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Il danno esistenziale da perdita da congiunto

Danno non patrimoniale: danno morale, danno biologico, danno esistenziale

Il sistema risarcitorio del danno alla persona è un “sistema bipolare”, costituito dl danno patrimoniale ex art. 2043 c.c., e dal danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.. Con riferimento a quest’ultimo, nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità, esercitando la sua funzione nomofilattica, è intervenuta, in modo deciso e decisivo, con le due c.d. “sentenze gemelle”, n. 8827 e n. 8828 del 31/05/2003.

Nelle citate pronunce, la Corte ha, innanzitutto, ampliato la portata del danno non patrimoniale, che fino ad allora veniva identificato con il solo “danno morale”, in quanto unica ipotesi tipica positivamente prevista (art. 185 c.p.).

Sul punto, infatti, il Collegio ha precisato che il danno morale, da intendersi come “il patema d’animo o la sofferenza psichica di carattere interiore” conseguenza di un fatto ingiusto, è solo un aspetto del danno non patrimoniale, in quanto il danno non patrimoniale comprende in sé ogni ipotesi in cui viene leso un valore inerente la persona.

Nelle c.d. sentenze gemelle, la corte di legittimità ha dettato, inoltre, un altro principio che ha rivoluzionato il sistema di risarcimento del danno alla persona, e che ha, poi, trovato conferma in numerosissime sentenze successive (Cass. 21/10/2005 n. 20355; Cass. 20/10/2005 n. 10323; Cass. 19/10/2005 n. 20205; Cass. 15/01/2005 n. 729). La Corte ha svincolato il riconoscimento del danno non patrimoniale alla commissione di un reato. Ne deriva, pertanto, che qualunque fatto illecito, anche se non integrante un reato, è potenzialmente produttivo di un danno non patrimoniale risarcibile.

Il contenuto del danno non patrimoniale viene, quindi, ampliato fino a comprendere oltre al danno morale anche il danno biologico, quale lesione del bene salute.

Il danno biologico, a differenza del danno morale, che si sostanzia nel momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico del soggetto offeso, comprende qualsiasi violazione alla integrità fisica e/ o psichica delle persone, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo di essere. Il danno biologico si manifesta esteriormente ed è, quindi, obiettivamente riscontrabile.

Sia la giurisprudenza che la dottrina hanno, però, negli anni, ravvisato l’esistenza di “situazioni soggettive negative di carattere psico-fisico non riconducibili nè al danno morale soggettivo, né al danno biologico” (Cass. 13546/2006). Si tratta di reazioni di vario genere e di varia natura, conseguenti al verificarsi del fatto dannoso, che, per prima la dottrina ha enucleato, dando vita ad una terza tipologia di danno non patrimoniale, il c.d. “danno esistenziale”.

Sul contenuto del “danno esistenziale”, che può essere genericamente definito come la modificazione peggiorativa del tipo di vita condotto dalla vittima precedentemente, gli autori si sono divisi, dando vita a due correnti contrapposte.

Secondo la scuola di Cendon e Ziviz, la categoria del danno esistenziale ricomprende in sé tutti gli aspetti essenziali del valore uomo, quindi anche la menomazione all’integrità fisica, che di regola si identifica con il danno biologico.

Monasteri, che si oppone a questa interpretazione estensiva, sostiene, invece, che il danno esistenziale ha principalmente la funzione di garantire tutela risarcitoria a quegli interessi essenziali che non sono sussimibili sotto la categoria del danno morale e del danno biologico.

In seguito, la giurisprudenza ha recepito la necessità, manifestata dalla dottrina, di caratterizzare tutte quelle situazioni negative soggettive, non riconducibili né al danno morale né a quello biologico, ed ha così riconosciuto la figura del “danno esistenziale”, come terza tipologia di danno non patrimoniale.

Essa è stata, così, chiamata a determinare il contenuto di questa nuova categoria di danno, individuando gli interessi essenziali rilevanti in argomento e, soprattutto, delimitando l’ambito di relativa risarcibilità.

A risolvere ogni questione e dubbio di natura interpretativa in merito, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 6572/2006, hanno identificato il danno esistenziale in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.

