro ordinamento “qualsiasi delitto non colposo” – per essere perpetrato. Non necessariamente esso è “concorsuale”, ben potendo essere – almeno secondo chi scrive e la dottrina (che parrebbe essere) minoritaria[19] – commesso dallo stesso autore del reato cosiddetto presupposto.

D’altro canto, va smontata (secondo noi) la prevalente giurisprudenza quando esclude la punibilità dell’autore del reato a monte, fregiandosi della formula di esordio contenuta nel ripetuto art. 648-bis (che recita “fuori dai casi di concorso nel reato”)[20].

Fermandoci su questo ultimo rilievo, e volutamente omettendone approfondimenti poco opportuni in questa sede, possiamo già concludere che le disposizioni intorno alla fattispecie di reato non interferiscono con quelle sulla legge speciale dettata per gli intermediari finanziari.

Tra quest’ultima e il codice penale (rectius: tra le loro statuizioni in subiecta materia) non può, a nostro avviso, nemmeno esistere un rapporto di “genus” e “species”, né tantomeno di interferenza, nella gerarchia delle fonti.

Qui l’errore del legislatore è a monte, è sistematico: non si possono agganciare obblighi sussumibili nella categoria delle prescrizioni amministrative o di vigilanza, che dir si voglia, ad un apparato sanzionatorio e contenutistico di matrice prettamente penale.

La sentenza in epigrafe ne costituisce un precedente paradigmatico. Le sue conclusioni, nonché tutto l’iter argomentativo seguiti dal Tribunale adìto, sono contraddittorie non ex se, ma in relazione al suesposto quadro nel quale esse dovrebbero iscriversi.

Essendo infatti, a torto o a ragione, la fattispecie del riciclaggio “finanziario” – ci si consenta la forzatura terminologica per distinguerlo da quello definito in sede meramente “penale” – costruita intorno al ruolo dell’intermediazione bancaria o finanziaria stessa nella “prevenzione”, attraverso un attento screening dell’operatività della clientela, e conseguente collaborazione attiva con l’Autorità; contenendo, la legge n. 197/1991, precetti più di natura “amministrativo–aziendalistica” che penale; avendo, le Autorità in materia (Banca d’Italia e UIC), assunto ex lege la vigilanza anche su questa materia, con l’ausilio di veri e propri poteri istruttori e di intelligence finanziaria[21]; prevedendo, tutta la normativa (di qualsiasi livello) sugli intermediari finanziari una loro diligenza “particolarmente qualificata” (se ci si passa, anche qui, quella che, peraltro, è solo una apparente “cacofonia giuridica”!); beh, se tutto è ciò è vero, ci si chiede come non si possa mettere in discussione non solo la condotta del cliente della banca ricorrente, ma soprattutto quest’ultima ed il suo apparato “difensivo” contro il riciclaggio.

La legge n.197/1991 è proprio questo che ha richiesto (e altro non poteva fare): l’apprestamento di strumenti “aziendali” idonei a contrastare il fenomeno del riciclaggio, corredandone il mancato possesso da parte degli intermediari per lo più con sanzioni amministrativo-pecuniarie, e confinando le ipotesi reclusive alla mancata tenuta dell’Archivio Unico Informatico (AUI)[22], alla divulgazione della segnalazione di operazioni sospette a soggetti diversi da quelli legittimati a riceverle, al mancato rapporto (da parte dei sindaci) agli organi di vigilanza circa eventuali disfunzioni procedurali riscontrate.

Conferma tutte queste ipotesi l’oggetto della contesa, che verte – se si legge con attenzione il dispositivo della sentenza – sulla valutazione di una più o meno corretta applicazione della legge 689/1981, nonché – e su questo ora ci soffermeremo – sulla fondatezza della riconduzione di una situazione di “fido di fatto” ad un’ipotesi di “anomalia” ai sensi non del codice penale, bensì delle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia emanate il 12 gennaio 2001.

Il Decalogo-ter e il “fido di fatto” sono incompatibili?

