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Il vocabolario giuridico e l’esigenza di nobilitare il diritto: spunti di riflessione

Da quando la persona umana è entrata prepotentemente in ogni riflessione giuridica, il destino del diritto è inevitabilmente mutato. La prospettiva personalistica di ogni argomentazione, di ogni dibattito o confronto, di ogni scontro dottrinario, ha attualizzato quelle previsioni costituzionali che dal ’48 in poi avevano animato la scena giuridica degli ultimi decenni.

Si è verificato, in altri termini, una nobilitazione del diritto che ha preso coscienza di quanto fosse imprescindibile parlare, riflettere e interrogarsi sull’importanza della persona umana e su quanto fosse parimenti significativa ogni sua peculiarità, ogni suo sogno o desiderio, ogni attività o opera, ogni aspirazione o proiezione, ogni lavoro o percorso educativo, ogni suo divertimento o capacità decisionale, ogni sua richiesta o reclamo.

Il diritto è una sorta di vocabolario in continuo completamento, in cui le singole parole e voci si colorano di nuovi profili, assumono una nuova veste, e sono finalizzate, anche, a identificare quelle questioni cui sia opportuno porre rimedio, cui sia necessario dare una risposta; il diritto come cantiere sempre aperto, in cui tutti gli operai giuridici - dottori, interpreti, ricercatori e cultori del linguaggio - dovrebbero operare – tendenzialmente – per finalità poco teoriche e molto pratiche.

L’idea del vocabolario è quella di un insieme di voci collocate in un certo ordine che contribuiscono a formare un quadro unitario e variegato, omogeneo e disomogeneo, ma estremamente affascinante.

Questa idea dinamica, cangiante, irriverente del diritto va intesa come costante attualizzazione di un diritto che «è stato, che è e che vorrà essere» ancora presente in tutte le principali proiezioni della persona umana, soprattutto in presenza di giuste lamentele, interessi meritevoli, aspettative illecitamente disattese, desideri di realizzazione, richieste di aiuto.

Il cambiamento insito nel rinnovato peso assunto dall’individuo in tutte le sue manifestazioni esistenziali, si unisce alla perfezione con il concetto di realizzazione personale, di cui tanto si sente parlare negli ambienti giuridici, e con quella esistenzializzazione del diritto privato che occupa le menti dei giuristi più accorti.

L’espressione con cui Oscar Wilde parla dell’individuo, sebbene il contesto in cui si esprimeva fosse ’particolare’, e cioè che “l’uomo non cerca né il dolore né la gioia, ma semplicemente la vita” (tratto da The soul of Man under Socialism), riporta la nostra attenzione proprio sugli aspetti innanzi ricordati. Il vissuto, la quotidianità, le esperienze sono indicativi di una necessità – fortemente avvertita negli ambienti giuridici – di «esistenzializzare» in modo costante ogni discorso e percorso giuridico.

Da tali premesse procediamo all’analisi delle voci giuridiche più interessanti.

’A’ come ’Affidamento condiviso’. Di cosa si tratta? La rinnovata disciplina contenuta nella Legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), ha consentito – non senza polemiche, critiche, resistenze da parte di alcuni giuristi – di plasmare l’istituto dell’affidamento della prole – di cui agli artt. 155-155 sexies c.c. -, all’interesse ’morale e materiale’ della stessa.

Collegata al concetto di affidamento condiviso, è senz’altro l’espressione «bigenitorialità», che trova la sua fonte più attuale proprio nel provvedimento legislativo innanzi menzionato. La presenza di entrambi i genitori, anche in una «stagione» patologica del loro rapporto, nella esistenza della propria prole, è argomento di grandissima delicatezza, che merita approfondimento sicuramente in ambito giurisdizionale, e non soltanto. In linea piuttosto approssimativa, occorre sottolineare come la propensione per (l’adozione di) un provvedimento di affidamento della prole ad entrambi i genitori, piuttosto che per una soluzione – parimenti prevista normativamente - dell’affidamento a uno soltanto degli stessi, dovrebbe presupporre una attenta valutazione non tanto delle condizioni atte a consentire la prosecuzione di una convivenza (in buona parte già divenuta patologica) tra due partner, quanto di come tale quiescenza del loro rapporto sia positiva e non deleteria per la crescita educazionale, emotiva, personale, umana della prole.

Una lettura delle norme contenute nella disciplina legislativa dovrebbe far propendere per una solidale, condivisa malleveria, dai contenuti ampi, ricadente sui genitori nei confronti della propria prole. Obiettivo di per sé già non semplice da realizzare in un contesto di pacifica e armoniosa relazione familiare (a volte apparente e comunque non in grado di evitare preoccupanti ’mancanze’ per i figli), ma soprattutto in presenza di patologie più o meno gravi dell’assetto organizzativo, gestionale, del profilo affettivo e umano, insiti in ogni coppia.

Come ogni nuova misura, anche l’affidamento condiviso costituisce per certi versi una sfida, per altri uno strumento da affinare, per altri ancora una (ma non l’unica) delle stradi percorribili in materia di affidamento della prole, in presenza di separazione o divorzio dei genitori. Non è questa la sede per analizzare le modalità, i presupposti, i percorsi argomentativi attraverso i quali i giudici hanno disposto o disporranno il ricorso a tale provvedimento, ma si può riportare un inciso della Suprema Corte che, in una recente sentenza del 18 agosto 2006, ha sottolineato come (il riferimento alla legge n. 54/06 è fatto per sostenere l’assunto che pur in presenza di un affidamento congiunto, vige l’obbligo da parte di uno dei genitori di corrispondere un assegno di mantenimento in favore della propria prole) tale legge «introduca il cd. principio della bigenitorialità, con ciò ovviamente privilegiando l’interesse “esistenziale” del minore». Una breve affermazione che, pur se tolta dal contesto in cui è stata inserita, solleva riflessioni sull’importanza e delicatezza della previsione - e possibile adozione da parte del giudice - di un provvedimento nel senso finora descritto.

Altra voce che possiamo, anzi dobbiamo senz’altro ricordare, concerne l’ «Amministrazione di sostegno». L’espressione evidenzia in modo immediato le finalità che l’introduzione legislativa vorrebbe realizzare, proteggere, cioè, quelle persone prive della capacità di espletare, autodeterminandosi, le differenti funzioni inerenti alla propria quotidianità.

L’intervento del terzo (’amministratore’) contenuto nella Legge 9 gennaio 2004, n. 6, assume le caratteristiche del sostegno temporaneo o permanente, cercando di ridurre al minimo l’incisione sulla capacità di agire del soggetto per così dire ’amministrato’(il cd. beneficiario).

Il percorso che l’istituto ha seguìto, fin dalle sue primissime ideazioni teoriche in materia di infermità psichica, incapacità e diritto, è stato indubbiamente caratterizzato da una crescente attenzione per temi allora (più di un ventennio fa) inconsueti. Le riflessioni, i convegni, gli scambi di idee, le discussioni più o meno animate sul tema hanno da sempre posto l’attenzione sulla enorme importanza di un intervento in tale ambito, un intervento però coordinato, responsabile, edotto, completo e multidisciplinare. Intervento che, a partire dal profilo normativo è stato posto in essere ma che abbisogna, in modo sempre più consapevole, dell’apporto di tutti coloro che – giuristi, psicologi, sociologi, antropologi, ricercatori – abbiano a cuore il binomio innanzi richiamato tra sfera giuridica e quel profilo interiore che incide sulla «naturale» proiezione della persona nella sua quotidianità.

Il ricorso a tale strumento di supporto, assistenza, aiuto, rappresentanza, protezione, può essere inteso in tutta la sua ampiezza e utilità soltanto se muta il presupposto, sovente presente nell’immaginario comune, di partenza che individua - a torto – nella insania, stravaganza, frenesia degli amministrati, la conferma di ciò che Cendon (e chi come lui) teme possa verificarsi, ossia intendere l’istituto de quo quale «ennesimo istituto per i «matti», quindi assai poco attraente per ogni altra «categoria» di cittadini».

