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Resistenza a pubblico ufficiale e scriminanti

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 19 gennaio 2006, n. 2263
Il casus decisus concerne una sospettata violazione, da parte dell’imputato, della normativa sulla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, sospetto rivelatosi successivamente del tutto infondato.

L.C., fermato dai Carabinieri e condotto in caserma per i relativi accertamenti, era stato sostanzialmente arrestato dovendo i militari fare fronte al altre asserite esigenze di servizio. Infatti i Carabinieri, non potendo accertare nell’immediato la posizione dell’imputato, ponendogli le manette ai polsi, lo trattenevano - in tale stato - nell’atrio della caserma; l’imputato, però, dopo avere apparentemente tollerato per un po’ tale situazione, era riuscito, col pretesto di doversi recare in bagno, a farsi togliere le manette e, quindi, spintonando i due Carabinieri che lo sorvegliavano, a fuggire attraverso una finestra. Il Tribunale di Foggia ha condannato l’imputato ad otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale. Reato confermato anche in secondo grado, dove però la pena viene ridotta a quattro mesi per la concessione delle attenuanti generiche.

La difesa del ricorrente sostiene la non punibilità della condotta dell’imputato, in quanto scriminata ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 secondo cui “non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”. Secondo i giudici della VI sezione penale il ricorso è fondato.

Con una sentenza equilibrata e ispirata al rispetto dei canoni costituzionali si ripercorrono i tratti caratterizzanti della scriminante speciale della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.

In primis la Corte riconosce che la condotta del ricorrente integra “la materialità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale”, in quanto rappresentò un ostacolo all’attività d’ufficio in atto dei due militari addetti al controllo; tuttavia bisogna analizzare il contesto in cui maturò il comportamento dell’imputato, e verificare se l’iniziativa arbitraria dei pubblici ufficiali fosse legittima o arbitraria, e in tale ultima ipotesi vagliare la possibilità operativa della scriminante ex D.Lgs. n. 288/44.

 Tale causa di non punibilità presuppone, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non soltanto l’illegittimità dell’atto (viziato da incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma un quid pluris, identificabile nell’atteggiamento del pubblico ufficiale che compie l’atto, caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione, prepotenza.

Questa ricostruzione, condivisa dai giudici di prime cure, pone in risalto l’aspetto soggettivo del p.u. e non prende affatto in considerazione la posizione del soggetto privato.

Il collegio ritiene necessario, invece, seguire un diverso percorso ermeneutico “più equilibrato e più aderente ai valori di uno Stato democratico e ai principi di reciproco rispetto tra gli organi di questo e i cittadini”; si afferma così che “l’eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell’atteggiamento psicologico del p.u.”, peraltro difficile accertamento da parte del soggetto privato. Nucleo centrale della scriminante in parole è, secondo la ricostruzione dei giudici della VI sez., il comportamento del p.u., obiettivamente valutato, in modo da “verificare se lo stesso venga percepito dall’osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo "stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui" ( art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia.”

Nell’argomentare la propria posizione il collegio afferma che proprio “il doppio richiamo, contenuto nel D.Lgs. n. 288, art. 4, all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e all’atto arbitrario del pubblico ufficiale ("...eccedendo con atti arbitrali i limiti delle sue attribuzioni") non impone, come ha rilevato il Giudice delle leggi (C. Cost. sentenza n. 140/1998), "di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all’eccesso delle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l’aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell’illegittimità e dell’arbitrarietà del proprio comportamento”.

Pertanto dall’interpretazione letterale dell’art. 4 cit. la Corte agevolmente dediche che “arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sè considerato...", sino a giungere alla conclusione che anche la mera scorrettezza e la villania delle modalità con cui gli atti del p.u., anche se di per sè conformi a legge, vengono posti in essere si traducono in un eccesso dai limiti delle sue attribuzioni e concretano l’arbitrarietà.” Secondo i giudici tale interpretazione è da preferire perché “in linea con la normativa legislativa che disciplina (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, impianto ispiratore della L. n. 241 del 1990) i comportamenti dei pubblici impiegati e i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, con le ragioni storico-politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre nell’ordinamento penale, sin dal 1944, l’esimente dell’atto arbitrario e con gli interventi della Corte Costituzionale volti a rendere le norme del codice penale sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con l’assetto dei rapporti tra autorità e cittadino propri di un ordinamento democratico”. U

ltimo requisito da accertare è il “rapporto di causalità psichica tra l’eccesso arbitrario del p.u. e la reazione del privato, nel senso che il comportamento di quest’ultimo deve essere determinato dalla condotta oggettivamente non corretta del primo, avvertita come ingiusta e sopraffattrice.”

Il giudizio della Cassazione riprende l’orientamento ormai costante.

