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Cultura della legalità e mediazione penale. Il protagonismo del Giudice di pace

Comunicazione al Convegno
Indiscusso ed irrinunciabile si manifesta il ruolo della società nel ripristino di una cultura della legalità ormai tristemente recondita nella coscienza sociale, così come risulta altrettanto illusorio e fallace pretendere che a farsi carico della spinosa questione debba provvedere soltanto la macchina giudiziaria, strangolata com’è da vuoti d’organico e da croniche carenze di mezzi [1].

Rebus sic stantibus, gli operatori giudiziari e gli organismi di governo hanno giocoforza appuntato negli ultimi anni la loro attenzione su profili alternativi e complementari rispetto al reperimento (allo stato impossibile) delle risorse economiche, onde tamponare la quotidiana emergenza mediante il ricorso ad interventi a costo zero, fra i quali spicca su tutti lo strumento della novellazione legislativa, economico ma pericoloso, soprattutto quando essa è eccessivamente “chirurgica” e non ad ampio respiro [2].

Analoghi problemi suscita poi il ricorso alla depenalizzazione [3] che, da pratica spesso adottata nel corso degli ultimi anni, pare di recente dover cedere il passo ad altri metodi d’intervento i quali, seppure a particolari condizioni, non rinunciano al monopolio statale in tema d’inflizione del trattamento sanzionatorio.

Muovendosi sul medesimo versante, ma con strumenti e finalità in parte difformi, anche la dottrina recente ha riscoperto e valorizzato numerosi istituti di diritto sostanziale e processuale [4], nell’amara constatazione che i principi costituzionali di un processo giusto e dalla durata ragionevole, oltre che di una pena davvero rieducativa sono ancora stancamente collocati nell’empireo delle aspirazioni [5], almeno sino a quando il processo penale non sarà divenuto uno strumento efficace e celere di accertamento della verità [6].

Non da ultimo, gli studiosi hanno manifestato un crescente interesse verso la ricetta della mediazione [7], da applicare nel processo penale quale strumento per dirimere i conflitti sociali e ripristinare la cultura della legalità anche con l’abbattimento della microconflittualità individuale. Il rispetto delle regole del diritto e della convivenza civile si costruisce infatti giorno per giorno, anche e soprattutto nei rapporti della vita quotidiana che l’uomo comune stringe con i consociati: in siffatto quadro, l’attribuzione di competenze penali al giudice di pace operata dal d. lgs. n. 274/2000 risulta quanto mai opportuna e significativa [8], essendo diretta ad un soggetto che professionalmente esercita da tempo la sua funzione di mediatore del conflitto fra i privati nel ramo civile [9], e mirando a porre un argine al dilagante fenomeno di crisi della funzione retributiva della pena che è sotto gli occhi di tutti [10].



Il presente contributo è pubblicato in versione integrale nel volume Criminalità, economia e cultura della legalità - Atti dei Convegni «Criminalità organizzata e sviluppo economico» e «Legalità, giustizia e sviluppo economico» (a cura di P. TANDA), Jovene, Napoli, 2007, ISBN 88-243-1686-7, 183ss.

[1] Vedasi, fra i tanti: PEZZELLA, Le spese della giustizia: i soldi ci sono ma vengono utilizzati male, in Diritto e Giustizia, n. 17, 2004, 56ss.

[2] Vanno quindi salutati con favore e seguiti con interesse, purché riescano a tradursi in tempi celeri in nuovi articolati legislativi, i lavori delle neoistituite Commissioni di Riforma del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale, presiedute rispettivamente dall’Avv. Pisapia e dal Prof. Riccio, chiamate a riuscire laddove gli altri studiosi di nomina ministeriale hanno fallito nelle scorse legislature.

[3] La bibliografia in tema è oltremodo vasta. Per tutti, cfr.: LATTANZI – LUPO, Depenalizzazione e nuova disciplina dell’illecito amministrativo, Milano, 2001; ORICCHIO, Diritto penale minimo e depenalizzazione fra buone intenzioni e principi di concretezza, in Giur. di Merito, 1994, 1027; PALIERO, Depenalizzazione, in Digesto pen., vol. III, Torino, 1989, 425.