Partendo da tale considerazione, occorrerà interrogarsi in particolare sul camaleontico, perché potenzialmente variegato, ventaglio di provvedimenti adottabili e riconducibili all’istituto in commento. Anche su tale versante, il ruolo dell’interprete sarà senz’altro primario per dare a detto istituto una conformazione peculiare, mutabile di caso in caso.

Altro profilo senz’altro da approfondire è l’analisi del possibile contrasto che potrebbe insorgere tra coloro che ’vogliono’ o ritengono ’opportuno’ il ricorso a tale strumento, senza che vi sia una concorde volontà (o iniziativa) da parte del beneficiario (pertanto ignaro) in tal senso, e lo stesso (involontario) beneficiario. In tal caso, la preoccupazione principale che dovrebbe essere affrontata è quella di garantire l’interessato da soggetti che in modo capzioso potrebbero chiedere il ricorso a tale istituto. E tale garanzia dovrebbe essere riferita sia al momento in cui tale provvedimento venisse disposto dal giudice, sia a quelli che fossero i reali ed effettivi bisogni dell’individuo interessato (che potrebbero far ritenere adeguato il ricorso all’amministrazione in suo favore), sia infine alle aspirazioni (e cura della persona) del beneficiario e alla tutela del patrimonio dello stesso.

’C’ come ’Cellule staminali’. La tematica è alquanto ostica e si fonda su una serie di contrasti, polemiche che animano le posizioni (restrittive) del mondo cattolico da un lato, e la libertà di ricerca scientifica dall’altro. Rischio di scomunica, condanna e censure da un lato, lamentata privazione di un importantissima fonte di ricerca medica (gli embrioni), sono gli avvertimenti, i moniti, gli stati d’animo che albergano le due contrapposte fazioni ideologiche.

La maggiore distanza nella disputa tra gli oppositori e i favorevoli alla ricerca scientifica avente ad oggetto le cellule staminali, si avverte (proprio) con riferimento agli embrioni. Dal versante ecclesiastico si reputa totalmente ferma ogni considerazione sulla vita umana, in ogni suo stato, compresa la fase embrionale, e si fa notare come ci si debba opporre a ogni utilizzo degli stessi come possibili strumenti da utilizzare e strumentalizzare a piacimento della ricerca (va anche detto che alcuni studiosi ritengono sia possibile riportare le cellule staminali ’adulte’, con particolari processi, allo stato originario); dal versante scientifico si fa notare come proprio le cellule staminali embrionali rappresentino il terreno più stimolante, potenzialmente più utile; in altri termini, esse consentirebbero, in proiezione, di plasmare le cellule e trasformarle nei vari organi o tessuti, in virtù di una loro non specializzazione (al contrario di quelle adulte), dovuta al loro stato per così dire ’puro’.

Prescindendo da tecnicismi che significherebbero appesantire questa finestra giuridica aperta sul mondo delle staminali, e sottolineando come tale tematica inglobi profili etici, scientifici, medici, religiosi, giuridici, occorrerebbe evidenziare alcuni problemi legati alla ricerca delle cellule staminali. Un primo intoppo potrebbe derivare dalla necessità di ottenere finanziamenti per effettuare la ricerca (ma anche dall’interesse per una pubblicazione sulle prime pagine di una importante rivista del settore), e questo meccanismo comporterebbe – in diversi casi – la naturale necessità di (forzare la mano per) rispondere in modo positivo (seppur non sempre esente da inesattezze) alle pressioni portate dall’esterno. Un recente articolo comparso sul Corriere della sera del 28 agosto 2006 (“Gli scienziati e le staminali: «Troppi interessi, costretti a forzare i dati»”), accenna ad un quadro nel quale i colori a volte sono forzatamente marcati, più per una presunta furbizia o frase ad effetto utilizzata dal ricercatore di turno, che per una reale scoperta effettuata a vantaggio della ricerca. Il futuro, per chi crede nelle sue potenzialità, potrà dar conferma o smentita ad un ottimismo esagerato o ad una reticenza esasperata. Lavori in corso…….

Alla lettera ’D’, annoveriamo una delle voci giuridiche più significative. Ideata al fine di contribuire alla modellazione del nuovo sistema risarcitorio, nonchè per conferire alla persona umana una più marcata luce giuridica, la voce del «danno esistenziale» (inserito all’interno della più ampia categoria del «danno non patimoniale»), quale voce di spicco nel complesso tema del «danno alla persona», è in procinto di ricevere (e potremmo dire, merita o ha pienamente dato prova di meritare), sotto ogni visuale, un vero e proprio diritto di cittadinanza nel mondo del diritto.

Danno e persona come binomio rinvigorito dalle recenti acquisizioni giurisprudenziali in tema di responsabilità e sistema risarcitorio; danno e persona come risposta dell’ordinamento giuridico agli attacchi, ripetuti e giornalieri (a volte), portati all’individuo dalle relazioni, personali e professionali che intraprende, dalle attività illecite altrui, dal contesto sociale in cui si cala, dagli inadempimenti ai contratti che esso stipula, e via di seguito.

Tanto è stato detto con riferimento a tale voce di danno. Molto pregio giuridico hanno assunto alcune pronunce divenute storiche nella costruzione del danno esistenziale (dal famoso revirement giurisprudenziale del 2003 alle recenti prospettazioni della Suprema Corte), ma ancora molto c’è da fare per ritoccare i lineamenti di questa importantissima categoria di danno risarcibile, soprattutto nelle modalità attraverso le quali i giudici liquidano e nei ragionamenti che essi seguono.

Se può certamente essere perseguita la strada della valutazione equitativa con riferimento al profilo della quantificazione, e ancor prima della strumentazione probatoria ampia (dalla prova per testi al parere degli esperti del settore, dalla consulenza alle presunzioni e via di seguito) per quanto concerne il profilo della ’prova’, restano ancora dei dubbi, o meglio delle zone semi-oscure.

Innanzitutto occorre non trascurare un presupposto indefettibile.

Quando si parla di danno esistenziale, è convinzione di chi scrive, non è possibile - salve ipotesi di difficile similitudine - ragionare per casi simili. Detta in altri termini, l’esistenza umana ha una propria consistenza e uno specifico contenuto, una sua naturalezza e conformazione, una predisposizione a comporsi di profili realizzatori che non possono essere uguali per tutti. Per quanto a Tizio possa far piacere uscire con la barca dei propri amici e discorrere amabilmente del più e del meno, al danno che Caio subisce da un fatto illecito altrui (un investimento, un’aggressione, un intervento operatorio sbagliato), ove Caio vive per la vela, gareggia, si realizza come uomo e come professionista nelle attività velistiche, non potrà essere attribuita la stessa importanza e consistenza economica dell’eventuale danno – della stessa natura – patìto dal primo. Gli esempi potrebbero continuare, ma la sostanza del ragionamento di base non muterebbe. Questo per dire che i discorsi su liquidazioni per ’casi simili’, potrebbero essere tacciati di ’incompiutezza’, di ’leggerezza’, difettando quindi di quella necessaria aderenza alla «quotidianità» su cui essi vanno ad incidere, in quando potrebbero cagionare una ulteriore ingiustizia a chi già è stato ingiustamente leso e aggredito nella propria esistenza.

Altro profilo che deve essere senz’altro trattato (meglio) dagli operatori del diritto è quello relativo alla chiara delineazione delle voci di danno non patrimoniale. Se proviamo a sfogliare una rivista che raccoglie le sentenze degli ultimi anni in tema di danno non patrimoniale, si può notare una resistente e anacronistica tendenza a utilizzare termini arzigogolati, espressioni confuse e inappropriate, o apparentemente appropriate nella forma, ma inadattabili alla vicenda concreta, quando si deve parlare di danno esistenziale.

