x

x

Rischio consentito e limiti di liceità all’attività sportiva

L’attività sportiva comporta una carica agonistica a cui è connaturato un contatto fisico che può generare la produzione di illeciti penali (lesioni, ingiurie, minacce, percosse etc.).

L’evoluzione giurisprudenziale ha distinto tra attività sportive in cui l’attività sportiva genera illeciti perché la violenza è in re ipsa (ad esempio il pugilato, lotta libera) e attività sportiva non violenta che, pur nel rispetto delle regole del gioco, può determinare involontariamente illeciti penali.

La giurisprudenza ha coniato il c.d. rischio consentito, cioè il limite entro il quale l’attività sportiva pur determinando illeciti penali, non viola una fattispecie penale incriminatrice perché si tratta di comportamenti connessi ad azioni di gioco che sono considerate normali nello svolgimento dell’azione sportiva. Il superamento di detto limite comporta una responsabilità per dolo o colpa perché esorbita dalla carica agonistica e sfocia nella lesione all’incolumità personale e all’integrità fisica.

Sommario:

1) Ammissibilità delle scriminanti tacite o non codificate nel nostro ordinamento: in particolare l’attività sportiva;

2) L’attività sportiva introduce il limite del c.d. “rischio consentito”;

3) Attività sportiva a violenza necessaria;

4a) Limiti all’attività sportiva: lesioni cagionate nonostante l’osservanze delle regole cautelari;

4b) Lesioni cagionate volontariamente e dirette a ledere;

4c) Lesioni cagionate violando involontariamente le regole del gioco.

1) Ammissibilità delle scriminanti tacite o non codificate nel nostro ordinamento: in particolare l’attività sportiva

Le cause gi giustificazione vengono tipizzate negli articoli dal 50 al 54 del codice penale.

Ci si è chiesti si tratti di un numero chiuso o meno e se possano essere ammesse nel nostro ordinamento le scriminanti tacite o non codificate[1]. Ci si è interrogati sull’ammissibilità di creare ex novo scriminanti non codificate.

In primis si è rievocata la teoria della dottrina tedesca dell’azione socialmente adeguata, secondo la quale una condotta umana, di per sé illecita, può essere esente da responsabilità penale, se viene considerata conforme alle finalità sociali perseguite da una determinata comunità in un certo periodo storico. Si critica questa tesi perché il nostro sistema penale è fondato sul principio di legalità. Secondo tale principio gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, positivi e negativi, devono essere previsti dalla legge[2].

Pertanto la strada per rispondere positivamente a questo interrogativo non può che essere quella dell’interpretazione analogica delle scriminanti codificate. Per giungere a questa conclusione è prodromico affermare che le cause di giustificazione non rientrano tra i casi in cui vige il divieto di analogia in materia penale. Attenta dottrina – infatti - giunge alla soluzione positiva sostenendo che le cause di giustificazione non sono norme penali perché non sono fattispecie incriminatrici e neppure norme eccezionali, quindi non cadono sotto il divieto di analogia previsto all’articolo 14 delle disposizioni d’attuazione.

Nel corso delle attività sportive possono trovare origine diverse attività e comportamenti astrattamente riconducibili a fattispecie penali incriminatrici (lesioni, minacce, percosse, ingiurie etc.)[3].

Vi sono due approcci sistematici alla tematica de qua: quello di ricondurre le scriminanti non codificate nel novero delle cause di giustificazione codificate e quella di coloro che cercano una soluzione nell’ammissibilità di scriminanti non codificate.

La giurisprudenza qualifica l’esercizio dell’attività sportiva quale scriminante non codificata nel senso che soddisfa un interesse generale della collettività[4]. Il consenso dell’atleta non viene considerato come autonoma causa di giustificazione[5].

L’ordinamento giuridico guarda con favore all’attività sportiva ed alle associazioni che la promuovono come completamento della crescita equilibrata e dello sviluppo psico-fisico dell’individuo ai sensi dell’art. 2 della Costituzione. Si tratta di un’attività autorizzata (ne sarebbe la prova la legge istitutiva del CONI[6]) che permette di qualificare l’esercizio dell’attività sportiva come un esercizio di un diritto da parte dell’atleta ex art. 51 c.p.[7]. Vi sono dei requisiti da rispettare per esercitare tale diritto: è necessario il consenso dell’atleta alla partecipazione ed alla competizione sportiva.

