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Truffa e millantato credito: non ci può essere concorso formale di reati

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 7 giugno - 12 settembre 2006, n. 30150
Sommario:

1. Il casus decisum di Cassazione n. 30150/200;

2. Si esclude il concorso formale di reati;

3. La posizione della giurisprudenza;

4. Truffa e millantato credito: un caso di specialità in concreto;

5. Conclusione.

1. Il casus decisum di Cassazione n. 30150/2006

L’autista giudiziario in servizio presso un Tribunale che si fa consegnare una somma di danaro da un detenuto, al fine di “comprare” un provvedimento di scarcerazione, millantando credito presso un magistrato dello stesso Tribunale in procinto di adottare un provvedimento di sospensione dell’esecuzione delle pena detentiva in corso nei confronti dello stesso detenuto (c.d. “compratore di fumo”), risponde soltanto del reato di millantato credito, ex art. 346, comma 2, c.p., e non anche del reato di truffa, atteso che tra le due fattispecie di reato non vi può essere concorso formale; in tal caso, infatti, non può trovare applicazione anche la norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in quello di millantato credito, sul rilievo che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 346, comma 2, c.p.

2. Si esclude il concorso formale di reati

Nel millantato credito sono impliciti gli artifizi e raggiri, con il corollario logico che non vi può essere concorso formale di reati tra truffa e millantato credito. Questa è, in sintesi, la soluzione cui è giunta Cassazione n. 30150/2006.

Ancora oggi dibattuta in dottrina e in giurisprudenza la questione circa la possibilità o meno che i due reati di truffa (aggravata) [[1]] e millantato credito possano concorrere.

Mentre ciò è pacifico riguardo la fattispecie contenuta nel primo comma dell’art. 346 c.p. [[2]], relativa al fatto di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale riceve denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale; non altrettanto può dirsi con riferimento all’ipotesi di cui al secondo comma, che è quella contestata nel caso in esame.

Nel 2° comma del 346 il soggetto attivo non si propone attraverso un’attività di intermediazione, come nella ipotesi base dell’art. 346 c.p., ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario pubblico; a ciò consegue che se realizza concretamente l’attività di corruzione concorre del delitto di cui all’art. 318-319 c.p., mentre se, ingannando il "compratore di fumo", si appropria della retribuzione risponderà del reato di cui al capoverso dell’art. 346 c.p.

Cassazione n. 30150/2006 afferma che “ciò che differenzia le due ipotesi di millantato credito è l’elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell’art. 346 c.p., un elemento che richiama il mendacio e l’inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa causa addotta dall’agente per indurre con l’inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile”.

Inoltre si evidenzia come la condotta dell’agente ex 346 comma 2 sia tutta protesa al conseguimento di un profitto patrimoniale attraverso l’induzione in errore del ed. compratore di fumo, e che il bene oggetto della tutela penale, sia anche quello patrimoniale.

La conclusione cui giunge Cassazione n. 30150/2006 è un giudizio di non punibilità dell’imputato in ragione dell’accusa di truffa, da “ritenersi assorbito in quello di millantato credito, dal momento che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 346 comma 2 c.p”.

3. La posizione della giurisprudenza

Tesi del concorso formale

Un orientamento, prevalente in giurisprudenza, ritiene che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché tutelano interessi distinti e perché diverso è il mezzo utilizzato per la loro commissione, dal momento che nel delitto di millantato credito la condotta consiste in un raggiro del tutto particolare consistente nelle vanterie esplicite o implicite di ingerenze o pressioni sulla attività pubblica (Sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 15118, Santangelo, RV 224844; Sez. VI, 24 novembre 1998, n. 13657, Battaglia; Sez. VI, 7 novembre 1997, n. 547, Virzi).

In particolare, in una fattispecie simile a quella in esame, relativa alla condotta di chi si fa dare una somma di denaro dal partecipante ad un esame con il pretesto di consegnarla al funzionario esaminatore la Cassazione Sez. VI con la sentenza n. 547 del 19 gennaio 1998 (ud. 7-11-97) aveva stabilito che ”il reato di millantato credito si differenzia da quello di truffa non solo per il carattere preminente dell’offesa dell’interesse all’integrità dell’affidamento e del prestigio che deve fruire la pubblica amministrazione in ogni settore della sua attività, (al quale viene arrecato nocumento dalla prospettazione di potervi interferire comprando il favore dei soggetti preposti ai suoi uffici), ma perché la condotta posta in essere non consiste in artifici o raggiri, ma nella vanteria di potersi ingerire nell’attività pubblica al fine di inquinarne il regolare svolgimento, mediante il mercimonio dell’esercizio dei suoi poteri”