Lo spirito del Decalogo della Banca d’Italia e della normativa antiriciclaggio viene correttamente sintetizzato dal Giudice estensore nella premessa (pagg. 11–14) alla trattazione della questione relativa alla mancata segnalazione da parte della banca ricorrente.

Come vedremo, però, la conclusione cui il Tribunale giunge non pare in linea con detta premessa.

Se si ammette, citando testualmente, che “il regime di segnalazione è indubbiamente un regime obbligatorio”, poiché il legislatore ha ritenuto che le finalità della preservazione della solidità e integrità del sistema finanziario “non potessero essere perseguite adeguatamente senza un diretto coinvolgimento degli operatori e una loro responsabilizzazione in ordine al fenomeno dei flussi finanziari causati dall’attività criminale”[23].

Se si conferma, sempre nel documento che stiamo analizzando, che “la dottrina più recente ritiene che già dalla lettura della norma si desumono alcuni criteri cardine atti a classificare l’operazione come sospetta (…), con la conseguenza che diventa fondamentale per la banca, considerata a ogni effetto “ausiliaria di giustizia”, la conoscenza del cliente”, e che la casistica di cui al citato decalogo della Banca d’Italia è solo esemplificativa, ci si chiede, a fortiori, come si possa concludere che un articolato meccanismo di “giro d’assegni” tra più conti intestati al medesimo soggetto ovvero a soggetti a lui in qualche modo riconducibili non possa, in nessun caso, risultare “anomalo” e, per questo, oggetto di segnalazione da parte della banca?[24]

Sì, in nessun caso, perché da quanto affermano sia la difesa della banca condannata per omessa segnalazione, sia il Tribunale che la assolve, si potrebbe tranquillamente assumere – data altresì la penuria di sentenza in materia – che un “fido di fatto”[25] è cosa normale, che un cliente già affidato che si tenta di fare “rientrare” della propria esposizione (non importa come, anzi, sì: con l’utilizzo di potenziali “prestanome”, quali potrebbero essere i soggetti a lui riconducibili che risultano parti del giro di assegni in questione![26]) non può essere un riciclatore, in quanto fa semplicemente il suo “dovere”, cioè quello di restituire dei soldi alla banca (non importa donde essi provengano!)

Ci pare, francamente, che alla base di tale ragionamento ci sia un macroscopico misunderstanding, peraltro - come ribadiamo – in parte “giustificato” dalle incertezze interpretative che, a profusione, la normativa antiriciclaggio pone quotidianamente[27].

Conclusioni

Il fraintendimento dei giudici risiede, a nostro avviso, nella reale portata della legislazione antiriciclaggio, sulla quale invece la dottrina comincia ad essere più convinta e consistente che in passato[28].

Ad abundantiam, va aggiunta l’ammissione (implicita) di colpa da parte della banca, che dichiara – per bocca del direttore generale – di essere a conoscenza del giro di assegni e di tollerarlo per agevolare il rientro della propria creditoria.

Con ciò spostando l’attenzione dal fatto che il soggetto in questione poteva essere già “sospetto” per avere una pluralità di conti, anche se a lui non intestati, ma proprio per questo propenso a quei “frazionamenti” ed a quelle “interposizioni di persone” che, questi sì, costituiscono oggi – al di là del ripetuto dato testuale ex art. 3, co. 1, della legge 197/1991 - nella prassi investigativa dei pericolosi indici di anomalia (quando non di sospetto) circa il rapporto con l’intermediario.

E la banca in questione non potrà, qui, essere così certa (come, giustamente, sulle altre notizie in suo possesso) dell’origine dei fondi utilizzati per “coprire” gli assegni di comodo emessi per alimentare – come descritto dal consulente del Tribunale – il fido di fatto.

Infine, last but not least, dovremmo discutere sulla liceità – se non altro rispetto alle regole di vigilanza, che pure le banche sono tenute ad osservare – dall’abusiva concessione del credito da parte dell’operatore bancario.