Non sono mancate critiche a questa impostazione. Si è evidenziato come l’integrità fisica non rientri nella disponibilità del soggetto (non invocabile in caso di lesioni o in caso di morte dell’atleta perché ciò sarebbe contrario agli artt. 579 c.p. e 5 c.c., che sanciscono l’indisponibilità del diritto alla vita e all’integrità fisica). Ed inoltre il richiamo della scriminante codificata dell’esercizio del diritto appare poco pertinente perché tale ipotesi non è applicabile alle competizioni amatoriali.

2) L’attività sportiva introduce il limite del c.d. “rischio consentito”

Oltre al consenso dell’atleta alla partecipazione della gara è necessario che vengano rispettate le regole del gioco. In giurisprudenza si è a lungo tempo affermato che la condotta dell’atleta potrà considerarsi lecita soltanto quando rispetti in toto le regole specifiche della disciplina praticata. La giurisprudenza, però, ritiene che le regole possano anche essere violate, ma sempre nel rispetto del c.d. rischio consentito. Il rischio consentito si configura come il limite all’attività sportiva lecita. Si tratta di un area di comportamento lecita legata all’esercizio del gioco sportivo che può essere considerato normale nel comportamento agonistico dei giocatori. Il rischio consentito ricomprende e scusa condotte altrimenti penalmente, oltre che civilmente, rilevanti. Il superamento del rischio consentito si verifica quando viene posta a repentaglio l’incolumità fisica dei giocatori e prodotta una lesione alla loro integrità fisica[8] con delle opportune precisazioni.

Entrando nel dettaglio, infatti, la giurisprudenza si è preoccupata di distinguere i vari casi che si possono presentare[9].

Risponde a titolo di colpa l’atleta che – nell’esercizio dell’attività sportiva – cagiona una lesione all’avversario per aver violato le regole del gioco ed aver superato il rischio consentito.

Risponde a titolo di dolo eventuale il giocatore che agisce non con la volontà di ledere l’integrità fisica dell’avversario, ma fermamente convinto della sua abilità sportiva, agisce non prevedendo le lesione, ma accettandone il rischio.

Inoltre si configura una vera e propria fattispecie dolosa quando l’attività agonistica è un mero pretesto della condotta lesiva dell’incolumità fisica dell’avversario.

Quindi la giurisprudenza distingue tra conseguenze lesive frutto di un ardore agonistico che, pur essendo il frutto della violazione delle regole sportive, sono positivamente considerate dall’ordinamento in quanto fisiologicamente connesse alla ansia da risultato; poi vi sono le conseguenze lesive di condotte frutto di involontarie violazioni delle regole del gioco; ed infine le conseguenze lesive di comportamenti volontariamente assunti in spregio delle norme sportive. Ancora, a fronte di lesioni discendenti da coscienti violazioni delle regole de quibus, si pone un discrimen tra l’ipotesi in cui, pur non difettando la volontarietà della inosservanza, lo sportivo miri a raggiungere un risultato connesso alla gara, diverso da quello della intenzionale lesione, e quella in cui la competizione diviene mero pretesto per assumere certi comportamenti dannosi.

Il comportamento tenuto dall’atleta è indubbiamente colposo, per avere egli interpretato l’evento sportivo in corso come una competizione effettiva, quindi animato da un agonismo non conferente alla situazione concreta. Da cui deriva la violazione delle regole del gioco a causa della sproporzione e dell’eccessività dell’intervento a fronte della caratteristiche dell’incontro.

3) Attività sportiva a violenza necessaria

Vi sono tipi di attività (come la box, il karate etc.), in cui l’aggressione dell’avversario sono parte integrante della stessa attività sportiva agonistica. In questo caso la scriminante opera solo ove vengano rispettate le regole del gioco e la competizione avvenga tra atleti della stessa caratura (professionisti o appartenenti alla stessa categoria) senza colpi proibiti. Lo svolgimento di gare tra atleti appartenenti a categorie diverse determina la violazione delle regole cautelari.