In passato con la risalente Sez. VI sentenza n. 3905 del 24 aprile 1985 (ud. 31-1-85) si era appurato che “il delitto di truffa e quello di millantato credito differenziano tra loro sia per il diverso oggetto giuridico sia per la diversità del soggetto passivo, sia per l’elemento materiale giacché per il millantato credito è richiesto l’uso di una vanteria e non occorre l’effettivo conseguimento di un ingiusto profitto, che è necessario, invece, con l’uso di artifici e raggiri, per la consumazione della truffa”. (Fattispecie in tema di richiesta di denaro per preteso esonero dal servizio militare).

E ancora con Sez. Vi sent. 470 del 19 gennaio 1987 (ud. 15-10-86) si è sottolineato che “i delitti di truffa e millantato credito si distinguono per la diversità dell’oggetto della tutela penale, che è il patrimonio, nella truffa, e il prestigio della pubblica amministrazione, nel delitto di cui all’art. 346 cod. pen. Pertanto le due violazioni, anche se unite in unica azione, producono due distinti eventi criminosi, con conseguente concorso formale di reati”.

Tesi del concorso apparente di norme

Già con la sentenza della Sez. IV n. 5789 del 19 giugno 1986 (ud. 21 ottobre 1985) la Cassazione stabilì che ”i delitti di truffa e millantato credito possono concorrere anche se la violazione di tali ipotesi criminose sia commessa con un’unica azione, purché sussistano gli estremi per la loro configurabilità”.

Più di recente si è affermato che “il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma primo, c.p., si concreta nella vanteria, non corrispondente alla realtà, nei confronti del terzo, di accesso privilegiato presso un pubblico ufficiale, con la quale il millantatore induce in errore il terzo, con danno di quest’ultimo e proprio ingiusto profitto. Ne consegue che il reato di truffa non può concorrere con il reato di millantato credito, ma resta assorbito da quest’ultimo, allorché la vanteria presa in considerazione per esso sia identica a quella ritenuta integrante gli artifici e raggiri del primo”. — Sez. 6 sent. 20105 del 7 maggio 2001 (ud. 4 maggio 2001).

4. Truffa e millantato credito: un caso di specialità in concreto

Il rapporto che si verifica tra i due reati di truffa e millantato credito è stato definito, in dottrina, come ipotesi classica di specialità in concreto.

A differenza della specialità in astratto ex art. 15 cp [[3]], che consiste nel rapporto di genere a specie in astratto tra due fattispecie, la specialità in concreto non è classificabile a priori ed in via astratta, bensì solo in concreto tra due fattispecie che in astratto appaiono eterogenee.

In tale ipotesi, esclusa pertanto l’operatività del criterio ex art. 15 cp, si è optato per i criteri di valore dell’assorbimento e della consunzione.

Il principio dell’assorbimento è tradizionalmente distinto in due ipotesi: espresso, tramite le cd clausole di riserva, e tacito, ovvero evincibile dall’interprete sulla base del ne bis in idem sostanziale: in riferimento a gradi crescenti di offesa del medesimo bene giuridico, si applica la norma che contiene il grado di offesa maggiore.

Con il criterio della consunzione, anch’esso espressione del principio del ne bis in idem sostanziale, si applica soltanto la norma consumante ossia quella che per la realizzazione del reato contiene un’altra fattispecie incriminatrice.

Per entrambi i criteri sarà da applicare, in concreto, la fattispecie punita più gravemente.

Sul punto si è verificata una scissione tra i cd monisti, ovvero coloro che ritengono di risolvere il conflitto tra norme solo attraverso il criterio di specialità, ed i cd pluralisti, ovvero coloro che ritengono applicabili anche criteri di valore.

È fondamentale per la nostra analisi la decisione della Cassazione Su 41164/05, che anche se concernente il rapporto tra i reati di ricettazione (art. 648 [[4]]) e il reato di immissione in commercio di prodotti ex art. 171-ter legge Diritto d’autore (L. 633/1941) [[5]], ha statuito:

a) i criteri dell’assorbimento e della consunzione non hanno rilievo normativo ex art. 15;

b) attraverso i criteri dell’assorbimento e della consunzione si viola il principio di legalità e tassatività, poiché il referente del giudizio non è normativo ma una valutazione intuitiva del giudicante.