Il danno esistenziale, quindi, si distingue dal danno morale in quanto non consiste in “mere sofferenze”, che rimangono nella sfera interiore del soggetto leso, ma deve aver determinato “concreti mutamenti in senso in senso peggiorativo nella qualità della vita” (Cass. Sez. Un. N. 6572/2006); mentre diversifica dal danno biologico poiché, a differenza di questo, rimane integrato a prescindere dalla accertabilità in senso medico-legale.

Il danno esistenziale da perdita da congiunto

Premesso, dunque, che il danno esistenziale consiste in quella alterazione che, a seguito del fatto lesivo, la persona subisce alle proprie abitudini e agli aspetti relazionali propri, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere la risarcibilità di tale tipologia di danno non patrimoniale, a seguito della perdita di un congiunto.

Si tratta, non già di un danno “di riflesso”, “di rimbalzo”, ma diretto, sofferto dagli stretti congiunti iure proprio. Difatti, l’evento morte è un evento plurioffensivo, poiché se da una parte causa l‘estinzione della vittima primaria, che subisce il massimo sacrificio del relativo diritto personalissimo alla vita, dall’altra determina l’estinzione del rapporto parentale con i congiunti del defunto, che a loro volta vengono lesi nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 8828/2003).

La perdita definitiva di tutti quelle positività che derivano dal rapporto parentale (Cass. n. 8827/2003; n. 20324/2005) provoca uno sconvolgimento delle abitudini della vita che, pur potendo avere diversa ampiezza e consistenza in termini di intensità, incide negativamente sulla personalità dell’individuo che patisce la perdita.

La privazione del rapporto personale con lo stretto congiunto determina una modificazione peggiorativa della vita di relazione familiare del soggetto che la subisce, che merita di essere riconosciuta e risarcita, qualora il danneggiato ne fornisca la prova.

Il danno esistenziale, infatti, come il danno patrimoniale è danno-conseguenza, non configurabile in re ipsa. Spetta, dunque, a chi via abbia interesse allegarlo e darne prova, anche facendo ricorso a valutazioni prognostiche e presunzioni (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 12124/2003; n. 15022/2005), che assumono rilievo precipuo (Cass. Sez. Un. N. 6572/2006).

Sia la giurisprudenza che la dottrina, del resto, sono concordi nel ritenere che la presunzione non costituisce uno strumento probatorio secondario e “debole” nella gerarchia dei mezzi di prova.

Ne deriva, pertanto, che ai fini del riconoscimento del danno esistenziale da perdita da congiunto, compito del danneggiato è quello di dimostrare la sussistenza del rapporto parentale, di coniugio, di filiazione o di convivenza con il defunto.

Secondo la Cassazione (Cass. n. 13546/2006) la “privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita), sia sull’assunto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione”.

La conseguenza è che, a quel punto, incomberà sulla parte avversa l’onere di vincere la presunzione dimostrando, ad esempio, che in caso di perdita di un coniuge si trattava di persone in realtà “separate in casa”, o che la convivenza era meramente forzata.

La determinazione del danno subito, qualora venga riconosciuto, dovrà avvenire tenendo conto di vari fattori, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare e dei superstiti, le esigenze di questi (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 16716/2003; n. 19564/2004; n. 15022/2005).

Conclusioni

Tra il 2003 ed il 2006 la giurisprudenza di legittimità ha ricomposto le fila del danno non patrimoniale, definendo il sistema risarcitario per la persona umana come composto di tre figure: danno morale, danno biologico e danno esistenziale. Quest’ultimo riconosciuto e liquidato, secondo il criterio equitativo ex artt. 1126 e 2056 c.c., anche in caso di perdita da congiunto, allegando la sola prova del rapporto di parentela, di convivenza, di coniugio, di filiazione. Provato il fatto base della sussistenza di un rapporto di coniugio, di filiazione o della convivenza con il congiunto defunto, è da ritenersi che la perdita di tale rapporto determina presuntivamente ripercussioni sia sull’assetto dei rapporti del nucleo familiare che all’esterno rispetto ai terzi.