Tradizionalmente in dottrina si classificano gli sport in ragione del grado di violenza necessaria a raggiungere la finalità cui la disciplina si prefigge; si parla di attività sportiva non violenta (es. tennis, nuoto) in cui manca qualsiasi contatto fisico tra gli avversari; attività sportiva eventualmente violenta (es. calcio, basket) in cui c’è un contatto fisico tra gli atleti che può causare danni, lesioni o traumi agli stessi;

attività sportiva necessariamente violenta (es. boxe, judo,) in cui il contrasto fisico, lo scontro tra gli atleti e l’uso della violenza è nella natura stessa del gioco.

La giurisprudenza ha puntualizzato che per tali discipline particolarmente aggressive sia richiesta una diversa carica agonistica ed una maggiore prudenza e cautela quando la gara [10]si svolge nel corso di un allenamento, ove minore deve essere l’aggressività; invece durante un incontro vero e proprio, vi potrebbero esser colpi più violenti determinati da una maggiore carica agonistica e dalla volontà di vincere.

Pertanto quando la violazione è voluta, ed è deliberatamente piegata al conseguimento dei risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante.

4a) Limiti all’attività sportiva: lesioni cagionate nonostante l’osservanze delle regole cautelare

Il giocatore, pur nel rispetto delle regole del gioco, realizza un danno all’avversario, pur agendo con cautela e prudenza. In questo caso si ritiene che l’atleta sia esente da responsabilità.

4b) Lesioni cagionate violando volontariamente le regole del gioco

Il giocatore può essere volontariamente intenzionato a ledere l’integrità fisica dell’avversario[11]. La competizione sportiva appare come un mero proposito per realizzare una lesione all’avversario. Ad esempio nel c.d. fallo di reazione: il calciatore a gioco fermo compie un fallo nei confronti dell’avversario.

Invece può verificarsi il caso di un giocatore procuri una lesione o un trauma che, pur violando le regole del gioco, non sia stato posto in essere per procurare lesioni all’avversario. Ad esempio all’intervento con il pallone su di una gamba tesa per rendere più efficace l’azione.

Inoltre si è altresì evidenziata la differenza tra il fallo commesso in una fase statica della competizione, ed il caso del fallo commesso nel mentre della gara, anche con foga agonistica, con l’intento di fermare o contrastare l’avversario. Nel primo caso si parla del fallo a gioco fermo: viene condannato l’atleta che commette un fallo a gioco fermo perché si presume che nella fase statica della gara non ci sia contatto fra gli atleti, pertanto l’uso della violenza non è richiesto, quindi è sintomo di una gratuita aggressione all’avversario. Nell’altro caso invece si deve in primis analizzare il fatto storico, in modo da poter delineare il tipo di competizione (professionistica o amatoriale; agonistica o meno; amichevole, allenamento, ecc), in relazione alla quale l’atleta dovrà modulare la propria irruenza e foga sportiva, nel rispetto delle regole tecniche dello sport, ma soprattutto nel rispetto dell’avversario e dei generali principi di lealtà e correttezza sportiva.

4 c) Lesioni cagionate violando involontariamente le regole del gioco

Nel caso in cui il giocatore violando involontariamente le regole del gioco cagioni una lesione all’avversario, bisogna distinguere l’ipotesi colposa, che si verifica quando per leggerezza viene compiuta un’azione lesiva nei confronti dell’avversario; ed il caso in cui il fallo viene compiuto in maniera non volontaria e colposa. In questo caso l’atleta è esente da responsabilità perché manca la coscienza e volontà della condotta.

La giurisprudenza ribadisce così l’orientamento dominante secondo cui si ha illecito sportivo quando: si violano le regole tecniche della disciplina sportiva praticata; si viola il rischio consentito; l’uso della forza è spropositato in rapporto al tipo di sport praticato, alla natura della gara (professionistica o amatoriale, amichevole o ufficiale).