La decisione delle Su 41164/05 ha pertanto stabilito che i conflitti fra norme sono risolvibili solo attraverso criteri normativi ossia l’art. 15 per le ipotesi di specialità (in astratto e bilaterale), ed il principio dell’assorbimento ove richiamato dalle clausole di riserva.

Da quanto detto emerge che la Cassazione non considera la tesi della specialità in concreto; pertanto il rapporto che essa sottende non è qualificabile come conflitto fra norme, bensì come concorso formale di reati.

5. Conclusione

Utilizzando l’insegnamento delle Su 41164/05 proviamo a verificare il rapporto tra la truffa ed il millantato credito.

Per verificare se c’è interferenza fra le due norma incriminatrici dobbiamo rifarci all’art. 15 Cp, ossia le due norme devono disciplinare la stessa materia.

Tra le varie tesi che hanno cercato di dare una definizione della stessa materia ex art. 15 cp, ne prenderemo in esame due:

a) stesso bene giuridico: tesi prevalente in giurisprudenza i cui elementi di analisi sono l’identità del bene giuridico protetto e le modalità di offesa del bene giuridico;

b) rapporto strutturale tra le norma: si verifica se tra le stesse ci sia un rapporto di genere a specie: la norma speciale deve contenere tutti gli elementi del fatto tipico della norma generale con l’aggiunta di un quid pluris (SPECIALITÀ PER AGGIUNTA) o con la specificazione di un elemento tipico già previsto nella norma generale (SPECIALITÀ PER SPECIFICAZIONE).

Orbene analizzando il bene giuridico delle due norme incriminatrici risulta arduo comprendere il parere di Cassazione n. 30150/2006 quando afferma che “il bene oggetto della tutela penale, almeno nell’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 346 c.p., sia anche quello patrimoniale”.

In realtà così ragionando qualsiasi fattispecie in cui ci sia una disposizione patrimoniale avrà come bene giuridico tutelato anche il patrimonio, allargando sempre più la classificazione dei reati plurioffensivi.

Mentre la truffa è reato posto a tutela del patrimonio, il millantato credito tutela l’onore e il prestigio, nonché il buon andamento e l’imparzialità della PA.

Sul punto la giurisprudenza è unanime affermando che “i delitti di truffa e di millantato credito si differenziano per la diversità dell’oggetto della tutela penale, che nella truffa è il patrimonio e nel millantato credito è il prestigio della pubblica amministrazione” [[6]]

Infatti solo allargando il bene giuridico protetto dal millantato credito al patrimonio la corte ha potuto utilizzare il criterio dell’assorbimento.

Raffrontando la condotta incriminata la truffa richiede uno stretto legame tra gli artifici e raggiri, l’induzione in errore e la disposizione patrimoniale del privato. Sul punto Cassazione n. 30150/2006 ritiene che l’elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell’art. 346 c.p., richiama il mendacio e l’inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa causa addotta dall’agente per indurre con l’inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile.

Tale interpretazione estensiva dell’elemento del "pretesto" ex comma 2 dell’art. 346 c.p., se può costituire elemento di interferenza tra le due norme incriminatrici, non è, a parere di chi scrive di tale portata da assorbire la truffa nel millantato credito, mancando nell’art. 346 sia l’induzione in errore, sia la tutela del patrimonio, bene giuridico protetto solo dalla truffa.

Alla luce della decisione delle Su 41164/05 il rapporto tra truffa e millantato credito dovrebbe indicarsi come concorso formale di reati.

Una soluzione diversa, basata sul principio di assorbimento, potrà aversi solo de iure condendo (si veda il progetto di riforma del codice penale) con l’introduzione di una norma nella parte generale del codice in cui si disciplini il principio del ne bis in idem sostanziale.



[1] L’art. 640 cp così recita: Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, e’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro.

La pena e’ della reclusione da uno a cinque anni e della multa da lire seicentomila a tre milioni:

1) se il fatto e’ commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare;

2) se il fatto e’ commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità.

Il delitto e’ punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante

L’art. 640 bis cp così recita : La pena e’ della reclusione da uno a sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.

[2] L’art. 346 cp così recita: Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, e’ punito con la reclusione da un anno a cinque anni e con la multa da trecentonove euro a duemilasessantacinque euro.

La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da cinquecentosedici euro a tremilanovantotto euro, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.

