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Guida pratica al "mobbing" alla luce della più recente e rilevante giurisprudenza

ABSTRACT

Da studi recentemente condotti dall’Ispesl (l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) emerge che, in quest’ultimi anni, sono aumentati in Italia i casi di “mobbing”, ossia di vessazione da parte di uno o più soggetti al fine di danneggiare, in modo sistematico, un lavoratore nel suo ambiente di lavoro.

Visto pertanto l’esponenziale proliferazione di tale deleterio fenomeno persecutorio, appare quanto mai essenziale esaminare il “mobbing” alla luce del “diritto vivente”, ovvero attraverso un’analisi pratica della più recente giurisprudenza (soprattutto quella della Suprema Corte di Cassazione) che, in più occasioni, ha trovato il modo di circoscrivere in maniera esauriente questa tematica al fine di “responsabilizzare” maggiormente i lavoratori ed “arginare” quanto più possibile la pericolosa ascesa dei casi di “mobbing” sul posto di lavoro.

La Corte di Cassazione ha perciò proceduto a definire esattamente cosa s’intenda effettivamente con il termine “mobbing”, quali siano i suoi elementi identificativi (ad esempio visite mediche fiscali continue, attribuzione di note di qualifica di insufficiente o anche la semplice privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale); quali siano i fatti che il mobbizzato da un lato ed il mobbizzatore dall’altro debbono provare per far valere le loro ragioni in giudizio (anche alla luce di una sorta di “presunzione di colpevolezza” a carico del datore di lavoro); ed infine quali siano i danni patrimoniali (danno emergente, lucro cessante) e non patrimoniali (danno morale soggettivo, danno biologico in senso stretto e danno esistenziale) ritenuti in quest’ultimi anni meritevoli di risarcimento.

Ad ogni modo rimangono parecchi dubbi in tema di mobbing. Difatti se, da un lato, le Sezioni civili della Corte di Cassazione hanno più volte ribadito che il mobbing rappresenta, sul piano civilistico, una condotta ingiusta ed illegittima, dall’altro lato, le Sezioni penali dello stesso Supremo Organo hanno di recente (Agosto 2007) stabilito, inaspettatamente, che il mobbing non costituisce reato in quanto si tratterebbe di una fattispecie non prevista (rectius “tipicizzata”) dal nostro Codice Penale e, quindi, non punibile penalmente in virtù del principio “nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” previsto dall’art. 1 del Codice Penale italiano.

INDICE

1. Cos’è il “mobbing”?

2. Come si prova il danno da “mobbing”?

3. Qual’è il tipo di responsabilità configurabile in caso di “mobbing”?

4. Quali sono i danni da “mobbing” risarcibili?

5. Il “mobbing” rappresenta una condotta penalmente rilevante?

6. Quali sono le categorie a maggiore rischio di “mobbizzazione”?

1. Cos’è il “mobbing”?

    Mobbing: dall’inglese “mob” assalire, soffocare, malmenare.

Ma, al di là della sua traduzione letterale, cosa s’intende veramente con questa parola sempre più presente nel mondo lavorativo italiano come peraltro dimostrato da un recente monitoraggio dall’Ispesl (l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) che ha documentato la presenza di circa un milione e mezzo di lavoratori italiani mobbizzati su 21 milioni di occupati?

    Tradizionalmente, con il termine mobbing, si fa riferimento ad una forma di isolamento e di aggressione di uno o più lavoratori attraverso attacchi sistematici finalizzati a danneggiarne salute, reputazione e professionalità.

In particolare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recentemente definito il mobbing come quella pratica vessatoria posta in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro (Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 8438/04).

Elementi identificatori di questo fenomeno, dilagante soprattutto fra le lavoratrici femminili (il 52% dei mobbizzati secondo i dati Ispesl), possono essere la reiterazione delle condotte per un periodo di tempo apprezzabile (almeno 6 mesi), visite mediche fiscali continue, attribuzione di note di qualifica di insufficiente o anche la semplice privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 4774/06).

    All’interno del vasto panorama caratterizzante il mobbing è inoltre possibile distingue tra: mobbing verticale (o bossing) quando le condotte lesive sono poste in essere dal datore di lavoro; mobbing orizzontale quando le condotte sono poste in essere da colleghi del lavoratore; mobbing ascendete quando le condotte sono poste in essere da personale sottosposto al lavoratore; mobbing individuale qualora le condotte sono rivolte nei confronti di un unico soggetto; ed infine mobbing collettivo allorquando le condotte abbiano ad oggetto un gruppo di lavoratori.