Tali pronunce potrebbero essere ’denunciate’ di scarsa limpidità e coerenza espositiva, ed è scombussolante notare come mentre il ’danno esistenziale’ debba scontare la condanna di chi ancora vuole remare contro: è senz’altro una voce scomoda per questi, così come per chi crede in un diritto puerile nelle forme e nei contenuti, nonchè nel (faticoso) lavoro che esso può comportare per gli interpreti; è, invece, una voce imprescindibile, nobilitante, in che termini ci si potrebbe chiedere!

La nobilitazione del diritto deve essere contraddistinta da impegno e dedizione giuridici, che non possono essere ’licenziati’ con lo stesso impertinente, atavico, sconclusionato modus agendi che gli interpreti usano per liquidare il danno morale (di norma metà o 1/3 del danno biologico) o un generico danno non patrimoniale. Occorre molto di più. È bene ricordarlo, stiamo parlando di vita umana alterata, compromessa, lesa, incisa, forzata, ingabbiata, oscurata, non di fastidio per doversi studiare delle carte in più o dover decidere seguendo solo (facili e, tra l’altro, non illustrati) metodi di derivazione aritmetica.

In tale contesto, quindi, è il giudice, ma anche la parte e il suo difensore che assumono – ognuno con un proprio differente ruolo e con distinti poteri – una parte ben precisa.

I secondi nel prospettare, produrre, (di)mostrare (anche mediante il richiamo alle presunzioni) cosa significhi «dover fare» piuttosto che «poter fare», cosa sia successo nella quotidianità del soggetto leso, quale importanza assumevano per il leso le attività che non potrà certamente più fare come prima; il primo nell’ascoltare (dono di per sé raro), ponderare, illustrare, argomentare la (più giusta) risposta a quanto di innaturale ha interrotto e sconvolto l’esistenza altrui.

Il problema principale, allorquando si parla di quantificazione del danno è individuare il valore da attribuire alla vita umana, soprattutto dove la produzione di un danno esistenziale non sia di origine biologica (nel qual caso si potrebbe illustrare una relazione tutt’altro che evanescente tra le due voci, partendo dal massimo ammontare di danno biologico liquidabile e man mano individuando, a livello economico, l’ammontare massimo del danno nelle diverse macro aree esistenziali). Non convince pienamente la strada della formula aritmetica, così come quella di una derivazione automatica da un’altra voce di danno (es. danno esistenziale dei genitori liquidato come frazione del danno biologico del figlio leso); l’idea di una tabellazione universale cozza contro il presupposto indefettibile innanzi ricordato: ogni esistenza umana e ogni attività ad essa collegata hanno un valore distinto ed univo per ogni essere umano. Il cerchio si chiude. La richiesta è ben chiara a tutti: il danno esistenziale reclama una più incisiva attenzione di tutti gli operatori giuridici.

Alla lettera ’D’ possiamo senz’altro richiamare il concetto di «discriminazione», quale trattamento diseguale (e ingiustificato) di situazioni, vicende, casi che si caratterizzano invece per la loro identicità, e al converso trattamento identico di fattispecie piuttosto distinte sia nei presupposti che nei contenuti e contorni. Il nostro ordinamento contiene una espressa previsione al riguardo, in una delle disposizioni più importanti dell’intero assetto costituzionale, l’art. 3, commi 1 e 2.

Al giorno d’oggi nel nostro ordinamento vi sono residui di discriminazioni che identificano vicende o situazioni pesanti da tollerare, le quali reclamano una pronta risposta, sia sul versante normativo, sia su quello relativo a una generica e maggiore presa di coscienza della collettività, giuridica e non.

I profili su cui potersi soffermare sono diversi: dall’ambito familiare a quello lavorativo, dal profilo sociale a quello politico/associativo e via di seguito.

Il sesso, quale componente indefettibile nell’esistenza di ogni individuo e parametro di crescita umana e relazionale, è senz’altro quello che viene tirato in ballo con maggiore frequenza e preoccupazione da parte di chi avverte esservi una totale mancanza di tatto e delicatezza al riguardo.

L’art. 2 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, datata 1948, prevedono indicazioni pertinenti in tema di discriminazione e lotta alla stessa; alcune produzioni giuridiche si sono occupate di discriminazione, pur non menzionando il profilo dell’orientamento sessuale, che però è stato coperto da altri interventi regolamentativi.

Il nostro ordinamento giuridico ha prodotto nell’art. 3 Cost. la norma espressiva del più alto riconoscimento del principio antidiscriminatorio, attraverso formule di ampiezza tale, quale ad esempio l’espressione ’condizioni personali’, in grado di coprire – sembra lo si possa affermare con coscienza giuridica – abusi, prevaricazioni, disuguaglianze, ingiustizie, malesseri, aberranti mancanze fondate proprio sul profilo sessuale. A tal proposito, va sottolineato come sia compito dell’interprete rendere tale apparente ed evidente parametro di protezione per soggetti meno tutelati, quali omosessuali, bisessuali e via di seguito, un parametro di giustizia sostanziale e non soltanto formale. Senza ombra di dubbio, un intervento di raccolta, studio, esame approfondito, sostegno delle problematiche relative ai profili legati all’orientamento e alle scelte sessuali deve animare e accompagnare il discorso di chi ha a cuore le sorti di un diritto più vicino a chi è di fronte ad esso, molte volte, in una posizione di debolezza.

Sul versante comunitario, vale la pena evidenziare come il Parlamento europeo sia più volte intervenuto, cercando di sensibilizzare gli Stati membri verso una regolamentazione in tema di discriminazioni, considerando anche quanto stabilito nella Carta di Nizza prima e nella Costituzione per l’Europa che, seppur non aventi un valore giuridico formalmente riconosciuto a livello di produzione normativa ufficiale, conservano pur sempre, in attesa di un nuovo discorso in ottica europea (da ultimo si è sentito parlare dell’idea di un mini-trattato europeo da votare a maggioranza e non più all’unanimità), un valore giuridico sostanziale non indifferente.

Una tematica senz’altro di attualità e cu sui più volte giuristi, esponenti del mondo cattolico, scienziati, dottori, genetisti si sono interrogati, anche sulla base dell’esperienza fornita da altri ordinamenti giuridici stranieri, è quella dell’eutanasia (traducibile, secondo la terminologia greca, come ’morte dolce’).

La problematica è di grandissima attualità, per tutta una serie di fattori. Da un lato, risulta senz’altro interessante lo scenario che si può scorgere, osservandolo al di fuori dei confini nazionali, ove si è avuto un riconoscimento giuridico, seppur soltanto in alcuni stati, di tale fenomenologia.

Quali sono, brevemente, i termini del discorso? Da un lato si pone il rispetto per la vita umana, per la dignità della persona, dall’altro l’opportunità di ricorrere alla somministrazione di farmaci per far derivare l’evento lesivo della morte, magari in presenza di patologie per la salute, per il futuro esistenziale della persona ’destinataria’ di tale intervento attivo da parte del medico. Da un lato emerge la difficoltà di studiare il cosiddetto ’aiuto al suicidio’ (che diventerebbe quindi ’assistito’), la possibilità di intervenire a livello medico ’aiutando’ a morire, i confini e le modalità di tale potenziale intervento, dall’altro ci si interroga sulla portata e sul tenore della autonomia personale, sugli eventuali attacchi che alla stessa verrebbero portati in caso di un divieto totale.

To be continued……

Alla lettera ’F’ occorre senz’altro richiamare la tematica della famiglia di fatto, posta al centro di ogni dibattito volto a delinearne e attualizzarne i contenuti, studiarne le prospettive, interrogandosi su quale risposta giuridica debba essere affidata alle prospettazioni dei dottrinari e ai decisa degli interpreti. Famiglia di fatto, unioni di fatto, convivenza more uxorio, unioni non coniugali tra persone etero ed omosessuale. Si tratta di espressioni utilizzate per dare una voce alle esigenze che le nuove relazioni familiari, etichettate come atipiche se poste in relazione al contesto familiare tradizionale (unione matrimoniale di un uomo con una donna), avvertivano di fronte a restrizioni aprioristiche e resistenze di stampo moralistico.