[4] Si pensi, ad esempio, al nuovo ruolo assunto dal principio di offensività, come vivificato dalla dottrina e costantemente auspicato dalle numerose Commissioni di riforma del Codice Penale avvicendatesi nell’ultimo decennio: cfr. MONGILLO, Prospettive normative del principio di offensività, in Giust. Pen., 2003, 3, 2, 130ss.; FIANDACA, L’offensività è un principio codificabile?, in Foro It., 2001, V, 1. In giurisprudenza, cfr. Corte Costituzionale, 21/11/2000, n. 519, in Cassazione Penale, 2001, 819, 2015, con nota di BENIGNI; Cassazione penale, Sez. III, 23/11/2004, n. 48532, in CED Cassazione, 2004; Cassazione penale, Sez. IV, 22/01/2004, n. 16894, in Rivista Penale, 2004, 1104. Paradigmatiche le affermazioni di Corte Costituzionale, 24/07/1995, n. 360, in Cassazione Penale, 1995, 2820, con nota di AMATO: “La verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. […] Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato […], viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991)”.

[5] Cfr. GREVI, Il principio della “ragionevole durata” come garanzia oggettiva del “giusto processo” penale, in Cassazione Penale, 2003, 942.

[6] Per ulteriori considerazioni, si rimanda a: MANNOZZI, La giustizia senza spada, Milano, 2003.

[7] Cfr. per un disamina dei recenti orientamenti: BOLOGNA, Riflessioni aperte su un istituto in cerca di identità: la mediazione penale, in Diritto Penale e Processo, n. 6, 2006, 749ss.; CHINNICI, Il giudice di pace: profili peculiari della fase del giudizio e riflessioni in margine alla “scommessa” sulla mediazione, in Cassazione Penale, 2002, 876; DI CHIARA, Scenari processuali per l’intervento di mediazione: una panoramica sulle fonti, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 500ss.

[8] In argomento: BOUCHARD, La mediazione dei conflitti penalmente rilevanti, in Diritto Penale e Processo, 1998, 1571.

[9] In tema: DE INNOCENTIIS, Il Giudice di Pace: un nuovo magistrato per una giustizia più vicina al cittadino, in Amministrazione italiana, 1992, 1202ss.

[10] Sul punto, anche e soprattutto con riferimento al nuovo armamentario sanzionatorio edificato dal legislatore del 2000, cfr. FORLENZA, Sanzioni: il rischio dell’effettività della pena, in Guida al Diritto, n. 38, 2000, 141ss.

Indiscusso ed irrinunciabile si manifesta il ruolo della società nel ripristino di una cultura della legalità ormai tristemente recondita nella coscienza sociale, così come risulta altrettanto illusorio e fallace pretendere che a farsi carico della spinosa questione debba provvedere soltanto la macchina giudiziaria, strangolata com’è da vuoti d’organico e da croniche carenze di mezzi [1].

Rebus sic stantibus, gli operatori giudiziari e gli organismi di governo hanno giocoforza appuntato negli ultimi anni la loro attenzione su profili alternativi e complementari rispetto al reperimento (allo stato impossibile) delle risorse economiche, onde tamponare la quotidiana emergenza mediante il ricorso ad interventi a costo zero, fra i quali spicca su tutti lo strumento della novellazione legislativa, economico ma pericoloso, soprattutto quando essa è eccessivamente “chirurgica” e non ad ampio respiro [2].

Analoghi problemi suscita poi il ricorso alla depenalizzazione [3] che, da pratica spesso adottata nel corso degli ultimi anni, pare di recente dover cedere il passo ad altri metodi d’intervento i quali, seppure a particolari condizioni, non rinunciano al monopolio statale in tema d’inflizione del trattamento sanzionatorio.

Muovendosi sul medesimo versante, ma con strumenti e finalità in parte difformi, anche la dottrina recente ha riscoperto e valorizzato numerosi istituti di diritto sostanziale e processuale [4], nell’amara constatazione che i principi costituzionali di un processo giusto e dalla durata ragionevole, oltre che di una pena davvero rieducativa sono ancora stancamente collocati nell’empireo delle aspirazioni [5], almeno sino a quando il processo penale non sarà divenuto uno strumento efficace e celere di accertamento della verità [6].