Laddove questa fosse, infatti, qualificabile come tale, non vi sarebbe più alcun dubbio – ma di questo il Collegio giudicante pare disinteressarsi in questa vicenda – sulla infondatezza (rectius: sulla erroneità) della tesi assolutoria, contro la quale, peraltro, il Dicastero soccombente ha già proposto ricorso.

Chi scrive non è certamente tra i fautori di questa soggettività imperante nella attribuzione di responsabilità di omessa segnalazione di operazioni sospette[29]; ma, dall’esame della legislazione vigente – che dobbiamo come tale tenere per buona – i casi come quello qui analizzato lasciano ben poco spazio a dubbi, creando anzi pesanti sperequazioni (le opposte conclusioni dal Tribunale in questione rispetto a fattispecie analoghe relativamente alla “oggettività” dei comportamenti) che hanno già formato oggetto di sanzione[30].



[1] Ci sia consentito rinviare, tra gli altri, al nostro Osservazioni sul nuovo regime di segnalazione di operazioni sospette ai sensi del d. lgs. 26 maggio 1997, n. 153, in questa Riv., 1998, II, pag. 35.

[2] Per un primo commento della quale si veda R. Razzante, Le nuove regole comunitarie per la lotta al riciclaggio, in Dir. Pr. Soc., n. 6-8/2002, pag. 33. Nel frattempo, va segnalato che il Consiglio dei Ministri ha approvato, nella seduta del 7 novembre u.s., lo schema di d. lgs. che recepisce la citata direttiva; per un esame del testo ed un primo commento si veda il nostro Guerra al riciclaggio, su Italia Oggi del 8 novembre 2003, pag. 35.

[3] In tal senso, soprattutto per un’analisi internazionale del fenomeno, si veda T. Lupacchini Trevisson , Strumenti internazionali per il contrasto del riciclaggio di capitali, in Giust. Pen., 2002, III, pag. 194.

[4] Sulla distinzione tra operazione “anomala” e operazione “sospetta” si veda, per tutti, U. Morera, Sull’obbligo di segnalazione delle operazioni bancarie ex art. 3, legge antiriciclaggio, in questa Riv., 1999, I, pag. 47.

[5] Risulta infatti abbastanza pacifico come differenti siano i termini (rectius: il loro computo) a seconda che ci si trovi di fronte ad un’attività di accertamento da parte della P.A. più o meno complesso ed articolato; conforme, in dottrina, A. Carrato-F. De Stefano, Le sanzioni amministrative, Milano, 1994, pag. 123. In merito, si ritengono poi più che sufficienti i puntuali richiami giurisprudenziali operati dall’estensore della sentenza che qui si annota e, in particolare (almeno secondo chi scrive), quello a Cass. 19 maggio 2000, n. 6531 (in Mass. Giur. It. 2000), secondo il quale orientamento “spetta al giudice di merito di apprezzare la congruità del tempo ragionevolmente necessario alla PA per acquisire i dati e valutarne la consistenza ai fini della corretta formulazione della contestazione”: senza questa possibilità, stante la peculiarità delle indagini che gli organi accertatori sono costretti ad effettuare in subiecta materia, qualsivoglia contestazione potrebbe – nei fatti – essere resa vana per meri motivi formali, “brutalizzando” la ratio della normativa antiriciclaggio.

[6] Pubblicate nella G.U. n. 37 del 14 febbraio 2001, e da noi commentate approfonditamente in questa Riv., Il Decalogo-ter contro il riciclaggio: prime osservazioni, 2001, I, pag. 92 e ss.

[7] Il cennato schema di d. lgs. approvato dal Governo recepisce altresì le indicazioni già fornite dal legislatore nazionale con il d. lgs. n. 374 del 25 settembre 1999, da noi commentato in Arch. Civ., La normativa antiriciclaggio per le imprese non finanziarie, n. 2/2000, pag. 149. Per un commento più specifico alla nuova direttiva si veda, da ultimo, R. Razzante, Antiriciclaggio e libere professioni, in Dir. Econ. dell’Ass.,2003, pag. 141; per la ratio della medesima, nell’ottica internazionale, da ultimo F. de Brouwer, Vers une nouvelle directive en matiere de blanchiment de capitaux, in Revue de Droit des Affaires Internationales, 2000, pag. 301.