    Appare altresì importante evidenziare che il mobbing va comunque distinto da altri comportamenti discriminatori posti in essere sul luogo di lavoro quali, ad esempio, le molestie sessuali o il demansionamento. Comportamenti, questi ultimi, che possono essere ricompresi tra le condotte mobbizzanti ma non le esauriscono. (Tribunale di Ivrea, sentenza 17/11/2005, sentenza n. 94).

2. Come si prova il danno da “mobbing”?

    Ma quando ci si trovi ad essere vittime di mobbing quali prove deve allegare il mobbizzato a sostegno della propria pretesa?

A questa domanda ha risposto, ancora una volta, la Corte di Cassazione.

Il Supremo Collegio ha difatti stabilito che il lavoratore che lamenti di aver subito comportamenti mobbizzanti e che intenda chiedere in giudizio il risarcimento del danno è gravato dall’onere di dare la prova delle condotte realizzate in suo danno, del danno patrimoniale o esistenziale subito, dell’eventuale incidenza di tale danno sulla sua integrità psico-fisica.

    Ed invero il Supremo Collegio, trattando il tema dell’onere probatorio a carico del lavoratore, ha stabilito che: “In tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi”. (Cassazione civile, sezione lavoro, 29/09/2005, sentenza n. 19053).

    In riferimento invece all’onere probatorio gravante in capo al datore di lavoro, la stessa Corte di Cassazione, in altro giudizio, ha sancito che: “Posta la natura contrattuale della responsabilità da "mobbing", non assolve l’onere della prova liberatoria il datore di lavoro che si limiti ad allegare di aver deferito al collegio dei probiviri l’autore dei fatti mobbizzanti”. (Cassazione civile, sezione lavoro, 25/05/2006, sentenza n. 12445).

Ai fini probatori è inoltre importante sottolineare che, in materia di mobbing, non assume rilievo l’elemento psicologico (l’intenzionalità) del mobber con riferimento alle singole condotte, ma occorre piuttosto provare di aver subito un complesso dei comportamenti tali da dar vita nell’insieme ad un’azione effettivamente mobbizzante.

    Per di più la configurazione della responsabilità del datore di lavoro come responsabilità di tipo contrattuale consente di porre a carico del mobbizzato solo l’onere di provare gli episodi mobbizzanti, cioè la reiterazione degli stessi, il loro carattere pretestuoso, la circostanza che gli stessi appaiano complessivamente finalizzati a danneggiarlo, nonchè la prova del collegamento (nesso causale) tra tali condotte e il danno subito, danno che naturalmente deve poterne costituire una conseguenza immediata e diretta. Pertanto, una volta fornite queste prove, l’esistenza del pregiudizio all’integrità psico-fisica, viene ricavata presuntivamente, giacchè si ritiene che a tale tipo di condotte consegua automaticamente un danno.

    Il datore di lavoro, per converso, deve vincere la presunzione di colpa esistente in suo danno, provando che le condotte indicate dal lavoratore non possono essere qualificate come mobbizzanti, che per ciascuna di esse esiste una valida spiegazione e che le stesse non sono finalisticamente collegate tra loro.

    Nel caso in cui le condotte mobbizzanti siano poste in essere dai dipendenti del datore di lavoro nei confronti dei colleghi, il datore di lavoro risponde “se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”. Data la difficoltà di fornire una simile prova, in questi casi quella del datore di lavoro appare una forma di responsabilità oggettiva.

3. Qual’è il tipo di responsabilità configurabile in caso di “mobbing”?

    La responsabilità dell’autore del mobbing, generalmente il datore di lavoro, è di norma ricondotta alla violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 del Codice civile. In virtù di tale disposizione, l’imprenditore è difatti tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro. Si tratta, dunque, in questo caso, di una responsabilità di tipo contrattuale.

    L’identificazione della natura della responsabilità del datore di lavoro diviene però più complessa quando le condotte mobbizzanti siano poste in essere non direttamente dal datore di lavoro bensì da suoi sottoposti, come ad esempio gli stessi colleghi del mobbizzato.