Le principali difficoltà che tali relazioni devono e dovranno affrontare, riguardano non più e non tanto il riconoscimento della portata e rilevanza socio-giuridica del fenomeno - ormai impostosi all’attenzione di tutti, compresi i media, come realtà con la quale occorre dialogare e confrontarsi -, quanto la possibilità ed opportunità di approntare strumenti e istituti giuridici atti a tutelare tutte quelle situazioni giuridiche soggettive (quali diritti, interessi), ma anche quelle esigenze, quelle necessità e peculiarità che possono essere proprie di ogni componente del nucleo familiare non coniugale. Famiglia non coniugale e famiglia coniugale: quale più discussa divisione della famiglia può animare gli interrogativi dei dottrinari e degli interpreti?

Non occorre forse prendere in esame, con serietà, compiutezza, chiarore giuridico, quelle formazioni familiari che, a prescindere dal nomen iuris o dalla forma, si identificano quali luoghi di affetto, solidarietà, condivisione, scambio materiale e morale?

Le tematiche che si intrecciano dietro la facciata del rapporto familiare, si legano anche all’utilizzo di terminologie quale - ad esempio – quella di «matrimonio omosessuale». Si può far notare come sia preferibile utilizzare formule meno esponibili a critiche, quale «unione omosessuale» o «unione familiare» tra persone dello stesso sesso, per identificare quello che è sostanzialmente un mutamento – produttivo di conseguenze civilmente rilevanti - di status delle singole persone che compongono l’unione de qua, da un’ottica individualista a un’ottica relazionale/familiare giustappunto. Il termine matrimonio, però, sembra fondarsi – sotto il profilo storico, culturale e religioso - su una diversità di sesso, su un modello relazionale uomo-donna, ancora presente nel modo di ragionare di dottrinari e del pensiero giurisprudenziale. Sebbene questo non significhi che tale residuo sia giusto o giustificabile, soprattutto se letto alla luce delle acquisizioni più recenti sulle unioni familiari atipiche, more uxorio o di fatto che dir si voglia.

Serve riflettere ad alta voce e congiuntamente, ma soprattutto serve agire prontamente e con un’accortezza giuridica che ai più molte volte manca. Che dunque alle parole seguano i fatti e che i fatti siano portatori di giuste e rassicuranti conseguenze – evidentemente anche di tipo giuridico - per chi con il ritardo ha avuto già a che fare.

Siamo alla lettera ’P’, come privacy. Il diritto ad essere lasciati in pace, il diritto alla propria serenità, il diritto ad evitare gli occhi indiscreti e le ingerenze altrui, di conoscere chi gestisce le proprie informazioni, con quali modalità, con quali misure di sicurezza, quali siano i suoi diritti al riguardo, il diritto in buona sostanza all’autodeterminazione informativa.

Sono queste soltanto alcune delle definizioni che hanno impegnato dottrina prima e giurisprudenza poi nella ricerca di dare effettività giuridica a una posizione soggettiva importantissima, ma mai pienamente – questa è la sensazione che dal di fuori viene avvertita – utilizzata, fatta valere e protetta nelle opportune sedi.

Parlare di privacy significa confrontarsi con tutti quei profili che in modo più o meno diretto interessano la sfera riservata di ogni individuo: il diritto di manifestazione del pensiero, di critica, di cronaca, la necessità di contemperamento degli interessi in gioco e dell’altrui sfera privata in presenza delle intercettazioni disposte in materia penalistica, il settore sanitario e tutte le peculiarità del trattamento dei dati sanitari, le previsioni in materia di trattamento dei dati personali e sensibili in ambito pubblico, la rete internet e il rischio della sicurezza per i dati personali, il pericolo dello spamming e le regole d’azione del Garante e altro ancora.

La lettura critica di tale quadro da parte di chi nutre una forte dedizione per la tutela di profili così intimamente legati alla persona umana, evidenzia come la privacy assuma troppo spesso una portata negativa, venga collocata dalla quotidianità dei comportamenti, ritardi, violazioni e inadempienze, in una sorta di zona oscura, dalla quale è a volte difficile uscire. Sembra, a volte, che il tanto richiamato bilanciamento di interessi sia in realtà risolto a priori con un «annunciato» sacrificio del diritto alla privacy o comunque con una sua compressione oltre i normali limiti imposti dal caso concreto e da eventuali e giuste esigenze a fare da contraltare. Anche qui occorre che si riesca a scegliere la giusta tonalità di grigio che, posta tra una totale assenza di protezione e una totale esasperazione della tutela alla riservatezza, riesca a rendere meno intolleranti le lamentele di coloro che hanno dovuto patìre un sacrificio della propria sfera personale e intima.

Come ultimo riferimento potremo richiamare l’attualissima tematica del testamento biologico, meglio nota con il termine «direttive anticipate», o «living will» utilizzando una espressione cara al mondo anglosassone. Siamo in presenza di quel documento contenente le dichiarazioni - le direttive giustappunto - con le quali l’individuo dichiarante decide di mettere per iscritto le proprie volontà in relazione a determinati trattamenti sanitari che vorrà ricevere (contenuto positivo) o quelli di cui non vorrà fruire ove non fosse in grado di poter prendere decisioni in via autonoma (contenuto negativo). La mancanza di un preciso regime regolamentativo in materia di direttive anticipate, nonostante siano stati presentati diversi progetti di legge, non esclude che la materia vada trattata con estrema attenzione. La fondazione Veronesi che ha cercato (e non è stata la sola) di sensibilizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema, riunendo anche noti giuristi nostrani, ha previsto un registro nazionale (telematico) per il testamento biologico, gestito con l’intervento del Consiglio nazionale del notariato (i notai autenticherebbero le volontà espresse dal dichiarante, garantendone la veridicità, nonchè la capacità naturale dello stesso, nel momento in cui dovesse essere effettuata la dichiarazione).

La previsione della nomina di un fiduciario che intervenga laddove si tratti di far valere le ultime volontà del dichiarante, informando il medico dell’esistenza di tali direttive, è altro aspetto da tenere in debita considerazione.

Vale la pena di ricordare, come si può facilmente desumere da una lettura più approfondita delle due problematiche, che il testamento biologico da un lato e l’eutanasia dall’altro, rappresentino due realtà distinte per contenuti e forme, da non sovrapporre in alcun modo. Pertanto, non si reputa necessario spendere parole su tale aspetto.

Una piccola chiosa finale. Una citazione tratta da Cesare Ripa, Iconologia overo Descrittione d’Imagini delle Virtù, Vitii, Affetti, Passioni humane, Corpi celesti, Mondo e sue parti, 1611.

L’ingiustizia così viene descritta in un passaggio dello scritto:

“Donna vestita di bianco tutta macchiata, tenendo nella destra mano una spada et un rospo nella sinistra, per terra vi saranno le tavole della legge rotte in pezzi, sarà cieca dall’occhio destro et sotto alli piedi terrà le bilancie. Il vestimento bianco macchiato dimostra non essere altro l’ingiustitia che corrotione et macchia dell’anima, per la inosservanza della legge la quale viene sprezzata et spezzata dalli malfattori, et però si dipinge con le tavole della legge et con le bilancie al modo detto. Vede l’Ingiustitia solo con l’occhio sinistro, perché non si fonda se non nelle utilità del corpo, lasciando da banda quelle che sono più reali et perfette et che si estendono a’ beni dell’anima, la quale è veramente l’occhio dritto et la luce megliore di tutto l’huomo”.

Immagini, queste appena descritte, che rendono necessario (e quindi indifferibile) un impegno su più fronti affinché quanto (il pregiudizio ingiusto e il danno) dovrebbe rappresentare l’eccezione (pur sempre deleteria) – a carico del malcapitato – si trasformi in una fastidiosa e pericolosa regola.