Danno non patrimoniale: danno morale, danno biologico, danno esistenziale

Il sistema risarcitorio del danno alla persona è un “sistema bipolare”, costituito dl danno patrimoniale ex art. 2043 c.c., e dal danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.. Con riferimento a quest’ultimo, nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità, esercitando la sua funzione nomofilattica, è intervenuta, in modo deciso e decisivo, con le due c.d. “sentenze gemelle”, n. 8827 e n. 8828 del 31/05/2003.

Nelle citate pronunce, la Corte ha, innanzitutto, ampliato la portata del danno non patrimoniale, che fino ad allora veniva identificato con il solo “danno morale”, in quanto unica ipotesi tipica positivamente prevista (art. 185 c.p.).

Sul punto, infatti, il Collegio ha precisato che il danno morale, da intendersi come “il patema d’animo o la sofferenza psichica di carattere interiore” conseguenza di un fatto ingiusto, è solo un aspetto del danno non patrimoniale, in quanto il danno non patrimoniale comprende in sé ogni ipotesi in cui viene leso un valore inerente la persona.

Nelle c.d. sentenze gemelle, la corte di legittimità ha dettato, inoltre, un altro principio che ha rivoluzionato il sistema di risarcimento del danno alla persona, e che ha, poi, trovato conferma in numerosissime sentenze successive (Cass. 21/10/2005 n. 20355; Cass. 20/10/2005 n. 10323; Cass. 19/10/2005 n. 20205; Cass. 15/01/2005 n. 729). La Corte ha svincolato il riconoscimento del danno non patrimoniale alla commissione di un reato. Ne deriva, pertanto, che qualunque fatto illecito, anche se non integrante un reato, è potenzialmente produttivo di un danno non patrimoniale risarcibile.

Il contenuto del danno non patrimoniale viene, quindi, ampliato fino a comprendere oltre al danno morale anche il danno biologico, quale lesione del bene salute.

Il danno biologico, a differenza del danno morale, che si sostanzia nel momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico del soggetto offeso, comprende qualsiasi violazione alla integrità fisica e/ o psichica delle persone, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo di essere. Il danno biologico si manifesta esteriormente ed è, quindi, obiettivamente riscontrabile.

Sia la giurisprudenza che la dottrina hanno, però, negli anni, ravvisato l’esistenza di “situazioni soggettive negative di carattere psico-fisico non riconducibili nè al danno morale soggettivo, né al danno biologico” (Cass. 13546/2006). Si tratta di reazioni di vario genere e di varia natura, conseguenti al verificarsi del fatto dannoso, che, per prima la dottrina ha enucleato, dando vita ad una terza tipologia di danno non patrimoniale, il c.d. “danno esistenziale”.

Sul contenuto del “danno esistenziale”, che può essere genericamente definito come la modificazione peggiorativa del tipo di vita condotto dalla vittima precedentemente, gli autori si sono divisi, dando vita a due correnti contrapposte.

Secondo la scuola di Cendon e Ziviz, la categoria del danno esistenziale ricomprende in sé tutti gli aspetti essenziali del valore uomo, quindi anche la menomazione all’integrità fisica, che di regola si identifica con il danno biologico.

Monasteri, che si oppone a questa interpretazione estensiva, sostiene, invece, che il danno esistenziale ha principalmente la funzione di garantire tutela risarcitoria a quegli interessi essenziali che non sono sussimibili sotto la categoria del danno morale e del danno biologico.

In seguito, la giurisprudenza ha recepito la necessità, manifestata dalla dottrina, di caratterizzare tutte quelle situazioni negative soggettive, non riconducibili né al danno morale né a quello biologico, ed ha così riconosciuto la figura del “danno esistenziale”, come terza tipologia di danno non patrimoniale.

Essa è stata, così, chiamata a determinare il contenuto di questa nuova categoria di danno, individuando gli interessi essenziali rilevanti in argomento e, soprattutto, delimitando l’ambito di relativa risarcibilità.

A risolvere ogni questione e dubbio di natura interpretativa in merito, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 6572/2006, hanno identificato il danno esistenziale in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.