    Infatti, soprattutto con riferimento a strutture complesse, quali aziende di grandi dimensioni, è apparso discutibile configurare una responsabilità in capo al datore di lavoro per condotte riferibili a soggetti diversi. Tuttavia, la giurisprudenza sembra orientata nel senso di ricondurre, anche in questi casi, la responsabilità del datore di lavoro alla violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 o comunque all’art.1228, in virtù dei quali il debitore (datore di lavoro) è responsabile anche dei fatti dolosi o colposi dei terzi di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione. (Cassazione civile, sezione lavoro, 25/05/2006, sentenza n.12445).  Esulano comunque dalla responsabilità del datore di lavoro le semplici quanto frequenti “liti” tra dipendenti.

    Inoltre, mentre il datore di lavoro risponde a titolo contrattuale, il prestatore di lavoro che ponga in essere condotte mobbizzanti risponde personalmente e direttamente nei confronti del soggetto mobbizzato, anche se, naturalmente, in via extracontrattuale.

    Ad ogni modo, nei casi in cui le condotte poste in essere da colleghi o superiori del mobbizzato non siano parte di un disegno preordinato dal datore di lavoro per danneggiarlo, ma siano frutto di autonome iniziative di tali soggetti, al datore di lavoro è comunque concessa la facoltà di rivalersi nei confronti di chi ha posto in essere le condotte mobbizzanti sia per i danni che venga condannato a rifondere al lavoratore sia per eventuali altri danni subiti dall’impresa.

4. Quali sono i danni da “mobbing” risarcibili?

    Le conseguenze del mobbing sul lavoratore che ne sia soggetto passivo sono da ritenersi differenti per caratteristiche e gravità.

I danni da mobbing vanno, infatti, dalle lesioni più gravi al sistema nervoso centrale, tali da apportare profondi ed irreparabili perturbamenti alle funzioni più necessarie alla vita organica e sociale, a psico-nevrosi di media entità, fino a sindromi nevrosiche lievi, ma persistenti.

    Tali danni, per giurisprudenza oramai unanime, sono da ritenersi risarcibili sotto il profilo della menomazione all’integrità psico-fisica del lavoratore, del danno alla salute, del danno alla professionalità e del danno esistenziale. Tipologie di danno tutte risarcibili, sia sul piano patrimoniale che su quello non patrimoniale, in quanto effetto di un’attività tale da arrecare una “lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro”.

    In particolare, quanto al danno patrimoniale, si tratta delle conseguenze del comportamento mobbizzante che incidono sul patrimonio del soggetto leso sia in termini di danno emergente (rimborso di tutte le spese e dei costi da sopportare per eventuali cure o assistenza) che di lucro cessante (danno da perdita di occasioni di guadagno o di altre occasioni utili).

    Quanto al danno non patrimoniale si fa invece riferimento specificatamente al danno all’integrità psico-fisica tale da pregiudicare l’equilibrio personale professionale del lavoratore. E’ quindi ravvisabile la configurabilità di tale tipologia di danno, ad esempio, in presenza di situazioni di elevato stress, che sono causa di malattia o di aggravamento di stati patologici già in atto. (Tribunale di Agrigento, sentenza del 1/02/2005 ). Il danno morale, in sostanza, riguarda tutte quelle sofferenze psichiche derivanti dall’illecito.

    La giurisprudenza di legittimità ha inoltre chiarito che tale voce di danno è risarcibile, non solo quando non solo la fattispecie integri gli estremi di un reato, ma ogni qual volta vengono lesi i diritti inviolabili della persona. Alla stregua di questa ricostruzione è pertanto risarcibile sia il “danno morale soggettivo,” inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico; sia infine il danno “esistenziale” derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. (Cassazione, sezione civile, 22.2.2002, sentenza n. 4129; Cassazione, sezione civile, 12 maggio 2003, sentenze nn. 7281 e 7282).

    Nel Settembre del 2006 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità anche del cd. “danno alla professionalità” in favore di un dirigente, in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale, totalmente e repentinamente privato di qualsiasi mansione e costretto per mesi ad una forzata inattività. Nella stessa occasione la Corte ha però escluso la risarcibilità di altre voci di danno, "quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere provate”. (Cassazione, sezione civile, sentenza n. 20616/2006).

5. Il “mobbing” rappresenta una condotta penalmente rilevante?

    Dopo parecchi dubbi e nessuna certezza circa la rilevanza penale del “mobbing”, la Corte di Cassazione ha recentissimamente stabilito (Agosto 2007) che il mobbing non costituisce un fatto penalmente rilevante e, quindi, punibile secondo la legge penale, stante “la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al Codice penale questa tipicizzazione” (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 33624/2007).