Si ha causa di giustificazione non codificata dell’esercizio di un’attività sportiva quando le lesioni derivate dall’esercizio di detta attività siano state procurate nel rispetto delle regole alle quali la singola pratica sportiva è informata, nel senso che il comportamento lesivo può ritenersi corretto e scriminato soltanto ove posto in essere nel rispetto delle regole della disciplina specifica e del dovere di lealtà nei riguardi dell’avversario.

[1] ABBATTISTA, Inesigibilità e scriminanti tacite, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di diritto penale, Milano, 2002, 505 e ss; VIDIRI, Violenza sportiva e responsabilità penale dell’atleta, in Cass.pen., 1992, 3159;

[2] GAROFOLI, Scriminanti tacite, in Manuale di diritto penale. Parte penale, Giuffrè, Milano, 2005, 375; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2001, 250; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, 635; GROSSO, voce Cause di giustificazione, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988;

[3] ALBEGGIANI, voce Sport (diritto penale), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990; DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv. it dir.proc.pen, 1983;

[4] Cass. pen., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473: si sostiene la natura atipica o socialmente tipica della scriminante dell’attività sportiva; MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, 289 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 2005, 377 e ss.;

[5] Cass. Pen., Sez. IV, 25 febbraio 2000 n. 2765 in Cass. Pen., 2001, 505;

[6] PEZZELLA, La colpa sportiva e il rischio consentito. Dal calcio al rally, le sentenze sulla responsabilità degli atleti, in Diritto e Giustizia, 44, 2005, 60 e ss..

[7] MANTOVANI, voce Esercizio del diritto, in Enc. dir., XV; TRAVERSI, Diritto penale dello sport, Milano, 2001;

[8] Cass. Pen., Sez. V, 20 giugno 2001, n. 24942;

[9] Cass. pen., sez. IV, sentenza 7 ottobre 2003, n. 39204: indica gli elementi discriminanti le ipotesi colpose da quelle dolose e da quelle penalmente irrilevanti.

[10] Cass. pen., sez. IV, sentenza 6 ottobre 2006, n. 33577: distingue le attività sportive agonistiche da quelle attività amatoriali;

[11] Cass. Pen., Sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473;

L’attività sportiva comporta una carica agonistica a cui è connaturato un contatto fisico che può generare la produzione di illeciti penali (lesioni, ingiurie, minacce, percosse etc.).

L’evoluzione giurisprudenziale ha distinto tra attività sportive in cui l’attività sportiva genera illeciti perché la violenza è in re ipsa (ad esempio il pugilato, lotta libera) e attività sportiva non violenta che, pur nel rispetto delle regole del gioco, può determinare involontariamente illeciti penali.

La giurisprudenza ha coniato il c.d. rischio consentito, cioè il limite entro il quale l’attività sportiva pur determinando illeciti penali, non viola una fattispecie penale incriminatrice perché si tratta di comportamenti connessi ad azioni di gioco che sono considerate normali nello svolgimento dell’azione sportiva. Il superamento di detto limite comporta una responsabilità per dolo o colpa perché esorbita dalla carica agonistica e sfocia nella lesione all’incolumità personale e all’integrità fisica.

Sommario:

1) Ammissibilità delle scriminanti tacite o non codificate nel nostro ordinamento: in particolare l’attività sportiva;

2) L’attività sportiva introduce il limite del c.d. “rischio consentito”;

3) Attività sportiva a violenza necessaria;

4a) Limiti all’attività sportiva: lesioni cagionate nonostante l’osservanze delle regole cautelari;

4b) Lesioni cagionate volontariamente e dirette a ledere;

4c) Lesioni cagionate violando involontariamente le regole del gioco.

1) Ammissibilità delle scriminanti tacite o non codificate nel nostro ordinamento: in particolare l’attività sportiva

Le cause gi giustificazione vengono tipizzate negli articoli dal 50 al 54 del codice penale.

Ci si è chiesti si tratti di un numero chiuso o meno e se possano essere ammesse nel nostro ordinamento le scriminanti tacite o non codificate[1]. Ci si è interrogati sull’ammissibilità di creare ex novo scriminanti non codificate.