Non da ultimo, gli studiosi hanno manifestato un crescente interesse verso la ricetta della mediazione [7], da applicare nel processo penale quale strumento per dirimere i conflitti sociali e ripristinare la cultura della legalità anche con l’abbattimento della microconflittualità individuale. Il rispetto delle regole del diritto e della convivenza civile si costruisce infatti giorno per giorno, anche e soprattutto nei rapporti della vita quotidiana che l’uomo comune stringe con i consociati: in siffatto quadro, l’attribuzione di competenze penali al giudice di pace operata dal d. lgs. n. 274/2000 risulta quanto mai opportuna e significativa [8], essendo diretta ad un soggetto che professionalmente esercita da tempo la sua funzione di mediatore del conflitto fra i privati nel ramo civile [9], e mirando a porre un argine al dilagante fenomeno di crisi della funzione retributiva della pena che è sotto gli occhi di tutti [10].



Il presente contributo è pubblicato in versione integrale nel volume Criminalità, economia e cultura della legalità - Atti dei Convegni «Criminalità organizzata e sviluppo economico» e «Legalità, giustizia e sviluppo economico» (a cura di P. TANDA), Jovene, Napoli, 2007, ISBN 88-243-1686-7, 183ss.

[1] Vedasi, fra i tanti: PEZZELLA, Le spese della giustizia: i soldi ci sono ma vengono utilizzati male, in Diritto e Giustizia, n. 17, 2004, 56ss.

[2] Vanno quindi salutati con favore e seguiti con interesse, purché riescano a tradursi in tempi celeri in nuovi articolati legislativi, i lavori delle neoistituite Commissioni di Riforma del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale, presiedute rispettivamente dall’Avv. Pisapia e dal Prof. Riccio, chiamate a riuscire laddove gli altri studiosi di nomina ministeriale hanno fallito nelle scorse legislature. >Indiscusso ed irrinunciabile si manifesta il ruolo della società nel ripristino di una cultura della legalità ormai tristemente recondita nella coscienza sociale, così come risulta altrettanto illusorio e fallace pretendere che a farsi carico della spinosa questione debba provvedere soltanto la macchina giudiziaria, strangolata com’è da vuoti d’organico e da croniche carenze di mezzi [1].

Rebus sic stantibus, gli operatori giudiziari e gli organismi di governo hanno giocoforza appuntato negli ultimi anni la loro attenzione su profili alternativi e complementari rispetto al reperimento (allo stato impossibile) delle risorse economiche, onde tamponare la quotidiana emergenza mediante il ricorso ad interventi a costo zero, fra i quali spicca su tutti lo strumento della novellazione legislativa, economico ma pericoloso, soprattutto quando essa è eccessivamente “chirurgica” e non ad ampio respiro [2].

Analoghi problemi suscita poi il ricorso alla depenalizzazione [3] che, da pratica spesso adottata nel corso degli ultimi anni, pare di recente dover cedere il passo ad altri metodi d’intervento i quali, seppure a particolari condizioni, non rinunciano al monopolio statale in tema d’inflizione del trattamento sanzionatorio.

Muovendosi sul medesimo versante, ma con strumenti e finalità in parte difformi, anche la dottrina recente ha riscoperto e valorizzato numerosi istituti di diritto sostanziale e processuale [4], nell’amara constatazione che i principi costituzionali di un processo giusto e dalla durata ragionevole, oltre che di una pena davvero rieducativa sono ancora stancamente collocati nell’empireo delle aspirazioni [5], almeno sino a quando il processo penale non sarà divenuto uno strumento efficace e celere di accertamento della verità [6].

Non da ultimo, gli studiosi hanno manifestato un crescente interesse verso la ricetta della mediazione [7], da applicare nel processo penale quale strumento per dirimere i conflitti sociali e ripristinare la cultura della legalità anche con l’abbattimento della microconflittualità individuale. Il rispetto delle regole del diritto e della convivenza civile si costruisce infatti giorno per giorno, anche e soprattutto nei rapporti della vita quotidiana che l’uomo comune stringe con i consociati: in siffatto quadro, l’attribuzione di competenze penali al giudice di pace operata dal d. lgs. n. 274/2000 risulta quanto mai opportuna e significativa [8], essendo diretta ad un soggetto che professionalmente esercita da tempo la sua funzione di mediatore del conflitto fra i privati nel ramo civile [9], e mirando a porre un argine al dilagante fenomeno di crisi della funzione retributiva della pena che è sotto gli occhi di tutti [10].