[3] L’art. 15 cp così recita: Quando piu’ leggi penali o piu’ disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.

[4] L’art. 648 cp così recita: Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sè o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da 516 euro a 10.329 euro .

La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a 516 euro, se il fatto è di particolare tenuità.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando [ 648-bis] l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità] riferita a tale delitto

[5] L’art. 171-ter Legge Diritto d’autore (L. 633/1941) così recita:

1. È punito, se il fatto è commesso per uso non personale, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinque a trenta milioni di lire chiunque a fini di lucro:

a) abusivamente duplica, riproduce, trasmette o diffonde in pubblico con qualsiasi procedimento, in tutto o in parte, un’opera dell’ingegno destinata al circuito televisivo, cinematografico, della vendita o del noleggio, dischi, nastri o supporti analoghi ovvero ogni altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere musicali, cinematografiche o audiovisive assimilate o sequenze di immagini in movimento;

b) abusivamente riproduce, trasmette o diffonde in pubblico, con qualsiasi procedimento, opere o parti di opere letterarie, drammatiche, scientifiche o didattiche, musicali o drammatico-musicali, ovvero multimediali, anche se inserite in opere collettive o composite o banche dati;

c) pur non avendo concorso alla duplicazione o riproduzione, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita o la distribuzione, o distribuisce, pone in commercio, concede in noleggio o comunque cede a qualsiasi titolo, proietta in pubblico, trasmette a mezzo della televisione con qualsiasi procedimento, trasmette a mezzo della radio, fa ascoltare in pubblico le duplicazioni o riproduzioni abusive di cui alle lettere a) e b);

d) detiene per la vendita o la distribuzione, pone in commercio, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, proietta in pubblico, trasmette a mezzo della radio o della televisione con qualsiasi procedimento, videocassette, musicassette, qualsiasi supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere musicali, cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, od altro supporto per il quale è prescritta, ai sensi della presente legge, l’apposizione di contrassegno da parte della Società italiana degli autori ed editori (SIAE), privi del contrassegno medesimo o dotati di contrassegno contraffatto o alterato ovvero produce, utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in commercio, vende, noleggia o cede a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, a decodificare o a rimuovere le misure di protezione del diritto d’autore o dei diritti connessi;

e) in assenza di accordo con il legittimo distributore, ritrasmette o diffonde con qualsiasi mezzo un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato;

f) introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita o la distribuzione, distribuisce, vende, concede in noleggio, cede a qualsiasi titolo, promuove commercialmente, installa dispositivi o elementi di decodificazione speciale che consentono l’accesso ad un servizio criptato senza il pagamento del canone dovuto.

2. È punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da cinque a trenta milioni di lire chiunque:

a) riproduce, duplica, trasmette o diffonde abusivamente, vende o pone altrimenti in commercio, cede a qualsiasi titolo o importa abusivamente oltre cinquanta copie o esemplari di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi;

a-bis) in violazione dell’articolo 16, a fini di lucro, comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa;

b) esercitando in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi, si rende colpevole dei fatti previsti dal comma 1;

c) promuove o organizza le attività illecite di cui al comma 1.

3. La pena è diminuita se il fatto è di particolare tenuità.

4. La condanna per uno dei reati previsti nel comma 1 comporta:

a) l’applicazione delle pene accessorie di cui agli articoli 30 e 32-bis del codice penale;

b) la pubblicazione della sentenza in uno o più quotidiani, di cui almeno uno a diffusione nazionale, e in uno o più periodici specializzati;

c) la sospensione per un periodo di un anno della concessione o autorizzazione di diffusione radiotelevisiva per l’esercizio dell’attività produttiva o commerciale.

5. Gli importi derivanti dall’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dai precedenti commi sono versati all’Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i pittori e scultori, musicisti, scrittori ed autori drammatici.

[6] Cass. Sez. 6 sent. 3905 del 24-4-85 (ud. 31-1-85), Sez. 6 sent. 470 del 19-1-87 (ud. 15-10-86), Sez. 6 sent. 11446 del 17-11-94 (ud. 10-5-94), Sez. 6 sent. 547 del 19-1-98 (ud. 7-11-97.

BIBLIOGRAFIA

-Antolisei, Manuale di diritto penale (parte speciale), 1999, giuffrè

-Fiandaca-Musco, Diritto Penale parte speciale, 2001, Zanichelli

-Mantovani, Diritto Penale, 2001, Cedam

-GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 2005

-Marini, Truffa, in Dig.Pen., vol. XIV, 1999, Utet, 353 ssgg.