Si veda da ultimo Cass. Pen., sez. VI, sent. 6 giugno 2005, n. 20985, in cui si è stabilito che in mancanza dei requisiti che “legittimavano la perquisizione (domiciliare N.d.a.), il ricorrente, nell’abbandonarsi poi alla violenza, reagì ad un atto arbitrario (…) la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato”; inoltre in Cassazione, sez. VI, sent. 21 giugno-27 ottobre 2006, n. 36009, in cui si è statuito che “l’atteggiamento sconveniente e prepotente non può essere consentito al pubblico ufficiale e in esso deve essere individuato il consapevole travalicamento dei limiti e delle modalità entro cui le funzioni pubbliche devono essere esercitate, con l’effetto che la reazione immediata del privato a tale atteggiamento rende inapplicabile la norma incriminatrice di cui all’articolo 337 c.p. e ciò ai sensi dell’articolo 4 del D.Lgs 288/44” (fattispecie in cui il PU aveva afferrato per un braccio il ricorrente e pretendeva di condurlo con la forza presso gli uffici della polizia municipale, per identificarlo compiutamente e contestargli formalmente la violazione al Cod. Strada (divieto di sosta), già accertata in precedenza da altro vigile urbano; l’imputato si sottraeva alla presa, ripartiva con l’auto cagionando lesioni al PU).

Il casus decisus concerne una sospettata violazione, da parte dell’imputato, della normativa sulla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, sospetto rivelatosi successivamente del tutto infondato.

L.C., fermato dai Carabinieri e condotto in caserma per i relativi accertamenti, era stato sostanzialmente arrestato dovendo i militari fare fronte al altre asserite esigenze di servizio. Infatti i Carabinieri, non potendo accertare nell’immediato la posizione dell’imputato, ponendogli le manette ai polsi, lo trattenevano - in tale stato - nell’atrio della caserma; l’imputato, però, dopo avere apparentemente tollerato per un po’ tale situazione, era riuscito, col pretesto di doversi recare in bagno, a farsi togliere le manette e, quindi, spintonando i due Carabinieri che lo sorvegliavano, a fuggire attraverso una finestra. Il Tribunale di Foggia ha condannato l’imputato ad otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale. Reato confermato anche in secondo grado, dove però la pena viene ridotta a quattro mesi per la concessione delle attenuanti generiche.

La difesa del ricorrente sostiene la non punibilità della condotta dell’imputato, in quanto scriminata ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 secondo cui “non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”. Secondo i giudici della VI sezione penale il ricorso è fondato.

Con una sentenza equilibrata e ispirata al rispetto dei canoni costituzionali si ripercorrono i tratti caratterizzanti della scriminante speciale della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.

In primis la Corte riconosce che la condotta del ricorrente integra “la materialità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale”, in quanto rappresentò un ostacolo all’attività d’ufficio in atto dei due militari addetti al controllo; tuttavia bisogna analizzare il contesto in cui maturò il comportamento dell’imputato, e verificare se l’iniziativa arbitraria dei pubblici ufficiali fosse legittima o arbitraria, e in tale ultima ipotesi vagliare la possibilità operativa della scriminante ex D.Lgs. n. 288/44.

 Tale causa di non punibilità presuppone, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non soltanto l’illegittimità dell’atto (viziato da incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma un quid pluris, identificabile nell’atteggiamento del pubblico ufficiale che compie l’atto, caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione, prepotenza.

Questa ricostruzione, condivisa dai giudici di prime cure, pone in risalto l’aspetto soggettivo del p.u. e non prende affatto in considerazione la posizione del soggetto privato.

Il collegio ritiene necessario, invece, seguire un diverso percorso ermeneutico “più equilibrato e più aderente ai valori di uno Stato democratico e ai principi di reciproco rispetto tra gli organi di questo e i cittadini”; si afferma così che “l’eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell’atteggiamento psicologico del p.u.”, peraltro difficile accertamento da parte del soggetto privato. Nucleo centrale della scriminante in parole è, secondo la ricostruzione dei giudici della VI sez., il comportamento del p.u., obiettivamente valutato, in modo da “verificare se lo stesso venga percepito dall’osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo "stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui" ( art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia.” >Il casus decisus concerne una sospettata violazione, da parte dell’imputato, della normativa sulla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, sospetto rivelatosi successivamente del tutto infondato.

L.C., fermato dai Carabinieri e condotto in caserma per i relativi accertamenti, era stato sostanzialmente arrestato dovendo i militari fare fronte al altre asserite esigenze di servizio. Infatti i Carabinieri, non potendo accertare nell’immediato la posizione dell’imputato, ponendogli le manette ai polsi, lo trattenevano - in tale stato - nell’atrio della caserma; l’imputato, però, dopo avere apparentemente tollerato per un po’ tale situazione, era riuscito, col pretesto di doversi recare in bagno, a farsi togliere le manette e, quindi, spintonando i due Carabinieri che lo sorvegliavano, a fuggire attraverso una finestra. Il Tribunale di Foggia ha condannato l’imputato ad otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale. Reato confermato anche in secondo grado, dove però la pena viene ridotta a quattro mesi per la concessione delle attenuanti generiche.