In primis si è rievocata la teoria della dottrina tedesca dell’azione socialmente adeguata, secondo la quale una condotta umana, di per sé illecita, può essere esente da responsabilità penale, se viene considerata conforme alle finalità sociali perseguite da una determinata comunità in un certo periodo storico. Si critica questa tesi perché il nostro sistema penale è fondato sul principio di legalità. Secondo tale principio gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, positivi e negativi, devono essere previsti dalla legge[2].

Pertanto la strada per rispondere positivamente a questo interrogativo non può che essere quella dell’interpretazione analogica delle scriminanti codificate. Per giungere a questa conclusione è prodromico affermare che le cause di giustificazione non rientrano tra i casi in cui vige il divieto di analogia in materia penale. Attenta dottrina – infatti - giunge alla soluzione positiva sostenendo che le cause di giustificazione non sono norme penali perché non sono fattispecie incriminatrici e neppure norme eccezionali, quindi non cadono sotto il divieto di analogia previsto all’articolo 14 delle disposizioni d’attuazione.

Nel corso delle attività sportive possono trovare origine diverse attività e comportamenti astrattamente riconducibili a fattispecie penali incriminatrici (lesioni, minacce, percosse, ingiurie etc.)[3].

Vi sono due approcci sistematici alla tematica de qua: quello di ricondurre le scriminanti non codificate nel novero delle cause di giustificazione codificate e quella di coloro che cercano una soluzione nell’ammissibilità di scriminanti non codificate.

La giurisprudenza qualifica l’esercizio dell’attività sportiva quale scriminante non codificata nel senso che soddisfa un interesse generale della collettività[4]. Il consenso dell’atleta non viene considerato come autonoma causa di giustificazione[5].

L’ordinamento giuridico guarda con favore all’attività sportiva ed alle associazioni che la promuovono come completamento della crescita equilibrata e dello sviluppo psico-fisico dell’individuo ai sensi dell’art. 2 della Costituzione. Si tratta di un’attività autorizzata (ne sarebbe la prova la legge istitutiva del CONI[6]) che permette di qualificare l’esercizio dell’attività sportiva come un esercizio di un diritto da parte dell’atleta ex art. 51 c.p.[7]. Vi sono dei requisiti da rispettare per esercitare tale diritto: è necessario il consenso dell’atleta alla partecipazione ed alla competizione sportiva.

Non sono mancate critiche a questa impostazione. Si è evidenziato come l’integrità fisica non rientri nella disponibilità del soggetto (non invocabile in caso di lesioni o in caso di morte dell’atleta perché ciò sarebbe contrario agli artt. 579 c.p. e 5 c.c., che sanciscono l’indisponibilità del diritto alla vita e all’integrità fisica). Ed inoltre il richiamo della scriminante codificata dell’esercizio del diritto appare poco pertinente perché tale ipotesi non è applicabile alle competizioni amatoriali.

2) L’attività sportiva introduce il limite del c.d. “rischio consentito”

Oltre al consenso dell’atleta alla partecipazione della gara è necessario che vengano rispettate le regole del gioco. In giurisprudenza si è a lungo tempo affermato che la condotta dell’atleta potrà considerarsi lecita soltanto quando rispetti in toto le regole specifiche della disciplina praticata. La giurisprudenza, però, ritiene che le regole possano anche essere violate, ma sempre nel rispetto del c.d. rischio consentito. Il rischio consentito si configura come il limite all’attività sportiva lecita. Si tratta di un area di comportamento lecita legata all’esercizio del gioco sportivo che può essere considerato normale nel comportamento agonistico dei giocatori. Il rischio consentito ricomprende e scusa condotte altrimenti penalmente, oltre che civilmente, rilevanti. Il superamento del rischio consentito si verifica quando viene posta a repentaglio l’incolumità fisica dei giocatori e prodotta una lesione alla loro integrità fisica[8] con delle opportune precisazioni.

Entrando nel dettaglio, infatti, la giurisprudenza si è preoccupata di distinguere i vari casi che si possono presentare[9].

Risponde a titolo di colpa l’atleta che – nell’esercizio dell’attività sportiva – cagiona una lesione all’avversario per aver violato le regole del gioco ed aver superato il rischio consentito.