Sommario:

1. Il casus decisum di Cassazione n. 30150/200;

2. Si esclude il concorso formale di reati;

3. La posizione della giurisprudenza;

4. Truffa e millantato credito: un caso di specialità in concreto;

5. Conclusione.

1. Il casus decisum di Cassazione n. 30150/2006

L’autista giudiziario in servizio presso un Tribunale che si fa consegnare una somma di danaro da un detenuto, al fine di “comprare” un provvedimento di scarcerazione, millantando credito presso un magistrato dello stesso Tribunale in procinto di adottare un provvedimento di sospensione dell’esecuzione delle pena detentiva in corso nei confronti dello stesso detenuto (c.d. “compratore di fumo”), risponde soltanto del reato di millantato credito, ex art. 346, comma 2, c.p., e non anche del reato di truffa, atteso che tra le due fattispecie di reato non vi può essere concorso formale; in tal caso, infatti, non può trovare applicazione anche la norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in quello di millantato credito, sul rilievo che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 346, comma 2, c.p.

2. Si esclude il concorso formale di reati

Nel millantato credito sono impliciti gli artifizi e raggiri, con il corollario logico che non vi può essere concorso formale di reati tra truffa e millantato credito. Questa è, in sintesi, la soluzione cui è giunta Cassazione n. 30150/2006.

Ancora oggi dibattuta in dottrina e in giurisprudenza la questione circa la possibilità o meno che i due reati di truffa (aggravata) [[1]] e millantato credito possano concorrere.

Mentre ciò è pacifico riguardo la fattispecie contenuta nel primo comma dell’art. 346 c.p. [[2]], relativa al fatto di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale riceve denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale; non altrettanto può dirsi con riferimento all’ipotesi di cui al secondo comma, che è quella contestata nel caso in esame.

Nel 2° comma del 346 il soggetto attivo non si propone attraverso un’attività di intermediazione, come nella ipotesi base dell’art. 346 c.p., ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario pubblico; a ciò consegue che se realizza concretamente l’attività di corruzione concorre del delitto di cui all’art. 318-319 c.p., mentre se, ingannando il "compratore di fumo", si appropria della retribuzione risponderà del reato di cui al capoverso dell’art. 346 c.p.

Cassazione n. 30150/2006 afferma che “ciò che differenzia le due ipotesi di millantato credito è l’elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell’art. 346 c.p., un elemento che richiama il mendacio e l’inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa causa addotta dall’agente per indurre con l’inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile”.

Inoltre si evidenzia come la condotta dell’agente ex 346 comma 2 sia tutta protesa al conseguimento di un profitto patrimoniale attraverso l’induzione in errore del ed. compratore di fumo, e che il bene oggetto della tutela penale, sia anche quello patrimoniale.

La conclusione cui giunge Cassazione n. 30150/2006 è un giudizio di non punibilità dell’imputato in ragione dell’accusa di truffa, da “ritenersi assorbito in quello di millantato credito, dal momento che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 346 comma 2 c.p”.

3. La posizione della giurisprudenza

Tesi del concorso formale

Un orientamento, prevalente in giurisprudenza, ritiene che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché tutelano interessi distinti e perché diverso è il mezzo utilizzato per la loro commissione, dal momento che nel delitto di millantato credito la condotta consiste in un raggiro del tutto particolare consistente nelle vanterie esplicite o implicite di ingerenze o pressioni sulla attività pubblica (Sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 15118, Santangelo, RV 224844; Sez. VI, 24 novembre 1998, n. 13657, Battaglia; Sez. VI, 7 novembre 1997, n. 547, Virzi).

In particolare, in una fattispecie simile a quella in esame, relativa alla condotta di chi si fa dare una somma di denaro dal partecipante ad un esame con il pretesto di consegnarla al funzionario esaminatore la Cassazione Sez. VI con la sentenza n. 547 del 19 gennaio 1998 (ud. 7-11-97) aveva stabilito che ”il reato di millantato credito si differenzia da quello di truffa non solo per il carattere preminente dell’offesa dell’interesse all’integrità dell’affidamento e del prestigio che deve fruire la pubblica amministrazione in ogni settore della sua attività, (al quale viene arrecato nocumento dalla prospettazione di potervi interferire comprando il favore dei soggetti preposti ai suoi uffici), ma perché la condotta posta in essere non consiste in artifici o raggiri, ma nella vanteria di potersi ingerire nell’attività pubblica al fine di inquinarne il regolare svolgimento, mediante il mercimonio dell’esercizio dei suoi poteri”