    Aggiunge inoltre la Corte: “La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.

    La stessa sentenza riconosce comunque che “la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall’art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione. [...] Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l’ipotesi dell’aggravante specifica della citata disposizione, si richieda l’individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti”.

    Parafrasando quanto deciso dalla Corte di Cassazione sembrerebbe pertanto che per la Corte di Cassazione la condotta di mobbing non possa essere considerata come penalmente sanzionabile non tanto perchè priva di disvalore sociale o perchè legittima (basti in tal senso vedere la copiosa giurisprudenza, soprattutto delle Sezioni civili della stessa Corte, in merito all’illegittimità della condotta di mobbing), ma bensì in quanto il mobbing rappresenterebbe una condotta non prevista (o meglio tipicizzata) come reato dal Codice penale italiano e, quindi, non punibile penalmente secondo il dettato dell’art. 1 del Codice penale (“nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”).

T    ale recentissima sentenza, oltre ad avere una sua indiscutibile rilevanza sul piano strettamente giuridico, assume altresì i toni di un vero e proprio “invito” rivolto al Legislatore italiano avente lo scopo di sollecitare quest’ultimo nella modifica del vigente Codice penale nel senso della previsione, in maniera espressa, del mobbing come specifica fattispecie di reato, in linea peraltro con quanto prescritto della delibera del Consiglio d’Europa del 2000 che ha imposto a tutti gli Stati membri di dotarsi di una disciplina nazionale antimobbing.

6. Quali sono le categorie a maggiore rischio di “mobbizzazione”?

    Ed infine, quali sono i lavoratori a più alto rischio di mobbing?

Inaspettatamente, è proprio nel pubblico impiego che il mobbing sembra affermarsi con sempre maggiore decisione. In particolare la categoria più esposta risulta essere quella degli impiegati pubblici con ben il 79% di lavoratori mobbizzati.

    Il ripetersi di episodi di mobbing nell’ambito delle Pubbliche amministrazioni ha difatti assunto dimensioni tali da richiedere l’intervento diretto della stessa Pubblica Amministrazione attraverso la costituzione di comitati paritetici e la previsione di sanzioni disciplinari finanche alla revoca dall’incarico nei confronti del pubblico dipendente riconosciuto colpevole di pratiche mobbizzanti.

    Ma accanto agli impiegati pubblici, fra i soggetti a più alto rischio di mobbing vi sarebbero, sulla base di recenti studi, anche gli operai. Non più quadri e dirigenti, bensì addetti alle mansioni più semplici. Sarebbero loro le vittime preferite degli abusi psicologici in azienda che costano al datore di lavoro fino al 70% del calo della produttività del lavoratore mobbizzato.

    Un dato appare in conclusione confortante: anche se l’Italia è un Paese a forte tasso di mobbing (il 4%), la percentuale di mobbizzati italiani è ben al di sotto di quella di altri Paesi europei (Inghilterra 16%, Svezia 10%, Francia 9%, Germania 7%).

    Il dato allarmante è però un altro: nonostante il sempre più massiccio intervento delle Corti italiane, il grado di “ignoranza sociale” dei rischi collegati al mobbing è ancora troppo alto come peraltro dimostrato dall’esponenziale crescita di tale fenomeno nel nostro Paese.

E’ perciò quanto mai necessario un potenziamento delle strutture volte all’informazione sui rischi e sui danni riconnessi al mobbing, prima che sia troppo tardi.

                                                                                                Dott. Francesco Salamone

                                                                                        Praticante Avvocato del Foro di Roma

ABSTRACT

Da studi recentemente condotti dall’Ispesl (l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) emerge che, in quest’ultimi anni, sono aumentati in Italia i casi di “mobbing”, ossia di vessazione da parte di uno o più soggetti al fine di danneggiare, in modo sistematico, un lavoratore nel suo ambiente di lavoro.

Visto pertanto l’esponenziale proliferazione di tale deleterio fenomeno persecutorio, appare quanto mai essenziale esaminare il “mobbing” alla luce del “diritto vivente”, ovvero attraverso un’analisi pratica della più recente giurisprudenza (soprattutto quella della Suprema Corte di Cassazione) che, in più occasioni, ha trovato il modo di circoscrivere in maniera esauriente questa tematica al fine di “responsabilizzare” maggiormente i lavoratori ed “arginare” quanto più possibile la pericolosa ascesa dei casi di “mobbing” sul posto di lavoro.