Risponde a titolo di dolo eventuale il giocatore che agisce non con la volontà di ledere l’integrità fisica dell’avversario, ma fermamente convinto della sua abilità sportiva, agisce non prevedendo le lesione, ma accettandone il rischio.

Inoltre si configura una vera e propria fattispecie dolosa quando l’attività agonistica è un mero pretesto della condotta lesiva dell’incolumità fisica dell’avversario.

Quindi la giurisprudenza distingue tra conseguenze lesive frutto di un ardore agonistico che, pur essendo il frutto della violazione delle regole sportive, sono positivamente considerate dall’ordinamento in quanto fisiologicamente connesse alla ansia da risultato; poi vi sono le conseguenze lesive di condotte frutto di involontarie violazioni delle regole del gioco; ed infine le conseguenze lesive di comportamenti volontariamente assunti in spregio delle norme sportive. Ancora, a fronte di lesioni discendenti da coscienti violazioni delle regole de quibus, si pone un discrimen tra l’ipotesi in cui, pur non difettando la volontarietà della inosservanza, lo sportivo miri a raggiungere un risultato connesso alla gara, diverso da quello della intenzionale lesione, e quella in cui la competizione diviene mero pretesto per assumere certi comportamenti dannosi.

Il comportamento tenuto dall’atleta è indubbiamente colposo, per avere egli interpretato l’evento sportivo in corso come una competizione effettiva, quindi animato da un agonismo non conferente alla situazione concreta. Da cui deriva la violazione delle regole del gioco a causa della sproporzione e dell’eccessività dell’intervento a fronte della caratteristiche dell’incontro.

3) Attività sportiva a violenza necessaria

Vi sono tipi di attività (come la box, il karate etc.), in cui l’aggressione dell’avversario sono parte integrante della stessa attività sportiva agonistica. In questo caso la scriminante opera solo ove vengano rispettate le regole del gioco e la competizione avvenga tra atleti della stessa caratura (professionisti o appartenenti alla stessa categoria) senza colpi proibiti. Lo svolgimento di gare tra atleti appartenenti a categorie diverse determina la violazione delle regole cautelari.

Tradizionalmente in dottrina si classificano gli sport in ragione del grado di violenza necessaria a raggiungere la finalità cui la disciplina si prefigge; si parla di attività sportiva non violenta (es. tennis, nuoto) in cui manca qualsiasi contatto fisico tra gli avversari; attività sportiva eventualmente violenta (es. calcio, basket) in cui c’è un contatto fisico tra gli atleti che può causare danni, lesioni o traumi agli stessi;

attività sportiva necessariamente violenta (es. boxe, judo,) in cui il contrasto fisico, lo scontro tra gli atleti e l’uso della violenza è nella natura stessa del gioco.

La giurisprudenza ha puntualizzato che per tali discipline particolarmente aggressive sia richiesta una diversa carica agonistica ed una maggiore prudenza e cautela quando la gara [10]si svolge nel corso di un allenamento, ove minore deve essere l’aggressività; invece durante un incontro vero e proprio, vi potrebbero esser colpi più violenti determinati da una maggiore carica agonistica e dalla volontà di vincere.

Pertanto quando la violazione è voluta, ed è deliberatamente piegata al conseguimento dei risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante.

4a) Limiti all’attività sportiva: lesioni cagionate nonostante l’osservanze delle regole cautelare

Il giocatore, pur nel rispetto delle regole del gioco, realizza un danno all’avversario, pur agendo con cautela e prudenza. In questo caso si ritiene che l’atleta sia esente da responsabilità.

4b) Lesioni cagionate violando volontariamente le regole del gioco

Il giocatore può essere volontariamente intenzionato a ledere l’integrità fisica dell’avversario[11]. La competizione sportiva appare come un mero proposito per realizzare una lesione all’avversario. Ad esempio nel c.d. fallo di reazione: il calciatore a gioco fermo compie un fallo nei confronti dell’avversario.

Invece può verificarsi il caso di un giocatore procuri una lesione o un trauma che, pur violando le regole del gioco, non sia stato posto in essere per procurare lesioni all’avversario. Ad esempio all’intervento con il pallone su di una gamba tesa per rendere più efficace l’azione.