In passato con la risalente Sez. VI sentenza n. 3905 del 24 aprile 1985 (ud. 31-1-85) si era appurato che “il delitto di truffa e quello di millantato credito differenziano tra loro sia per il diverso oggetto giuridico sia per la diversità del soggetto passivo, sia per l’elemento materiale giacché per il millantato credito è richiesto l’uso di una vanteria e non occorre l’effettivo conseguimento di un ingiusto profitto, che è necessario, invece, con l’uso di artifici e raggiri, per la consumazione della truffa”. (Fattispecie in tema di richiesta di denaro per preteso esonero dal servizio militare).

E ancora con Sez. Vi sent. 470 del 19 gennaio 1987 (ud. 15-10-86) si è sottolineato che “i delitti di truffa e millantato credito si distinguono per la diversità dell’oggetto della tutela penale, che è il patrimonio, nella truffa, e il prestigio della pubblica amministrazione, nel delitto di cui all’art. 346 cod. pen. Pertanto le due violazioni, anche se unite in unica azione, producono due distinti eventi criminosi, con conseguente concorso formale di reati”.

Tesi del concorso apparente di norme

Già con la sentenza della Sez. IV n. 5789 del 19 giugno 1986 (ud. 21 ottobre 1985) la Cassazione stabilì che ”i delitti di truffa e millantato credito possono concorrere anche se la violazione di tali ipotesi criminose sia commessa con un’unica azione, purché sussistano gli estremi per la loro configurabilità”.

Più di recente si è affermato che “il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma primo, c.p., si concreta nella vanteria, non corrispondente alla realtà, nei confronti del terzo, di accesso privilegiato presso un pubblico ufficiale, con la quale il millantatore induce in errore il terzo, con danno di quest’ultimo e proprio ingiusto profitto. Ne consegue che il reato di truffa non può concorrere con il reato di millantato credito, ma resta assorbito da quest’ultimo, allorché la vanteria presa in considerazione per esso sia identica a quella ritenuta integrante gli artifici e raggiri del primo”. — Sez. 6 sent. 20105 del 7 maggio 2001 (ud. 4 maggio 2001).

4. Truffa e millantato credito: un caso di specialità in concreto

Il rapporto che si verifica tra i due reati di truffa e millantato credito è stato definito, in dottrina, come ipotesi classica di specialità in concreto.

A differenza della specialità in astratto ex art. 15 cp [[3]], che consiste nel rapporto di genere a specie in astratto tra due fattispecie, la specialità in concreto non è classificabile a priori ed in via astratta, bensì solo in concreto tra due fattispecie che in astratto appaiono eterogenee.

In tale ipotesi, esclusa pertanto l’operatività del criterio ex art. 15 cp, si è optato per i criteri di valore dell’assorbimento e della consunzione.

Il principio dell’assorbimento è tradizionalmente distinto in due ipotesi: espresso, tramite le cd clausole di riserva, e tacito, ovvero evincibile dall’interprete sulla base del ne bis in idem sostanziale: in riferimento a gradi crescenti di offesa del medesimo bene giuridico, si applica la norma che contiene il grado di offesa maggiore.

Con il criterio della consunzione, anch’esso espressione del principio del ne bis in idem sostanziale, si applica soltanto la norma consumante ossia quella che per la realizzazione del reato contiene un’altra fattispecie incriminatrice.

Per entrambi i criteri sarà da applicare, in concreto, la fattispecie punita più gravemente.

Sul punto si è verificata una scissione tra i cd monisti, ovvero coloro che ritengono di risolvere il conflitto tra norme solo attraverso il criterio di specialità, ed i cd pluralisti, ovvero coloro che ritengono applicabili anche criteri di valore.

È fondamentale per la nostra analisi la decisione della Cassazione Su 41164/05, che anche se concernente il rapporto tra i reati di ricettazione (art. 648 [[4]]) e il reato di immissione in commercio di prodotti ex art. 171-ter legge Diritto d’autore (L. 633/1941) [[5]], ha statuito:

a) i criteri dell’assorbimento e della consunzione non hanno rilievo normativo ex art. 15;

b) attraverso i criteri dell’assorbimento e della consunzione si viola il principio di legalità e tassatività, poiché il referente del giudizio non è normativo ma una valutazione intuitiva del giudicante.