La Corte di Cassazione ha perciò proceduto a definire esattamente cosa s’intenda effettivamente con il termine “mobbing”, quali siano i suoi elementi identificativi (ad esempio visite mediche fiscali continue, attribuzione di note di qualifica di insufficiente o anche la semplice privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale); quali siano i fatti che il mobbizzato da un lato ed il mobbizzatore dall’altro debbono provare per far valere le loro ragioni in giudizio (anche alla luce di una sorta di “presunzione di colpevolezza” a carico del datore di lavoro); ed infine quali siano i danni patrimoniali (danno emergente, lucro cessante) e non patrimoniali (danno morale soggettivo, danno biologico in senso stretto e danno esistenziale) ritenuti in quest’ultimi anni meritevoli di risarcimento.

Ad ogni modo rimangono parecchi dubbi in tema di mobbing. Difatti se, da un lato, le Sezioni civili della Corte di Cassazione hanno più volte ribadito che il mobbing rappresenta, sul piano civilistico, una condotta ingiusta ed illegittima, dall’altro lato, le Sezioni penali dello stesso Supremo Organo hanno di recente (Agosto 2007) stabilito, inaspettatamente, che il mobbing non costituisce reato in quanto si tratterebbe di una fattispecie non prevista (rectius “tipicizzata”) dal nostro Codice Penale e, quindi, non punibile penalmente in virtù del principio “nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” previsto dall’art. 1 del Codice Penale italiano.

INDICE

1. Cos’è il “mobbing”?

2. Come si prova il danno da “mobbing”?

3. Qual’è il tipo di responsabilità configurabile in caso di “mobbing”?

4. Quali sono i danni da “mobbing” risarcibili?

5. Il “mobbing” rappresenta una condotta penalmente rilevante?

6. Quali sono le categorie a maggiore rischio di “mobbizzazione”?

1. Cos’è il “mobbing”?

    Mobbing: dall’inglese “mob” assalire, soffocare, malmenare.

Ma, al di là della sua traduzione letterale, cosa s’intende veramente con questa parola sempre più presente nel mondo lavorativo italiano come peraltro dimostrato da un recente monitoraggio dall’Ispesl (l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) che ha documentato la presenza di circa un milione e mezzo di lavoratori italiani mobbizzati su 21 milioni di occupati?

    Tradizionalmente, con il termine mobbing, si fa riferimento ad una forma di isolamento e di aggressione di uno o più lavoratori attraverso attacchi sistematici finalizzati a danneggiarne salute, reputazione e professionalità.

In particolare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recentemente definito il mobbing come quella pratica vessatoria posta in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro (Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 8438/04).

Elementi identificatori di questo fenomeno, dilagante soprattutto fra le lavoratrici femminili (il 52% dei mobbizzati secondo i dati Ispesl), possono essere la reiterazione delle condotte per un periodo di tempo apprezzabile (almeno 6 mesi), visite mediche fiscali continue, attribuzione di note di qualifica di insufficiente o anche la semplice privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 4774/06).

    All’interno del vasto panorama caratterizzante il mobbing è inoltre possibile distingue tra: mobbing verticale (o bossing) quando le condotte lesive sono poste in essere dal datore di lavoro; mobbing orizzontale quando le condotte sono poste in essere da colleghi del lavoratore; mobbing ascendete quando le condotte sono poste in essere da personale sottosposto al lavoratore; mobbing individuale qualora le condotte sono rivolte nei confronti di un unico soggetto; ed infine mobbing collettivo allorquando le condotte abbiano ad oggetto un gruppo di lavoratori.

    Appare altresì importante evidenziare che il mobbing va comunque distinto da altri comportamenti discriminatori posti in essere sul luogo di lavoro quali, ad esempio, le molestie sessuali o il demansionamento. Comportamenti, questi ultimi, che possono essere ricompresi tra le condotte mobbizzanti ma non le esauriscono. (Tribunale di Ivrea, sentenza 17/11/2005, sentenza n. 94).

2. Come si prova il danno da “mobbing”?

    Ma quando ci si trovi ad essere vittime di mobbing quali prove deve allegare il mobbizzato a sostegno della propria pretesa?