[8] Si vedano gli scritti citati nelle note precedenti, nonché quelli di altra e più autorevole dottrina ivi menzionati.

[9] Si veda il citato Decalogo della Banca d’Italia. Ancora, F. Toscano-R.Razzante, Il segreto bancario nelle indagini tributarie e antiriciclaggio, Milano, 2002, pag. 334; A. Manna, Riciclaggio e reati connessi con l’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, pag. 385 (e dottrina ivi citata).

[10] Non è necessario, cioè, che si verifichino – per la “determinatezza delle fattispecie incriminatici” – tutte le circostanze affinché si integri la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice stessa; e, in questo caso, detto principio non sarebbe applicabile anche per una ragione più immediatamente oggettiva, che abbiamo già evidenziato, di scarsa chiarezza del dettato normativo, per cui verrebbe elusa quella fondamentale impostazione dottrinale che recita: “una norma penale persegue lo scopo di essere obbedita, ma obbedita non può essere se il destinatario non ha la possibilità di conoscerne con sufficiente chiarezza il contenuto” (così G. Fiandaca-E.Musco,Diritto penale, Bologna, 2001, pag. 66).

[11] Pertanto, il mancato rispetto della parte più “oggettiva” del documento potrebbe essere sanzionabile alla stregua di una più o meno “grave” violazione delle disposizioni “amministrative” di cui parlano gli articoli 70 e 80 nell’enumerare i presupposti per l’assoggettamento ad amministrazione straordinaria ovvero a liquidazione coatta amministrativa. In tal senso sembra confortarci l’analisi della dottrina e giurisprudenza sul tema autorevolmente operata da F. Capriglione, Commento sub art. 70, in Commentario al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura dello stesso A., Padova, 2001, pag. 539 e ss. Non è peregrino pensare che queste possano costituire una sorta di sanzioni “accessorie” nei casi che qui si discutono, anche perché la Banca d’Italia, a seguito di procedimenti penali, le ha – seppure rarissimamente – già applicate.

[12] Di “autonomia strutturale” intercorrente fra le diverse fattispecie previste dalla legge n. 197/1991 parla S. Faiella, Offesa e sanzione nel cd. “riciclaggio di carte di credito”, in Cass. Pen., 2002, 9 (nota a SS.UU. n. 22902 del 28 marzo 2001).

[13] E qui non si può che concordare con S. Faiella, L’integrazione europea nella disciplina antiriciclaggio, in Giust. Pen., 2001, II, pag. 251, laddove egli afferma che “l’assetto normativo dettato per il reato in oggetto, segnatamente alla luce dell’interpretazione che di esso viene offerta dalla prevalente giurisprudenza, sembra aver seguito senza posa, e senza approfondita riflessione, l’allarme sociale destato dal fenomeno, tracciando così i contorni di una disciplina di tale ultimo priva di una rigida logica giuridica nella selezione delle condotte e dei fatti realmente dotati di disvalore penale”.

[14] Si segnala in materia una interessante (e pionieristica) sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (la n. 12414 del 22 agosto 2002, pubblicata, con nostra nota di commento - Osservazioni in tema di normativa antiriciclaggio e doveri di fedeltà dei dipendenti bancari -, in Giur. It., 2003, pag. 646), la quale ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente di banca per aver posto in essere una serie di comportamenti agevolativi della violazione della normativa antiriciclaggio, anche facendo riferimento, chiaramente, alla omissione di diligenza.

[15] Con l’esclusione, rilevata da attenta dottrina, di tutti quelli che non siano capaci di “produrre ricchezza illecita” (v. Manna, op. cit., pag. 103).