Da quando la persona umana è entrata prepotentemente in ogni riflessione giuridica, il destino del diritto è inevitabilmente mutato. La prospettiva personalistica di ogni argomentazione, di ogni dibattito o confronto, di ogni scontro dottrinario, ha attualizzato quelle previsioni costituzionali che dal ’48 in poi avevano animato la scena giuridica degli ultimi decenni.

Si è verificato, in altri termini, una nobilitazione del diritto che ha preso coscienza di quanto fosse imprescindibile parlare, riflettere e interrogarsi sull’importanza della persona umana e su quanto fosse parimenti significativa ogni sua peculiarità, ogni suo sogno o desiderio, ogni attività o opera, ogni aspirazione o proiezione, ogni lavoro o percorso educativo, ogni suo divertimento o capacità decisionale, ogni sua richiesta o reclamo.

Il diritto è una sorta di vocabolario in continuo completamento, in cui le singole parole e voci si colorano di nuovi profili, assumono una nuova veste, e sono finalizzate, anche, a identificare quelle questioni cui sia opportuno porre rimedio, cui sia necessario dare una risposta; il diritto come cantiere sempre aperto, in cui tutti gli operai giuridici - dottori, interpreti, ricercatori e cultori del linguaggio - dovrebbero operare – tendenzialmente – per finalità poco teoriche e molto pratiche.

L’idea del vocabolario è quella di un insieme di voci collocate in un certo ordine che contribuiscono a formare un quadro unitario e variegato, omogeneo e disomogeneo, ma estremamente affascinante.

Questa idea dinamica, cangiante, irriverente del diritto va intesa come costante attualizzazione di un diritto che «è stato, che è e che vorrà essere» ancora presente in tutte le principali proiezioni della persona umana, soprattutto in presenza di giuste lamentele, interessi meritevoli, aspettative illecitamente disattese, desideri di realizzazione, richieste di aiuto.

Il cambiamento insito nel rinnovato peso assunto dall’individuo in tutte le sue manifestazioni esistenziali, si unisce alla perfezione con il concetto di realizzazione personale, di cui tanto si sente parlare negli ambienti giuridici, e con quella esistenzializzazione del diritto privato che occupa le menti dei giuristi più accorti.

L’espressione con cui Oscar Wilde parla dell’individuo, sebbene il contesto in cui si esprimeva fosse ’particolare’, e cioè che “l’uomo non cerca né il dolore né la gioia, ma semplicemente la vita” (tratto da The soul of Man under Socialism), riporta la nostra attenzione proprio sugli aspetti innanzi ricordati. Il vissuto, la quotidianità, le esperienze sono indicativi di una necessità – fortemente avvertita negli ambienti giuridici – di «esistenzializzare» in modo costante ogni discorso e percorso giuridico.

Da tali premesse procediamo all’analisi delle voci giuridiche più interessanti.

’A’ come ’Affidamento condiviso’. Di cosa si tratta? La rinnovata disciplina contenuta nella Legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), ha consentito – non senza polemiche, critiche, resistenze da parte di alcuni giuristi – di plasmare l’istituto dell’affidamento della prole – di cui agli artt. 155-155 sexies c.c. -, all’interesse ’morale e materiale’ della stessa.

Collegata al concetto di affidamento condiviso, è senz’altro l’espressione «bigenitorialità», che trova la sua fonte più attuale proprio nel provvedimento legislativo innanzi menzionato. La presenza di entrambi i genitori, anche in una «stagione» patologica del loro rapporto, nella esistenza della propria prole, è argomento di grandissima delicatezza, che merita approfondimento sicuramente in ambito giurisdizionale, e non soltanto. In linea piuttosto approssimativa, occorre sottolineare come la propensione per (l’adozione di) un provvedimento di affidamento della prole ad entrambi i genitori, piuttosto che per una soluzione – parimenti prevista normativamente - dell’affidamento a uno soltanto degli stessi, dovrebbe presupporre una attenta valutazione non tanto delle condizioni atte a consentire la prosecuzione di una convivenza (in buona parte già divenuta patologica) tra due partner, quanto di come tale quiescenza del loro rapporto sia positiva e non deleteria per la crescita educazionale, emotiva, personale, umana della prole.

Una lettura delle norme contenute nella disciplina legislativa dovrebbe far propendere per una solidale, condivisa malleveria, dai contenuti ampi, ricadente sui genitori nei confronti della propria prole. Obiettivo di per sé già non semplice da realizzare in un contesto di pacifica e armoniosa relazione familiare (a volte apparente e comunque non in grado di evitare preoccupanti ’mancanze’ per i figli), ma soprattutto in presenza di patologie più o meno gravi dell’assetto organizzativo, gestionale, del profilo affettivo e umano, insiti in ogni coppia.

Come ogni nuova misura, anche l’affidamento condiviso costituisce per certi versi una sfida, per altri uno strumento da affinare, per altri ancora una (ma non l’unica) delle stradi percorribili in materia di affidamento della prole, in presenza di separazione o divorzio dei genitori. Non è questa la sede per analizzare le modalità, i presupposti, i percorsi argomentativi attraverso i quali i giudici hanno disposto o disporranno il ricorso a tale provvedimento, ma si può riportare un inciso della Suprema Corte che, in una recente sentenza del 18 agosto 2006, ha sottolineato come (il riferimento alla legge n. 54/06 è fatto per sostenere l’assunto che pur in presenza di un affidamento congiunto, vige l’obbligo da parte di uno dei genitori di corrispondere un assegno di mantenimento in favore della propria prole) tale legge «introduca il cd. principio della bigenitorialità, con ciò ovviamente privilegiando l’interesse “esistenziale” del minore». Una breve affermazione che, pur se tolta dal contesto in cui è stata inserita, solleva riflessioni sull’importanza e delicatezza della previsione - e possibile adozione da parte del giudice - di un provvedimento nel senso finora descritto.

Altra voce che possiamo, anzi dobbiamo senz’altro ricordare, concerne l’ «Amministrazione di sostegno». L’espressione evidenzia in modo immediato le finalità che l’introduzione legislativa vorrebbe realizzare, proteggere, cioè, quelle persone prive della capacità di espletare, autodeterminandosi, le differenti funzioni inerenti alla propria quotidianità.

L’intervento del terzo (’amministratore’) contenuto nella Legge 9 gennaio 2004, n. 6, assume le caratteristiche del sostegno temporaneo o permanente, cercando di ridurre al minimo l’incisione sulla capacità di agire del soggetto per così dire ’amministrato’(il cd. beneficiario).

Il percorso che l’istituto ha seguìto, fin dalle sue primissime ideazioni teoriche in materia di infermità psichica, incapacità e diritto, è stato indubbiamente caratterizzato da una crescente attenzione per temi allora (più di un ventennio fa) inconsueti. Le riflessioni, i convegni, gli scambi di idee, le discussioni più o meno animate sul tema hanno da sempre posto l’attenzione sulla enorme importanza di un intervento in tale ambito, un intervento però coordinato, responsabile, edotto, completo e multidisciplinare. Intervento che, a partire dal profilo normativo è stato posto in essere ma che abbisogna, in modo sempre più consapevole, dell’apporto di tutti coloro che – giuristi, psicologi, sociologi, antropologi, ricercatori – abbiano a cuore il binomio innanzi richiamato tra sfera giuridica e quel profilo interiore che incide sulla «naturale» proiezione della persona nella sua quotidianità.

Il ricorso a tale strumento di supporto, assistenza, aiuto, rappresentanza, protezione, può essere inteso in tutta la sua ampiezza e utilità soltanto se muta il presupposto, sovente presente nell’immaginario comune, di partenza che individua - a torto – nella insania, stravaganza, frenesia degli amministrati, la conferma di ciò che Cendon (e chi come lui) teme possa verificarsi, ossia intendere l’istituto de quo quale «ennesimo istituto per i «matti», quindi assai poco attraente per ogni altra «categoria» di cittadini».

