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Brevi note sul recente intervento della Cassazione in materia di "riciclaggio di marche da bollo"

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 24 luglio 2007, n.30154
ABSTRACT

In data 24 Luglio 2007 la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito, con un’interessante pronuncia (la n. 30154), il principio secondo il quale il pubblico dipendente che “ricicla” la marca da bollo, staccandola da una pratica già archiviata per apporla su una nuova pratica, commette il delitto di peculato previsto e punito dall’articolo 314 del Codice Penale.

La sentenza in oggetto, pur ponendosi per molti aspetti in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di peculato, appare comunque significativa, oltre che per le interessanti argomentazioni giuridiche sviluppate, anche per la forte condanna espressa dai Supremi Giudici nei confronti della pratica del “riciclaggio” delle marche da bollo da parte dei pubblici dipendenti.

TESTO

Con una recentissima sentenza del 24 Luglio 2007 (la n. 30154) la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il pubblico dipendente che “ricicla” la marca da bollo, staccandola da una pratica già archiviata per apporla su una nuova pratica, commette il delitto di peculato previsto e punito dall’art. 314 del Codice penale.

In particolare, il caso portato all’attenzione del Supremo Collegio riguardava alcuni pubblici ufficiali (due agenti della polizia municipale del Comune di Milano addetti al Settore Concessioni ed autorizzazioni edilizie) che, avendo per ragioni del proprio ufficio la disponibilità delle marche da bollo applicate sulle pratiche già definite e conservate presso l’archivio del settore d’appartenenza, se ne appropriavano, asportando le marche dalle pratiche archiviate e riutilizzandole attraverso l’apposizione sui moduli delle istanze presentate dai richiedenti presso gli sportelli dei suddetti uffici.

Tale “prassi”, che oramai andava avanti da qualche tempo, aveva arrecato al Comune di Milano (poi costituitosi parte civile) un danno di circa ben 12 mila euro.

A fondamento della propria decisione, i Giudici della sesta sezione della Corte di Cassazione hanno posto una serie di argomentazioni di grande rilevanza giuridica.

Quella più importante attiene sicuramente l’affermazione dell’assunto per cui oggetto del delitto di peculato non debbano essere considerati esclusivamente i beni dotati di valore economico intrinseco, potendo altresì costituire oggetto materiale del delitto in parola anche delle cose “che possono acquistare o riacquistare rilevanza economica” in forza della loro riutilizzazione da parte del soggetto agente (cfr. anche Cass. 25.10.89; Cass. 31.10.86).

Oltre a ciò, la pronuncia in esame offre lo spunto per altre significative riflessioni.

La prima concerne il fatto secondo il quale la Corte, in quest’occasione, sembrerebbe aver privilegiato la tesi, seguita peraltro dalla più recente giurisprudenza, in virtù della quale il peculato rientrerebbe nel novero di quei delitti posti a tutela non tanto del patrimonio della P.A. quanto del regolare funzionamento dell’Amministrazione stessa.

E ciò appare evidente nel momento in cui si motiva nel senso per cui le marche avrebbero, per la P.A., il valore “preciso e concreto” di documentare la regolarità fiscale delle pratiche, per cui la loro rimozione dalle pratiche già archiviate produrrebbe un “evidente disordine amministrativo-contabile” per la Pubblica Amministrazione.

Ampliando sul punto, è comunque da ritenersi non secondario il costante interesse dimostrato dalla Suprema Corte per il tema dell’esatta individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 314 c.p. .

Difatti, sotto il profilo dell’applicazione pratica della norma, giudicare come primario l’interesse alla tutela del buon andamento della P.A., come sembrerebbe fare nel caso di specie la Corte di Cassazione, porta a configurare il delitto di peculato a prescindere dalla lesione dei beni patrimoniali della P.A..

Al contrario, giudicare come prevalente il solo interesse alla salvaguardia del patrimonio della P.A., significa escludere il peculato in presenza di tutte quelle ipotesi in cui la P.A. subisca un danno in corrispondenza di un vantaggio per la medesima e non sussista per l’agente alcun profitto di carattere economico.

Altro spunto di riflessione offerto dalla sentenza in esame concerne l’identificazione dell’oggetto materiale dell’appropriazione.

La Cassazione ha difatti stabilito che oggetto della condotta appropriativa siano state non solo le marche “riciclate” ma anche e soprattutto le “somme versate agli imputati dagli utenti, le quali ne costituivano il controvalore, e che, a tale titolo, divenivano immediatamente di pertinenza della P.A.”.

“Ed invero” – prosegue la Corte – “gli utenti, tratti in tal modo errore dagli imputati, non assolvevano il loro dovere tributario”.

Tale ultima notazione porterebbe pertanto a configurare un concorso formale fra il reato di peculato, contestato dai Giudici di merito, e quello di truffa a danno dei privati, al contrario non contestato dagli stessi.

La sentenza in oggetto, in conclusione, pur ponendosi per molti aspetti in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di peculato, appare comunque significativa, oltre che per le interessanti argomentazioni giuridiche sopra emarginate, anche per la forte condanna espressa dai Supremi Giudici nei confronti della pratica del “riciclaggio” delle marche da bollo da parte dei pubblici dipendenti.