[16] Per quanto attiene al “bene giuridico tutelato” dalla normativa in discorso, la sua individuazione è ancora controversa sia in dottrina che in giurisprudenza, ma si può essere indubbiamente d’accordo con U. Guerini, Le norme del codice penale in tema di repressione dei fenomeni di riciclaggio, in Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, a cura di A. Meyer e L. Stortoni, Utet, Torino, 2002, pag. 397, quando afferma che “il delitto di riciclaggio, nella sua attuale formulazione, si presenta come fattispecie plurilesiva, in quanto sono diversi i beni giuridici che possono considerarsi ricompresi nell’oggetto della tutela”.

[17] E’ frutto di un approccio distorto (oltre che poco approfondito), ad esempio, il commento di G. La Villa, Riciclaggio e responsabilità di amministratori e sindaci, in Giur. Comm., 1992, I, pag. 799, il quale afferma polemicamente che con la legge antiriciclaggio si è preferito “criminalizzare il povero funzionario di banca o il piazzista di prodotti finanziari” invece di “colpire con severità il crimine alle sue origini personali e territoriali”.

[18] Così Faiella, op. loc. ult. cit., pag. 235.

[19] Si vedano il già citato Faiella, pag. 241, che parla efficacemente di “autoriciclaggio”; Trevisson Lupacchini, op. cit., pag. 203, testualmente afferma che “nello schema tipico si avrà sempre un soggetto il quale, commesso un reato che ha prodotto accumulazione di proventi illeciti, movimenta flussi da riciclare, al fine di accrescere successivamente le sue disponibilità finanziarie, attraverso un’attività di investimento nel settore legale o di riaccumulazione nel settore illegale”.

[20] Contra, ad es., Manna, op. cit., pag. 95 e ss.

[21] Ci riferiamo, in particolare, all’UIC, ed alle competenze che gli sono state affidate dapprima con il d.lgs. n. 153/1997, poi con la legge n. 388/2000, per un’analisi delle quali rinviamo a B. Santacroce, Riciclaggio: rete UIC per lo scambio di informazioni, in Guida al Diritto, 2001, pag. 123; F. Capriglione, UME e riforme del sistema delle banche centrali: l’UIC tra passato e avvenire, in B.b.t.c., 1997, I, pag. 677.

[22] Un’efficace sintesi circa l’importanza della tenuta di tale Archivio è in G. Sbarra, I presidi antiriciclaggio, in Riv. G.d.F., 1997, pag. 1013; ancora, T. Luise, Il patrimonio informativo delle banche e degli intermediari finanziari, in Banche e banchieri, n. 3/1997, pag. 214.

[23] Autorevole conferma a questa tesi giunge, ex plurimis, da G. Nanula, Le bucature del sistema normativo antiriciclaggio, in Riv. G.d.F., 1997, pag. 47, laddove l’ex Comandante in Seconda delle Fiamme Gialle afferma che “il segreto per il buon esito, in tempi ragionevoli, delle indagini patrimoniali, risiede allora nello studio del soggetto inquisito, nel rilevamento dei suoi spostamenti, degli istituti di credito frequentati, degli uomini d’affari con i quali abbia rapporti, ecc.”; in senso analogo, B. Santacroce, L’intermediario finanziario e la legge antiriciclaggio: dall’anomalia al sospetto, in Il Fisco, 1996, pag. 5159; A. Laudati, Riciclaggio e intermediazione bancaria, in Riv. Pen. Econ., 1995, pag. 179, il quale assegna, in tali frangenti, addirittura un ruolo “pubblicistico” agli operatori finanziari; G. M. Flick, Intermediazione finanziaria, informazione e lotta al riciclaggio, in Riv. Soc., 1991, pag. 475; F. Toscano-R.Razzante, cit., passim; U. Di Nuzzo-R.Razzante, Scudo fiscale e lotta al terrorismo nel quadro della globalizzazione finanziaria, in questa Riv., 2002, pag. 3; A. Manna, op. cit., pagg. 211-245.

[24] Le Istruzioni (Decalogo-ter) della Banca d’Italia, proprio al par. 6 relativo agli indici di anomalia sui comportamenti della clientela, prevedono specificatamente (indice 6.7 e, ad abundantiam, il 6.10) come “anomali” i comportamenti della specie di quelli posti in essere dal cliente di cui al provvedimento in commento.