Partendo da tale considerazione, occorrerà interrogarsi in particolare sul camaleontico, perché potenzialmente variegato, ventaglio di provvedimenti adottabili e riconducibili all’istituto in commento. Anche su tale versante, il ruolo dell’interprete sarà senz’altro primario per dare a detto istituto una conformazione peculiare, mutabile di caso in caso.

Altro profilo senz’altro da approfondire è l’analisi del possibile contrasto che potrebbe insorgere tra coloro che ’vogliono’ o ritengono ’opportuno’ il ricorso a tale strumento, senza che vi sia una concorde volontà (o iniziativa) da parte del beneficiario (pertanto ignaro) in tal senso, e lo stesso (involontario) beneficiario. In tal caso, la preoccupazione principale che dovrebbe essere affrontata è quella di garantire l’interessato da soggetti che in modo capzioso potrebbero chiedere il ricorso a tale istituto. E tale garanzia dovrebbe essere riferita sia al momento in cui tale provvedimento venisse disposto dal giudice, sia a quelli che fossero i reali ed effettivi bisogni dell’individuo interessato (che potrebbero far ritenere adeguato il ricorso all’amministrazione in suo favore), sia infine alle aspirazioni (e cura della persona) del beneficiario e alla tutela del patrimonio dello stesso.

’C’ come ’Cellule staminali’. La tematica è alquanto ostica e si fonda su una serie di contrasti, polemiche che animano le posizioni (restrittive) del mondo cattolico da un lato, e la libertà di ricerca scientifica dall’altro. Rischio di scomunica, condanna e censure da un lato, lamentata privazione di un importantissima fonte di ricerca medica (gli embrioni), sono gli avvertimenti, i moniti, gli stati d’animo che albergano le due contrapposte fazioni ideologiche.

La maggiore distanza nella disputa tra gli oppositori e i favorevoli alla ricerca scientifica avente ad oggetto le cellule staminali, si avverte (proprio) con riferimento agli embrioni. Dal versante ecclesiastico si reputa totalmente ferma ogni considerazione sulla vita umana, in ogni suo stato, compresa la fase embrionale, e si fa notare come ci si debba opporre a ogni utilizzo degli stessi come possibili strumenti da utilizzare e strumentalizzare a piacimento della ricerca (va anche detto che alcuni studiosi ritengono sia possibile riportare le cellule staminali ’adulte’, con particolari processi, allo stato originario); dal versante scientifico si fa notare come proprio le cellule staminali embrionali rappresentino il terreno più stimolante, potenzialmente più utile; in altri termini, esse consentirebbero, in proiezione, di plasmare le cellule e trasformarle nei vari organi o tessuti, in virtù di una loro non specializzazione (al contrario di quelle adulte), dovuta al loro stato per così dire ’puro’.

Prescindendo da tecnicismi che significherebbero appesantire questa finestra giuridica aperta sul mondo delle staminali, e sottolineando come tale tematica inglobi profili etici, scientifici, medici, religiosi, giuridici, occorrerebbe evidenziare alcuni problemi legati alla ricerca delle cellule staminali. Un primo intoppo potrebbe derivare dalla necessità di ottenere finanziamenti per effettuare la ricerca (ma anche dall’interesse per una pubblicazione sulle prime pagine di una importante rivista del settore), e questo meccanismo comporterebbe – in diversi casi – la naturale necessità di (forzare la mano per) rispondere in modo positivo (seppur non sempre esente da inesattezze) alle pressioni portate dall’esterno. Un recente articolo comparso sul Corriere della sera del 28 agosto 2006 (“Gli scienziati e le staminali: «Troppi interessi, costretti a forzare i dati»”), accenna ad un quadro nel quale i colori a volte sono forzatamente marcati, più per una presunta furbizia o frase ad effetto utilizzata dal ricercatore di turno, che per una reale scoperta effettuata a vantaggio della ricerca. Il futuro, per chi crede nelle sue potenzialità, potrà dar conferma o smentita ad un ottimismo esagerato o ad una reticenza esasperata. Lavori in corso…….

Alla lettera ’D’, annoveriamo una delle voci giuridiche più significative. Ideata al fine di contribuire alla modellazione del nuovo sistema risarcitorio, nonchè per conferire alla persona umana una più marcata luce giuridica, la voce del «danno esistenziale» (inserito all’interno della più ampia categoria del «danno non patimoniale»), quale voce di spicco nel complesso tema del «danno alla persona», è in procinto di ricevere (e potremmo dire, merita o ha pienamente dato prova di meritare), sotto ogni visuale, un vero e proprio diritto di cittadinanza nel mondo del diritto.

Danno e persona come binomio rinvigorito dalle recenti acquisizioni giurisprudenziali in tema di responsabilità e sistema risarcitorio; danno e persona come risposta dell’ordinamento giuridico agli attacchi, ripetuti e giornalieri (a volte), portati all’individuo dalle relazioni, personali e professionali che intraprende, dalle attività illecite altrui, dal contesto sociale in cui si cala, dagli inadempimenti ai contratti che esso stipula, e via di seguito.

Tanto è stato detto con riferimento a tale voce di danno. Molto pregio giuridico hanno assunto alcune pronunce divenute storiche nella costruzione del danno esistenziale (dal famoso revirement giurisprudenziale del 2003 alle recenti prospettazioni della Suprema Corte), ma ancora molto c’è da fare per ritoccare i lineamenti di questa importantissima categoria di danno risarcibile, soprattutto nelle modalità attraverso le quali i giudici liquidano e nei ragionamenti che essi seguono.

Se può certamente essere perseguita la strada della valutazione equitativa con riferimento al profilo della quantificazione, e ancor prima della strumentazione probatoria ampia (dalla prova per testi al parere degli esperti del settore, dalla consulenza alle presunzioni e via di seguito) per quanto concerne il profilo della ’prova’, restano ancora dei dubbi, o meglio delle zone semi-oscure.

Innanzitutto occorre non trascurare un presupposto indefettibile.

Quando si parla di danno esistenziale, è convinzione di chi scrive, non è possibile - salve ipotesi di difficile similitudine - ragionare per casi simili. Detta in altri termini, l’esistenza umana ha una propria consistenza e uno specifico contenuto, una sua naturalezza e conformazione, una predisposizione a comporsi di profili realizzatori che non possono essere uguali per tutti. Per quanto a Tizio possa far piacere uscire con la barca dei propri amici e discorrere amabilmente del più e del meno, al danno che Caio subisce da un fatto illecito altrui (un investimento, un’aggressione, un intervento operatorio sbagliato), ove Caio vive per la vela, gareggia, si realizza come uomo e come professionista nelle attività velistiche, non potrà essere attribuita la stessa importanza e consistenza economica dell’eventuale danno – della stessa natura – patìto dal primo. Gli esempi potrebbero continuare, ma la sostanza del ragionamento di base non muterebbe. Questo per dire che i discorsi su liquidazioni per ’casi simili’, potrebbero essere tacciati di ’incompiutezza’, di ’leggerezza’, difettando quindi di quella necessaria aderenza alla «quotidianità» su cui essi vanno ad incidere, in quando potrebbero cagionare una ulteriore ingiustizia a chi già è stato ingiustamente leso e aggredito nella propria esistenza.

Altro profilo che deve essere senz’altro trattato (meglio) dagli operatori del diritto è quello relativo alla chiara delineazione delle voci di danno non patrimoniale. Se proviamo a sfogliare una rivista che raccoglie le sentenze degli ultimi anni in tema di danno non patrimoniale, si può notare una resistente e anacronistica tendenza a utilizzare termini arzigogolati, espressioni confuse e inappropriate, o apparentemente appropriate nella forma, ma inadattabili alla vicenda concreta, quando si deve parlare di danno esistenziale.