La decisione delle Su 41164/05 ha pertanto stabilito che i conflitti fra norme sono risolvibili solo attraverso criteri normativi ossia l’art. 15 per le ipotesi di specialità (in astratto e bilaterale), ed il principio dell’assorbimento ove richiamato dalle clausole di riserva.

Da quanto detto emerge che la Cassazione non considera la tesi della specialità in concreto; pertanto il rapporto che essa sottende non è qualificabile come conflitto fra norme, bensì come concorso formale di reati.

5. Conclusione

Utilizzando l’insegnamento delle Su 41164/05 proviamo a verificare il rapporto tra la truffa ed il millantato credito.

Per verificare se c’è interferenza fra le due norma incriminatrici dobbiamo rifarci all’art. 15 Cp, ossia le due norme devono disciplinare la stessa materia.

Tra le varie tesi che hanno cercato di dare una definizione della stessa materia ex art. 15 cp, ne prenderemo in esame due:

a) stesso bene giuridico: tesi prevalente in giurisprudenza i cui elementi di analisi sono l’identità del bene giuridico protetto e le modalità di offesa del bene giuridico;

b) rapporto strutturale tra le norma: si verifica se tra le stesse ci sia un rapporto di genere a specie: la norma speciale deve contenere tutti gli elementi del fatto tipico della norma generale con l’aggiunta di un quid pluris (SPECIALITÀ PER AGGIUNTA) o con la specificazione di un elemento tipico già previsto nella norma generale (SPECIALITÀ PER SPECIFICAZIONE).

Orbene analizzando il bene giuridico delle due norme incriminatrici risulta arduo comprendere il parere di Cassazione n. 30150/2006 quando afferma che “il bene oggetto della tutela penale, almeno nell’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 346 c.p., sia anche quello patrimoniale”.

In realtà così ragionando qualsiasi fattispecie in cui ci sia una disposizione patrimoniale avrà come bene giuridico tutelato anche il patrimonio, allargando sempre più la classificazione dei reati plurioffensivi.

Mentre la truffa è reato posto a tutela del patrimonio, il millantato credito tutela l’onore e il prestigio, nonché il buon andamento e l’imparzialità della PA.

Sul punto la giurisprudenza è unanime affermando che “i delitti di truffa e di millantato credito si differenziano per la diversità dell’oggetto della tutela penale, che nella truffa è il patrimonio e nel millantato credito è il prestigio della pubblica amministrazione” [[6]]

Infatti solo allargando il bene giuridico protetto dal millantato credito al patrimonio la corte ha potuto utilizzare il criterio dell’assorbimento.

Raffrontando la condotta incriminata la truffa richiede uno stretto legame tra gli artifici e raggiri, l’induzione in errore e la disposizione patrimoniale del privato. Sul punto Cassazione n. 30150/2006 ritiene che l’elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell’art. 346 c.p., richiama il mendacio e l’inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa causa addotta dall’agente per indurre con l’inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile.

Tale interpretazione estensiva dell’elemento del "pretesto" ex comma 2 dell’art. 346 c.p., se può costituire elemento di interferenza tra le due norme incriminatrici, non è, a parere di chi scrive di tale portata da assorbire la truffa nel millantato credito, mancando nell’art. 346 sia l’induzione in errore, sia la tutela del patrimonio, bene giuridico protetto solo dalla truffa.

Alla luce della decisione delle Su 41164/05 il rapporto tra truffa e millantato credito dovrebbe indicarsi come concorso formale di reati.

Una soluzione diversa, basata sul principio di assorbimento, potrà aversi solo de iure condendo (si veda il progetto di riforma del codice penale) con l’introduzione di una norma nella parte generale del codice in cui si disciplini il principio del ne bis in idem sostanziale.



[1] L’art. 640 cp così recita: Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, e’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro.

La pena e’ della reclusione da uno a cinque anni e della multa da lire seicentomila a tre milioni:

1) se il fatto e’ commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare;

2) se il fatto e’ commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità.

Il delitto e’ punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante

L’art. 640 bis cp così recita : La pena e’ della reclusione da uno a sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.

[2] L’art. 346 cp così recita: Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, e’ punito con la reclusione da un anno a cinque anni e con la multa da trecentonove euro a duemilasessantacinque euro.

La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da cinquecentosedici euro a tremilanovantotto euro, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.

[3] L’art. 15 cp così recita: Quando piu’ leggi penali o piu’ disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.