Il presente contributo è pubblicato in versione integrale nel volume Criminalità, economia e cultura della legalità - Atti dei Convegni «Criminalità organizzata e sviluppo economico» e «Legalità, giustizia e sviluppo economico» (a cura di P. TANDA), Jovene, Napoli, 2007, ISBN 88-243-1686-7, 183ss.

[1] Vedasi, fra i tanti: PEZZELLA, Le spese della giustizia: i soldi ci sono ma vengono utilizzati male, in Diritto e Giustizia, n. 17, 2004, 56ss.

[2] Vanno quindi salutati con favore e seguiti con interesse, purché riescano a tradursi in tempi celeri in nuovi articolati legislativi, i lavori delle neoistituite Commissioni di Riforma del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale, presiedute rispettivamente dall’Avv. Pisapia e dal Prof. Riccio, chiamate a riuscire laddove gli altri studiosi di nomina ministeriale hanno fallito nelle scorse legislature.

[3] La bibliografia in tema è oltremodo vasta. Per tutti, cfr.: LATTANZI – LUPO, Depenalizzazione e nuova disciplina dell’illecito amministrativo, Milano, 2001; ORICCHIO, Diritto penale minimo e depenalizzazione fra buone intenzioni e principi di concretezza, in Giur. di Merito, 1994, 1027; PALIERO, Depenalizzazione, in Digesto pen., vol. III, Torino, 1989, 425.

[4] Si pensi, ad esempio, al nuovo ruolo assunto dal principio di offensività, come vivificato dalla dottrina e costantemente auspicato dalle numerose Commissioni di riforma del Codice Penale avvicendatesi nell’ultimo decennio: cfr. MONGILLO, Prospettive normative del principio di offensività, in Giust. Pen., 2003, 3, 2, 130ss.; FIANDACA, L’offensività è un principio codificabile?, in Foro It., 2001, V, 1. In giurisprudenza, cfr. Corte Costituzionale, 21/11/2000, n. 519, in Cassazione Penale, 2001, 819, 2015, con nota di BENIGNI; Cassazione penale, Sez. III, 23/11/2004, n. 48532, in CED Cassazione, 2004; Cassazione penale, Sez. IV, 22/01/2004, n. 16894, in Rivista Penale, 2004, 1104. Paradigmatiche le affermazioni di Corte Costituzionale, 24/07/1995, n. 360, in Cassazione Penale, 1995, 2820, con nota di AMATO: “La verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. […] Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato […], viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991)”.

[5] Cfr. GREVI, Il principio della “ragionevole durata” come garanzia oggettiva del “giusto processo” penale, in Cassazione Penale, 2003, 942.

[6] Per ulteriori considerazioni, si rimanda a: MANNOZZI, La giustizia senza spada, Milano, 2003.

[7] Cfr. per un disamina dei recenti orientamenti: BOLOGNA, Riflessioni aperte su un istituto in cerca di identità: la mediazione penale, in Diritto Penale e Processo, n. 6, 2006, 749ss.; CHINNICI, Il giudice di pace: profili peculiari della fase del giudizio e riflessioni in margine alla “scommessa” sulla mediazione, in Cassazione Penale, 2002, 876; DI CHIARA, Scenari processuali per l’intervento di mediazione: una panoramica sulle fonti, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 500ss.

[8] In argomento: BOUCHARD, La mediazione dei conflitti penalmente rilevanti, in Diritto Penale e Processo, 1998, 1571.

[9] In tema: DE INNOCENTIIS, Il Giudice di Pace: un nuovo magistrato per una giustizia più vicina al cittadino, in Amministrazione italiana, 1992, 1202ss.

[10] Sul punto, anche e soprattutto con riferimento al nuovo armamentario sanzionatorio edificato dal legislatore del 2000, cfr. FORLENZA, Sanzioni: il rischio dell’effettività della pena, in Guida al Diritto, n. 38, 2000, 141ss.