ABSTRACT

In data 24 Luglio 2007 la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito, con un’interessante pronuncia (la n. 30154), il principio secondo il quale il pubblico dipendente che “ricicla” la marca da bollo, staccandola da una pratica già archiviata per apporla su una nuova pratica, commette il delitto di peculato previsto e punito dall’articolo 314 del Codice Penale.

La sentenza in oggetto, pur ponendosi per molti aspetti in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di peculato, appare comunque significativa, oltre che per le interessanti argomentazioni giuridiche sviluppate, anche per la forte condanna espressa dai Supremi Giudici nei confronti della pratica del “riciclaggio” delle marche da bollo da parte dei pubblici dipendenti.

TESTO

Con una recentissima sentenza del 24 Luglio 2007 (la n. 30154) la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il pubblico dipendente che “ricicla” la marca da bollo, staccandola da una pratica già archiviata per apporla su una nuova pratica, commette il delitto di peculato previsto e punito dall’art. 314 del Codice penale.

In particolare, il caso portato all’attenzione del Supremo Collegio riguardava alcuni pubblici ufficiali (due agenti della polizia municipale del Comune di Milano addetti al Settore Concessioni ed autorizzazioni edilizie) che, avendo per ragioni del proprio ufficio la disponibilità delle marche da bollo applicate sulle pratiche già definite e conservate presso l’archivio del settore d’appartenenza, se ne appropriavano, asportando le marche dalle pratiche archiviate e riutilizzandole attraverso l’apposizione sui moduli delle istanze presentate dai richiedenti presso gli sportelli dei suddetti uffici.

Tale “prassi”, che oramai andava avanti da qualche tempo, aveva arrecato al Comune di Milano (poi costituitosi parte civile) un danno di circa ben 12 mila euro.

A fondamento della propria decisione, i Giudici della sesta sezione della Corte di Cassazione hanno posto una serie di argomentazioni di grande rilevanza giuridica.

Quella più importante attiene sicuramente l’affermazione dell’assunto per cui oggetto del delitto di peculato non debbano essere considerati esclusivamente i beni dotati di valore economico intrinseco, potendo altresì costituire oggetto materiale del delitto in parola anche delle cose “che possono acquistare o riacquistare rilevanza economica” in forza della loro riutilizzazione da parte del soggetto agente (cfr. anche Cass. 25.10.89; Cass. 31.10.86).

Oltre a ciò, la pronuncia in esame offre lo spunto per altre significative riflessioni.

La prima concerne il fatto secondo il quale la Corte, in quest’occasione, sembrerebbe aver privilegiato la tesi, seguita peraltro dalla più recente giurisprudenza, in virtù della quale il peculato rientrerebbe nel novero di quei delitti posti a tutela non tanto del patrimonio della P.A. quanto del regolare funzionamento dell’Amministrazione stessa.

E ciò appare evidente nel momento in cui si motiva nel senso per cui le marche avrebbero, per la P.A., il valore “preciso e concreto” di documentare la regolarità fiscale delle pratiche, per cui la loro rimozione dalle pratiche già archiviate produrrebbe un “evidente disordine amministrativo-contabile” per la Pubblica Amministrazione.

Ampliando sul punto, è comunque da ritenersi non secondario il costante interesse dimostrato dalla Suprema Corte per il tema dell’esatta individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 314 c.p. .

Difatti, sotto il profilo dell’applicazione pratica della norma, giudicare come primario l’interesse alla tutela del buon andamento della P.A., come sembrerebbe fare nel caso di specie la Corte di Cassazione, porta a configurare il delitto di peculato a prescindere dalla lesione dei beni patrimoniali della P.A..

Al contrario, giudicare come prevalente il solo interesse alla salvaguardia del patrimonio della P.A., significa escludere il peculato in presenza di tutte quelle ipotesi in cui la P.A. subisca un danno in corrispondenza di un vantaggio per la medesima e non sussista per l’agente alcun profitto di carattere economico.

Altro spunto di riflessione offerto dalla sentenza in esame concerne l’identificazione dell’oggetto materiale dell’appropriazione.

La Cassazione ha difatti stabilito che oggetto della condotta appropriativa siano state non solo le marche “riciclate” ma anche e soprattutto le “somme versate agli imputati dagli utenti, le quali ne costituivano il controvalore, e che, a tale titolo, divenivano immediatamente di pertinenza della P.A.”.

“Ed invero” – prosegue la Corte – “gli utenti, tratti in tal modo errore dagli imputati, non assolvevano il loro dovere tributario”.

Tale ultima notazione porterebbe pertanto a configurare un concorso formale fra il reato di peculato, contestato dai Giudici di merito, e quello di truffa a danno dei privati, al contrario non contestato dagli stessi.

La sentenza in oggetto, in conclusione, pur ponendosi per molti aspetti in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di peculato, appare comunque significativa, oltre che per le interessanti argomentazioni giuridiche sopra emarginate, anche per la forte condanna espressa dai Supremi Giudici nei confronti della pratica del “riciclaggio” delle marche da bollo da parte dei pubblici dipendenti.