[4] L’art. 648 cp così recita: Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sè o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da 516 euro a 10.329 euro .

La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a 516 euro, se il fatto è di particolare tenuità.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando [ 648-bis] l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità] riferita a tale delitto

[5] L’art. 171-ter Legge Diritto d’autore (L. 633/1941) così recita:

1. È punito, se il fatto è commesso per uso non personale, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinque a trenta milioni di lire chiunque a fini di lucro:

a) abusivamente duplica, riproduce, trasmette o diffonde in pubblico con qualsiasi procedimento, in tutto o in parte, un’opera dell’ingegno destinata al circuito televisivo, cinematografico, della vendita o del noleggio, dischi, nastri o supporti analoghi ovvero ogni altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere musicali, cinematografiche o audiovisive assimilate o sequenze di immagini in movimento;

b) abusivamente riproduce, trasmette o diffonde in pubblico, con qualsiasi procedimento, opere o parti di opere letterarie, drammatiche, scientifiche o didattiche, musicali o drammatico-musicali, ovvero multimediali, anche se inserite in opere collettive o composite o banche dati;

c) pur non avendo concorso alla duplicazione o riproduzione, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita o la distribuzione, o distribuisce, pone in commercio, concede in noleggio o comunque cede a qualsiasi titolo, proietta in pubblico, trasmette a mezzo della televisione con qualsiasi procedimento, trasmette a mezzo della radio, fa ascoltare in pubblico le duplicazioni o riproduzioni abusive di cui alle lettere a) e b);

d) detiene per la vendita o la distribuzione, pone in commercio, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, proietta in pubblico, trasmette a mezzo della radio o della televisione con qualsiasi procedimento, videocassette, musicassette, qualsiasi supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere musicali, cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, od altro supporto per il quale è prescritta, ai sensi della presente legge, l’apposizione di contrassegno da parte della Società italiana degli autori ed editori (SIAE), privi del contrassegno medesimo o dotati di contrassegno contraffatto o alterato ovvero produce, utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in commercio, vende, noleggia o cede a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, a decodificare o a rimuovere le misure di protezione del diritto d’autore o dei diritti connessi;

e) in assenza di accordo con il legittimo distributore, ritrasmette o diffonde con qualsiasi mezzo un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato;

f) introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita o la distribuzione, distribuisce, vende, concede in noleggio, cede a qualsiasi titolo, promuove commercialmente, installa dispositivi o elementi di decodificazione speciale che consentono l’accesso ad un servizio criptato senza il pagamento del canone dovuto.

2. È punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da cinque a trenta milioni di lire chiunque:

a) riproduce, duplica, trasmette o diffonde abusivamente, vende o pone altrimenti in commercio, cede a qualsiasi titolo o importa abusivamente oltre cinquanta copie o esemplari di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi;

a-bis) in violazione dell’articolo 16, a fini di lucro, comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa;

b) esercitando in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi, si rende colpevole dei fatti previsti dal comma 1;

c) promuove o organizza le attività illecite di cui al comma 1.

3. La pena è diminuita se il fatto è di particolare tenuità.

4. La condanna per uno dei reati previsti nel comma 1 comporta:

a) l’applicazione delle pene accessorie di cui agli articoli 30 e 32-bis del codice penale;

b) la pubblicazione della sentenza in uno o più quotidiani, di cui almeno uno a diffusione nazionale, e in uno o più periodici specializzati;

c) la sospensione per un periodo di un anno della concessione o autorizzazione di diffusione radiotelevisiva per l’esercizio dell’attività produttiva o commerciale.

5. Gli importi derivanti dall’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dai precedenti commi sono versati all’Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i pittori e scultori, musicisti, scrittori ed autori drammatici.

[6] Cass. Sez. 6 sent. 3905 del 24-4-85 (ud. 31-1-85), Sez. 6 sent. 470 del 19-1-87 (ud. 15-10-86), Sez. 6 sent. 11446 del 17-11-94 (ud. 10-5-94), Sez. 6 sent. 547 del 19-1-98 (ud. 7-11-97.

BIBLIOGRAFIA

-Antolisei, Manuale di diritto penale (parte speciale), 1999, giuffrè

-Fiandaca-Musco, Diritto Penale parte speciale, 2001, Zanichelli

-Mantovani, Diritto Penale, 2001, Cedam

-GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 2005

-Marini, Truffa, in Dig.Pen., vol. XIV, 1999, Utet, 353 ssgg.