Tali pronunce potrebbero essere ’denunciate’ di scarsa limpidità e coerenza espositiva, ed è scombussolante notare come mentre il ’danno esistenziale’ debba scontare la condanna di chi ancora vuole remare contro: è senz’altro una voce scomoda per questi, così come per chi crede in un diritto puerile nelle forme e nei contenuti, nonchè nel (faticoso) lavoro che esso può comportare per gli interpreti; è, invece, una voce imprescindibile, nobilitante, in che termini ci si potrebbe chiedere!

La nobilitazione del diritto deve essere contraddistinta da impegno e dedizione giuridici, che non possono essere ’licenziati’ con lo stesso impertinente, atavico, sconclusionato modus agendi che gli interpreti usano per liquidare il danno morale (di norma metà o 1/3 del danno biologico) o un generico danno non patrimoniale. Occorre molto di più. È bene ricordarlo, stiamo parlando di vita umana alterata, compromessa, lesa, incisa, forzata, ingabbiata, oscurata, non di fastidio per doversi studiare delle carte in più o dover decidere seguendo solo (facili e, tra l’altro, non illustrati) metodi di derivazione aritmetica.

In tale contesto, quindi, è il giudice, ma anche la parte e il suo difensore che assumono – ognuno con un proprio differente ruolo e con distinti poteri – una parte ben precisa.

I secondi nel prospettare, produrre, (di)mostrare (anche mediante il richiamo alle presunzioni) cosa significhi «dover fare» piuttosto che «poter fare», cosa sia successo nella quotidianità del soggetto leso, quale importanza assumevano per il leso le attività che non potrà certamente più fare come prima; il primo nell’ascoltare (dono di per sé raro), ponderare, illustrare, argomentare la (più giusta) risposta a quanto di innaturale ha interrotto e sconvolto l’esistenza altrui.

Il problema principale, allorquando si parla di quantificazione del danno è individuare il valore da attribuire alla vita umana, soprattutto dove la produzione di un danno esistenziale non sia di origine biologica (nel qual caso si potrebbe illustrare una relazione tutt’altro che evanescente tra le due voci, partendo dal massimo ammontare di danno biologico liquidabile e man mano individuando, a livello economico, l’ammontare massimo del danno nelle diverse macro aree esistenziali). Non convince pienamente la strada della formula aritmetica, così come quella di una derivazione automatica da un’altra voce di danno (es. danno esistenziale dei genitori liquidato come frazione del danno biologico del figlio leso); l’idea di una tabellazione universale cozza contro il presupposto indefettibile innanzi ricordato: ogni esistenza umana e ogni attività ad essa collegata hanno un valore distinto ed univo per ogni essere umano. Il cerchio si chiude. La richiesta è ben chiara a tutti: il danno esistenziale reclama una più incisiva attenzione di tutti gli operatori giuridici.

Alla lettera ’D’ possiamo senz’altro richiamare il concetto di «discriminazione», quale trattamento diseguale (e ingiustificato) di situazioni, vicende, casi che si caratterizzano invece per la loro identicità, e al converso trattamento identico di fattispecie piuttosto distinte sia nei presupposti che nei contenuti e contorni. Il nostro ordinamento contiene una espressa previsione al riguardo, in una delle disposizioni più importanti dell’intero assetto costituzionale, l’art. 3, commi 1 e 2.

Al giorno d’oggi nel nostro ordinamento vi sono residui di discriminazioni che identificano vicende o situazioni pesanti da tollerare, le quali reclamano una pronta risposta, sia sul versante normativo, sia su quello relativo a una generica e maggiore presa di coscienza della collettività, giuridica e non.

I profili su cui potersi soffermare sono diversi: dall’ambito familiare a quello lavorativo, dal profilo sociale a quello politico/associativo e via di seguito.

Il sesso, quale componente indefettibile nell’esistenza di ogni individuo e parametro di crescita umana e relazionale, è senz’altro quello che viene tirato in ballo con maggiore frequenza e preoccupazione da parte di chi avverte esservi una totale mancanza di tatto e delicatezza al riguardo.

L’art. 2 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, datata 1948, prevedono indicazioni pertinenti in tema di discriminazione e lotta alla stessa; alcune produzioni giuridiche si sono occupate di discriminazione, pur non menzionando il profilo dell’orientamento sessuale, che però è stato coperto da altri interventi regolamentativi.

Il nostro ordinamento giuridico ha prodotto nell’art. 3 Cost. la norma espressiva del più alto riconoscimento del principio antidiscriminatorio, attraverso formule di ampiezza tale, quale ad esempio l’espressione ’condizioni personali’, in grado di coprire – sembra lo si possa affermare con coscienza giuridica – abusi, prevaricazioni, disuguaglianze, ingiustizie, malesseri, aberranti mancanze fondate proprio sul profilo sessuale. A tal proposito, va sottolineato come sia compito dell’interprete rendere tale apparente ed evidente parametro di protezione per soggetti meno tutelati, quali omosessuali, bisessuali e via di seguito, un parametro di giustizia sostanziale e non soltanto formale. Senza ombra di dubbio, un intervento di raccolta, studio, esame approfondito, sostegno delle problematiche relative ai profili legati all’orientamento e alle scelte sessuali deve animare e accompagnare il discorso di chi ha a cuore le sorti di un diritto più vicino a chi è di fronte ad esso, molte volte, in una posizione di debolezza.

Sul versante comunitario, vale la pena evidenziare come il Parlamento europeo sia più volte intervenuto, cercando di sensibilizzare gli Stati membri verso una regolamentazione in tema di discriminazioni, considerando anche quanto stabilito nella Carta di Nizza prima e nella Costituzione per l’Europa che, seppur non aventi un valore giuridico formalmente riconosciuto a livello di produzione normativa ufficiale, conservano pur sempre, in attesa di un nuovo discorso in ottica europea (da ultimo si è sentito parlare dell’idea di un mini-trattato europeo da votare a maggioranza e non più all’unanimità), un valore giuridico sostanziale non indifferente.

Una tematica senz’altro di attualità e cu sui più volte giuristi, esponenti del mondo cattolico, scienziati, dottori, genetisti si sono interrogati, anche sulla base dell’esperienza fornita da altri ordinamenti giuridici stranieri, è quella dell’eutanasia (traducibile, secondo la terminologia greca, come ’morte dolce’).

La problematica è di grandissima attualità, per tutta una serie di fattori. Da un lato, risulta senz’altro interessante lo scenario che si può scorgere, osservandolo al di fuori dei confini nazionali, ove si è avuto un riconoscimento giuridico, seppur soltanto in alcuni stati, di tale fenomenologia.

Quali sono, brevemente, i termini del discorso? Da un lato si pone il rispetto per la vita umana, per la dignità della persona, dall’altro l’opportunità di ricorrere alla somministrazione di farmaci per far derivare l’evento lesivo della morte, magari in presenza di patologie per la salute, per il futuro esistenziale della persona ’destinataria’ di tale intervento attivo da parte del medico. Da un lato emerge la difficoltà di studiare il cosiddetto ’aiuto al suicidio’ (che diventerebbe quindi ’assistito’), la possibilità di intervenire a livello medico ’aiutando’ a morire, i confini e le modalità di tale potenziale intervento, dall’altro ci si interroga sulla portata e sul tenore della autonomia personale, sugli eventuali attacchi che alla stessa verrebbero portati in caso di un divieto totale.

To be continued……

Alla lettera ’F’ occorre senz’altro richiamare la tematica della famiglia di fatto, posta al centro di ogni dibattito volto a delinearne e attualizzarne i contenuti, studiarne le prospettive, interrogandosi su quale risposta giuridica debba essere affidata alle prospettazioni dei dottrinari e ai decisa degli interpreti. Famiglia di fatto, unioni di fatto, convivenza more uxorio, unioni non coniugali tra persone etero ed omosessuale. Si tratta di espressioni utilizzate per dare una voce alle esigenze che le nuove relazioni familiari, etichettate come atipiche se poste in relazione al contesto familiare tradizionale (unione matrimoniale di un uomo con una donna), avvertivano di fronte a restrizioni aprioristiche e resistenze di stampo moralistico.