La difesa del ricorrente sostiene la non punibilità della condotta dell’imputato, in quanto scriminata ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 secondo cui “non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”. Secondo i giudici della VI sezione penale il ricorso è fondato.

Con una sentenza equilibrata e ispirata al rispetto dei canoni costituzionali si ripercorrono i tratti caratterizzanti della scriminante speciale della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.

In primis la Corte riconosce che la condotta del ricorrente integra “la materialità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale”, in quanto rappresentò un ostacolo all’attività d’ufficio in atto dei due militari addetti al controllo; tuttavia bisogna analizzare il contesto in cui maturò il comportamento dell’imputato, e verificare se l’iniziativa arbitraria dei pubblici ufficiali fosse legittima o arbitraria, e in tale ultima ipotesi vagliare la possibilità operativa della scriminante ex D.Lgs. n. 288/44.

 Tale causa di non punibilità presuppone, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non soltanto l’illegittimità dell’atto (viziato da incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma un quid pluris, identificabile nell’atteggiamento del pubblico ufficiale che compie l’atto, caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione, prepotenza.

Questa ricostruzione, condivisa dai giudici di prime cure, pone in risalto l’aspetto soggettivo del p.u. e non prende affatto in considerazione la posizione del soggetto privato.

Il collegio ritiene necessario, invece, seguire un diverso percorso ermeneutico “più equilibrato e più aderente ai valori di uno Stato democratico e ai principi di reciproco rispetto tra gli organi di questo e i cittadini”; si afferma così che “l’eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell’atteggiamento psicologico del p.u.”, peraltro difficile accertamento da parte del soggetto privato. Nucleo centrale della scriminante in parole è, secondo la ricostruzione dei giudici della VI sez., il comportamento del p.u., obiettivamente valutato, in modo da “verificare se lo stesso venga percepito dall’osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo "stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui" ( art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia.”

Nell’argomentare la propria posizione il collegio afferma che proprio “il doppio richiamo, contenuto nel D.Lgs. n. 288, art. 4, all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e all’atto arbitrario del pubblico ufficiale ("...eccedendo con atti arbitrali i limiti delle sue attribuzioni") non impone, come ha rilevato il Giudice delle leggi (C. Cost. sentenza n. 140/1998), "di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all’eccesso delle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l’aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell’illegittimità e dell’arbitrarietà del proprio comportamento”.

Pertanto dall’interpretazione letterale dell’art. 4 cit. la Corte agevolmente dediche che “arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sè considerato...", sino a giungere alla conclusione che anche la mera scorrettezza e la villania delle modalità con cui gli atti del p.u., anche se di per sè conformi a legge, vengono posti in essere si traducono in un eccesso dai limiti delle sue attribuzioni e concretano l’arbitrarietà.” Secondo i giudici tale interpretazione è da preferire perché “in linea con la normativa legislativa che disciplina (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, impianto ispiratore della L. n. 241 del 1990) i comportamenti dei pubblici impiegati e i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, con le ragioni storico-politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre nell’ordinamento penale, sin dal 1944, l’esimente dell’atto arbitrario e con gli interventi della Corte Costituzionale volti a rendere le norme del codice penale sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con l’assetto dei rapporti tra autorità e cittadino propri di un ordinamento democratico”. U

ltimo requisito da accertare è il “rapporto di causalità psichica tra l’eccesso arbitrario del p.u. e la reazione del privato, nel senso che il comportamento di quest’ultimo deve essere determinato dalla condotta oggettivamente non corretta del primo, avvertita come ingiusta e sopraffattrice.”

Il giudizio della Cassazione riprende l’orientamento ormai costante.

Si veda da ultimo Cass. Pen., sez. VI, sent. 6 giugno 2005, n. 20985, in cui si è stabilito che in mancanza dei requisiti che “legittimavano la perquisizione (domiciliare N.d.a.), il ricorrente, nell’abbandonarsi poi alla violenza, reagì ad un atto arbitrario (…) la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato”; inoltre in Cassazione, sez. VI, sent. 21 giugno-27 ottobre 2006, n. 36009, in cui si è statuito che “l’atteggiamento sconveniente e prepotente non può essere consentito al pubblico ufficiale e in esso deve essere individuato il consapevole travalicamento dei limiti e delle modalità entro cui le funzioni pubbliche devono essere esercitate, con l’effetto che la reazione immediata del privato a tale atteggiamento rende inapplicabile la norma incriminatrice di cui all’articolo 337 c.p. e ciò ai sensi dell’articolo 4 del D.Lgs 288/44” (fattispecie in cui il PU aveva afferrato per un braccio il ricorrente e pretendeva di condurlo con la forza presso gli uffici della polizia municipale, per identificarlo compiutamente e contestargli formalmente la violazione al Cod. Strada (divieto di sosta), già accertata in precedenza da altro vigile urbano; l’imputato si sottraeva alla presa, ripartiva con l’auto cagionando lesioni al PU).