[25] Circa questa particolare tipologia di fido, si veda in particolare U. Morera, Il fido bancario, Milano, 1998, pag. 168, il quale chiaramente (e più che giustamente, secondo noi) afferma che “la concessione del fido ad un’impresa in stato di decozione [forse qui ipotizzabile, ancorché per analogia, aggiungiamo noi], pur integrando in sè un’attività lecita e corrispondente all’esercizio di un diritto [?], si possa trovare esposta ad un’azione risarcitoria qualora (si provi che tale attività) sia chiaramente strumentale al diretto perseguimento di vantaggi egoistici a pregiudizio degli altri creditori”: è proprio il caso analizzato dalla sentenza in commento, e l’A. prosegue, d’altronde, con esempi che chiaramente vi sono accostabili.

[26] Comportamento, questo, esplicitamente censurato dalla norma primaria, l’art. 3, comma 1, della legge n. 197/1991, laddove parla di “interposizioni di persone”.

[27] D’altro canto, nel caso di specie, trova sicura applicazione quel concetto, ribadito dal Morera, op. loc. ult. cit., pag. 170, che “le vicende concernenti il contratto creditizio – pur concettualmente autonome rispetto alle vicende del fido – non risultano avulse e comunque del tutto indipendenti da queste ultime”; nella sentenza che si annota e, meglio ancora, nell’applicare la normativa antiriciclaggio, questo dovrebbe essere principio cardine per l’identificazione – secondo quanto richiesto dalla Banca d’Italia nel più volte citato Decalogo – della finalità dell’operazione posta in essere.

[28] Oltre a quella già citata in questo scritto, si vedano, sul punto, S. Bartone, Riciclaggio: status attuale della lotta e responsabilità degli enti finanziari, in Diritto e Giustizia, n. 19/2003, pag. 11; Ceradi-Luiss, La disciplina del riciclaggio, Audizione presso la VI Comm. del Senato della Repubblica del 12 dicembre 2001; V. Desario, La cooperazione nella lotta alla criminalità economica, in Documenti Banca d’Italia, n. 605/1998; A. Gasy, I soldi sporchi, ISBA, Trento, 2001; Secondo Rapporto Bocconi-DIA-DNA-UIC, Immigrazione e flussi finanziari, Milano, 2003; M. Condemi-F. De Pasquale, Profili internazionali di prevenzione e contrasto del riciclaggio di capitali illeciti, UIC, marzo 2003. Con riguardo, in particolare, alla “tutela penale del credito”, da noi tra l’altro ampiamente sostenuta (e in questa sentenza, ci pare, denegata) come ratio ispiratrice della normativa de qua, si veda, da ultimo, V. Patalano, Reati e illeciti del diritto bancario, Torino, 2003.

[29] Tra i nostri continui richiami alla “oggettivizzazione” delle segnalazioni, soprattutto con l’ausilio della mai attuata “anagrafe dei conti”, si veda, tra gli altri, quello contenuto in Il Decalogo-ter contro il riciclaggio, in questa Riv., 2001, pag. 94.

[30] Come affermato infatti da S. Faiella, op. cit., pag. 256 (al quale si rinvia per le citazioni della giurisprudenza cui facciamo riferimento), “se c’è qualcosa di incontestabile è che mai i denari sono più visibili di quando li si deposita su un conto corrente normale”. E si può aggiungere la frase di G. Santacroce, Usura, riciclaggio e sistema bancario: linee di una strategia composita di contrasto, in Giust. Pen., 1995, II, pag. 253, il quale significativamente (soprattutto ai fini che qui ci proponiamo) afferma che “avendo a che fare con concetti come il “sospetto” (…) o come la mera provenienza delittuosa potenziale dell’oggetto dell’operazione da uno dei delitti presupposti dell’art. 648-bis c.p. (…), l’omissione della segnalazione tende a porre l’intermediario in una situazione di pericolosa vicinanza col reato base, e quindi in una posizione di possibile coinvolgimento penale”.