Il danno esistenziale, quindi, si distingue dal danno morale in quanto non consiste in “mere sofferenze”, che rimangono nella sfera interiore del soggetto leso, ma deve aver determinato “concreti mutamenti in senso in senso peggiorativo nella qualità della vita” (Cass. Sez. Un. N. 6572/2006); mentre diversifica dal danno biologico poiché, a differenza di questo, rimane integrato a prescindere dalla accertabilità in senso medico-legale.

Il danno esistenziale da perdita da congiunto

Premesso, dunque, che il danno esistenziale consiste in quella alterazione che, a seguito del fatto lesivo, la persona subisce alle proprie abitudini e agli aspetti relazionali propri, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere la risarcibilità di tale tipologia di danno non patrimoniale, a seguito della perdita di un congiunto.

Si tratta, non già di un danno “di riflesso”, “di rimbalzo”, ma diretto, sofferto dagli stretti congiunti iure proprio. Difatti, l’evento morte è un evento plurioffensivo, poiché se da una parte causa l‘estinzione della vittima primaria, che subisce il massimo sacrificio del relativo diritto personalissimo alla vita, dall’altra determina l’estinzione del rapporto parentale con i congiunti del defunto, che a loro volta vengono lesi nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 8828/2003).

La perdita definitiva di tutti quelle positività che derivano dal rapporto parentale (Cass. n. 8827/2003; n. 20324/2005) provoca uno sconvolgimento delle abitudini della vita che, pur potendo avere diversa ampiezza e consistenza in termini di intensità, incide negativamente sulla personalità dell’individuo che patisce la perdita.

La privazione del rapporto personale con lo stretto congiunto determina una modificazione peggiorativa della vita di relazione familiare del soggetto che la subisce, che merita di essere riconosciuta e risarcita, qualora il danneggiato ne fornisca la prova.

Il danno esistenziale, infatti, come il danno patrimoniale è danno-conseguenza, non configurabile in re ipsa. Spetta, dunque, a chi via abbia interesse allegarlo e darne prova, anche facendo ricorso a valutazioni prognostiche e presunzioni (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 12124/2003; n. 15022/2005), che assumono rilievo precipuo (Cass. Sez. Un. N. 6572/2006).

Sia la giurisprudenza che la dottrina, del resto, sono concordi nel ritenere che la presunzione non costituisce uno strumento probatorio secondario e “debole” nella gerarchia dei mezzi di prova.

Ne deriva, pertanto, che ai fini del riconoscimento del danno esistenziale da perdita da congiunto, compito del danneggiato è quello di dimostrare la sussistenza del rapporto parentale, di coniugio, di filiazione o di convivenza con il defunto.

Secondo la Cassazione (Cass. n. 13546/2006) la “privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita), sia sull’assunto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione”.

La conseguenza è che, a quel punto, incomberà sulla parte avversa l’onere di vincere la presunzione dimostrando, ad esempio, che in caso di perdita di un coniuge si trattava di persone in realtà “separate in casa”, o che la convivenza era meramente forzata.

La determinazione del danno subito, qualora venga riconosciuto, dovrà avvenire tenendo conto di vari fattori, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare e dei superstiti, le esigenze di questi (Cass. n. 13546/2006; conf. n. 8827/2003; n. 16716/2003; n. 19564/2004; n. 15022/2005).

Conclusioni

Tra il 2003 ed il 2006 la giurisprudenza di legittimità ha ricomposto le fila del danno non patrimoniale, definendo il sistema risarcitario per la persona umana come composto di tre figure: danno morale, danno biologico e danno esistenziale. Quest’ultimo riconosciuto e liquidato, secondo il criterio equitativo ex artt. 1126 e 2056 c.c., anche in caso di perdita da congiunto, allegando la sola prova del rapporto di parentela, di convivenza, di coniugio, di filiazione. Provato il fatto base della sussistenza di un rapporto di coniugio, di filiazione o della convivenza con il congiunto defunto, è da ritenersi che la perdita di tale rapporto determina presuntivamente ripercussioni sia sull’assetto dei rapporti del nucleo familiare che all’esterno rispetto ai terzi.