Le principali difficoltà che tali relazioni devono e dovranno affrontare, riguardano non più e non tanto il riconoscimento della portata e rilevanza socio-giuridica del fenomeno - ormai impostosi all’attenzione di tutti, compresi i media, come realtà con la quale occorre dialogare e confrontarsi -, quanto la possibilità ed opportunità di approntare strumenti e istituti giuridici atti a tutelare tutte quelle situazioni giuridiche soggettive (quali diritti, interessi), ma anche quelle esigenze, quelle necessità e peculiarità che possono essere proprie di ogni componente del nucleo familiare non coniugale. Famiglia non coniugale e famiglia coniugale: quale più discussa divisione della famiglia può animare gli interrogativi dei dottrinari e degli interpreti?

Non occorre forse prendere in esame, con serietà, compiutezza, chiarore giuridico, quelle formazioni familiari che, a prescindere dal nomen iuris o dalla forma, si identificano quali luoghi di affetto, solidarietà, condivisione, scambio materiale e morale?

Le tematiche che si intrecciano dietro la facciata del rapporto familiare, si legano anche all’utilizzo di terminologie quale - ad esempio – quella di «matrimonio omosessuale». Si può far notare come sia preferibile utilizzare formule meno esponibili a critiche, quale «unione omosessuale» o «unione familiare» tra persone dello stesso sesso, per identificare quello che è sostanzialmente un mutamento – produttivo di conseguenze civilmente rilevanti - di status delle singole persone che compongono l’unione de qua, da un’ottica individualista a un’ottica relazionale/familiare giustappunto. Il termine matrimonio, però, sembra fondarsi – sotto il profilo storico, culturale e religioso - su una diversità di sesso, su un modello relazionale uomo-donna, ancora presente nel modo di ragionare di dottrinari e del pensiero giurisprudenziale. Sebbene questo non significhi che tale residuo sia giusto o giustificabile, soprattutto se letto alla luce delle acquisizioni più recenti sulle unioni familiari atipiche, more uxorio o di fatto che dir si voglia.

Serve riflettere ad alta voce e congiuntamente, ma soprattutto serve agire prontamente e con un’accortezza giuridica che ai più molte volte manca. Che dunque alle parole seguano i fatti e che i fatti siano portatori di giuste e rassicuranti conseguenze – evidentemente anche di tipo giuridico - per chi con il ritardo ha avuto già a che fare.

Siamo alla lettera ’P’, come privacy. Il diritto ad essere lasciati in pace, il diritto alla propria serenità, il diritto ad evitare gli occhi indiscreti e le ingerenze altrui, di conoscere chi gestisce le proprie informazioni, con quali modalità, con quali misure di sicurezza, quali siano i suoi diritti al riguardo, il diritto in buona sostanza all’autodeterminazione informativa.

Sono queste soltanto alcune delle definizioni che hanno impegnato dottrina prima e giurisprudenza poi nella ricerca di dare effettività giuridica a una posizione soggettiva importantissima, ma mai pienamente – questa è la sensazione che dal di fuori viene avvertita – utilizzata, fatta valere e protetta nelle opportune sedi.

Parlare di privacy significa confrontarsi con tutti quei profili che in modo più o meno diretto interessano la sfera riservata di ogni individuo: il diritto di manifestazione del pensiero, di critica, di cronaca, la necessità di contemperamento degli interessi in gioco e dell’altrui sfera privata in presenza delle intercettazioni disposte in materia penalistica, il settore sanitario e tutte le peculiarità del trattamento dei dati sanitari, le previsioni in materia di trattamento dei dati personali e sensibili in ambito pubblico, la rete internet e il rischio della sicurezza per i dati personali, il pericolo dello spamming e le regole d’azione del Garante e altro ancora.

La lettura critica di tale quadro da parte di chi nutre una forte dedizione per la tutela di profili così intimamente legati alla persona umana, evidenzia come la privacy assuma troppo spesso una portata negativa, venga collocata dalla quotidianità dei comportamenti, ritardi, violazioni e inadempienze, in una sorta di zona oscura, dalla quale è a volte difficile uscire. Sembra, a volte, che il tanto richiamato bilanciamento di interessi sia in realtà risolto a priori con un «annunciato» sacrificio del diritto alla privacy o comunque con una sua compressione oltre i normali limiti imposti dal caso concreto e da eventuali e giuste esigenze a fare da contraltare. Anche qui occorre che si riesca a scegliere la giusta tonalità di grigio che, posta tra una totale assenza di protezione e una totale esasperazione della tutela alla riservatezza, riesca a rendere meno intolleranti le lamentele di coloro che hanno dovuto patìre un sacrificio della propria sfera personale e intima.

Come ultimo riferimento potremo richiamare l’attualissima tematica del testamento biologico, meglio nota con il termine «direttive anticipate», o «living will» utilizzando una espressione cara al mondo anglosassone. Siamo in presenza di quel documento contenente le dichiarazioni - le direttive giustappunto - con le quali l’individuo dichiarante decide di mettere per iscritto le proprie volontà in relazione a determinati trattamenti sanitari che vorrà ricevere (contenuto positivo) o quelli di cui non vorrà fruire ove non fosse in grado di poter prendere decisioni in via autonoma (contenuto negativo). La mancanza di un preciso regime regolamentativo in materia di direttive anticipate, nonostante siano stati presentati diversi progetti di legge, non esclude che la materia vada trattata con estrema attenzione. La fondazione Veronesi che ha cercato (e non è stata la sola) di sensibilizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema, riunendo anche noti giuristi nostrani, ha previsto un registro nazionale (telematico) per il testamento biologico, gestito con l’intervento del Consiglio nazionale del notariato (i notai autenticherebbero le volontà espresse dal dichiarante, garantendone la veridicità, nonchè la capacità naturale dello stesso, nel momento in cui dovesse essere effettuata la dichiarazione).

La previsione della nomina di un fiduciario che intervenga laddove si tratti di far valere le ultime volontà del dichiarante, informando il medico dell’esistenza di tali direttive, è altro aspetto da tenere in debita considerazione.

Vale la pena di ricordare, come si può facilmente desumere da una lettura più approfondita delle due problematiche, che il testamento biologico da un lato e l’eutanasia dall’altro, rappresentino due realtà distinte per contenuti e forme, da non sovrapporre in alcun modo. Pertanto, non si reputa necessario spendere parole su tale aspetto.

Una piccola chiosa finale. Una citazione tratta da Cesare Ripa, Iconologia overo Descrittione d’Imagini delle Virtù, Vitii, Affetti, Passioni humane, Corpi celesti, Mondo e sue parti, 1611.

L’ingiustizia così viene descritta in un passaggio dello scritto:

“Donna vestita di bianco tutta macchiata, tenendo nella destra mano una spada et un rospo nella sinistra, per terra vi saranno le tavole della legge rotte in pezzi, sarà cieca dall’occhio destro et sotto alli piedi terrà le bilancie. Il vestimento bianco macchiato dimostra non essere altro l’ingiustitia che corrotione et macchia dell’anima, per la inosservanza della legge la quale viene sprezzata et spezzata dalli malfattori, et però si dipinge con le tavole della legge et con le bilancie al modo detto. Vede l’Ingiustitia solo con l’occhio sinistro, perché non si fonda se non nelle utilità del corpo, lasciando da banda quelle che sono più reali et perfette et che si estendono a’ beni dell’anima, la quale è veramente l’occhio dritto et la luce megliore di tutto l’huomo”.

Immagini, queste appena descritte, che rendono necessario (e quindi indifferibile) un impegno su più fronti affinché quanto (il pregiudizio ingiusto e il danno) dovrebbe rappresentare l’eccezione (pur sempre deleteria) – a carico del malcapitato – si trasformi in una fastidiosa e pericolosa regola.