Inoltre si è altresì evidenziata la differenza tra il fallo commesso in una fase statica della competizione, ed il caso del fallo commesso nel mentre della gara, anche con foga agonistica, con l’intento di fermare o contrastare l’avversario. Nel primo caso si parla del fallo a gioco fermo: viene condannato l’atleta che commette un fallo a gioco fermo perché si presume che nella fase statica della gara non ci sia contatto fra gli atleti, pertanto l’uso della violenza non è richiesto, quindi è sintomo di una gratuita aggressione all’avversario. Nell’altro caso invece si deve in primis analizzare il fatto storico, in modo da poter delineare il tipo di competizione (professionistica o amatoriale; agonistica o meno; amichevole, allenamento, ecc), in relazione alla quale l’atleta dovrà modulare la propria irruenza e foga sportiva, nel rispetto delle regole tecniche dello sport, ma soprattutto nel rispetto dell’avversario e dei generali principi di lealtà e correttezza sportiva.

4 c) Lesioni cagionate violando involontariamente le regole del gioco

Nel caso in cui il giocatore violando involontariamente le regole del gioco cagioni una lesione all’avversario, bisogna distinguere l’ipotesi colposa, che si verifica quando per leggerezza viene compiuta un’azione lesiva nei confronti dell’avversario; ed il caso in cui il fallo viene compiuto in maniera non volontaria e colposa. In questo caso l’atleta è esente da responsabilità perché manca la coscienza e volontà della condotta.

La giurisprudenza ribadisce così l’orientamento dominante secondo cui si ha illecito sportivo quando: si violano le regole tecniche della disciplina sportiva praticata; si viola il rischio consentito; l’uso della forza è spropositato in rapporto al tipo di sport praticato, alla natura della gara (professionistica o amatoriale, amichevole o ufficiale).

Si ha causa di giustificazione non codificata dell’esercizio di un’attività sportiva quando le lesioni derivate dall’esercizio di detta attività siano state procurate nel rispetto delle regole alle quali la singola pratica sportiva è informata, nel senso che il comportamento lesivo può ritenersi corretto e scriminato soltanto ove posto in essere nel rispetto delle regole della disciplina specifica e del dovere di lealtà nei riguardi dell’avversario.

[1] ABBATTISTA, Inesigibilità e scriminanti tacite, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di diritto penale, Milano, 2002, 505 e ss; VIDIRI, Violenza sportiva e responsabilità penale dell’atleta, in Cass.pen., 1992, 3159;

[2] GAROFOLI, Scriminanti tacite, in Manuale di diritto penale. Parte penale, Giuffrè, Milano, 2005, 375; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2001, 250; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, 635; GROSSO, voce Cause di giustificazione, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988;

[3] ALBEGGIANI, voce Sport (diritto penale), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990; DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv. it dir.proc.pen, 1983;

[4] Cass. pen., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473: si sostiene la natura atipica o socialmente tipica della scriminante dell’attività sportiva; MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, 289 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 2005, 377 e ss.;

[5] Cass. Pen., Sez. IV, 25 febbraio 2000 n. 2765 in Cass. Pen., 2001, 505;

[6] PEZZELLA, La colpa sportiva e il rischio consentito. Dal calcio al rally, le sentenze sulla responsabilità degli atleti, in Diritto e Giustizia, 44, 2005, 60 e ss..

[7] MANTOVANI, voce Esercizio del diritto, in Enc. dir., XV; TRAVERSI, Diritto penale dello sport, Milano, 2001;

[8] Cass. Pen., Sez. V, 20 giugno 2001, n. 24942;

[9] Cass. pen., sez. IV, sentenza 7 ottobre 2003, n. 39204: indica gli elementi discriminanti le ipotesi colpose da quelle dolose e da quelle penalmente irrilevanti.

[10] Cass. pen., sez. IV, sentenza 6 ottobre 2006, n. 33577: distingue le attività sportive agonistiche da quelle attività amatoriali;

[11] Cass. Pen., Sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473;