A questa domanda ha risposto, ancora una volta, la Corte di Cassazione.

Il Supremo Collegio ha difatti stabilito che il lavoratore che lamenti di aver subito comportamenti mobbizzanti e che intenda chiedere in giudizio il risarcimento del danno è gravato dall’onere di dare la prova delle condotte realizzate in suo danno, del danno patrimoniale o esistenziale subito, dell’eventuale incidenza di tale danno sulla sua integrità psico-fisica.

    Ed invero il Supremo Collegio, trattando il tema dell’onere probatorio a carico del lavoratore, ha stabilito che: “In tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi”. (Cassazione civile, sezione lavoro, 29/09/2005, sentenza n. 19053).

    In riferimento invece all’onere probatorio gravante in capo al datore di lavoro, la stessa Corte di Cassazione, in altro giudizio, ha sancito che: “Posta la natura contrattuale della responsabilità da "mobbing", non assolve l’onere della prova liberatoria il datore di lavoro che si limiti ad allegare di aver deferito al collegio dei probiviri l’autore dei fatti mobbizzanti”. (Cassazione civile, sezione lavoro, 25/05/2006, sentenza n. 12445).

Ai fini probatori è inoltre importante sottolineare che, in materia di mobbing, non assume rilievo l’elemento psicologico (l’intenzionalità) del mobber con riferimento alle singole condotte, ma occorre piuttosto provare di aver subito un complesso dei comportamenti tali da dar vita nell’insieme ad un’azione effettivamente mobbizzante.

    Per di più la configurazione della responsabilità del datore di lavoro come responsabilità di tipo contrattuale consente di porre a carico del mobbizzato solo l’onere di provare gli episodi mobbizzanti, cioè la reiterazione degli stessi, il loro carattere pretestuoso, la circostanza che gli stessi appaiano complessivamente finalizzati a danneggiarlo, nonchè la prova del collegamento (nesso causale) tra tali condotte e il danno subito, danno che naturalmente deve poterne costituire una conseguenza immediata e diretta. Pertanto, una volta fornite queste prove, l’esistenza del pregiudizio all’integrità psico-fisica, viene ricavata presuntivamente, giacchè si ritiene che a tale tipo di condotte consegua automaticamente un danno.

    Il datore di lavoro, per converso, deve vincere la presunzione di colpa esistente in suo danno, provando che le condotte indicate dal lavoratore non possono essere qualificate come mobbizzanti, che per ciascuna di esse esiste una valida spiegazione e che le stesse non sono finalisticamente collegate tra loro.

    Nel caso in cui le condotte mobbizzanti siano poste in essere dai dipendenti del datore di lavoro nei confronti dei colleghi, il datore di lavoro risponde “se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”. Data la difficoltà di fornire una simile prova, in questi casi quella del datore di lavoro appare una forma di responsabilità oggettiva.

3. Qual’è il tipo di responsabilità configurabile in caso di “mobbing”?

    La responsabilità dell’autore del mobbing, generalmente il datore di lavoro, è di norma ricondotta alla violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 del Codice civile. In virtù di tale disposizione, l’imprenditore è difatti tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro. Si tratta, dunque, in questo caso, di una responsabilità di tipo contrattuale.

    L’identificazione della natura della responsabilità del datore di lavoro diviene però più complessa quando le condotte mobbizzanti siano poste in essere non direttamente dal datore di lavoro bensì da suoi sottoposti, come ad esempio gli stessi colleghi del mobbizzato.

    Infatti, soprattutto con riferimento a strutture complesse, quali aziende di grandi dimensioni, è apparso discutibile configurare una responsabilità in capo al datore di lavoro per condotte riferibili a soggetti diversi. Tuttavia, la giurisprudenza sembra orientata nel senso di ricondurre, anche in questi casi, la responsabilità del datore di lavoro alla violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 o comunque all’art.1228, in virtù dei quali il debitore (datore di lavoro) è responsabile anche dei fatti dolosi o colposi dei terzi di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione. (Cassazione civile, sezione lavoro, 25/05/2006, sentenza n.12445).  Esulano comunque dalla responsabilità del datore di lavoro le semplici quanto frequenti “liti” tra dipendenti.

    Inoltre, mentre il datore di lavoro risponde a titolo contrattuale, il prestatore di lavoro che ponga in essere condotte mobbizzanti risponde personalmente e direttamente nei confronti del soggetto mobbizzato, anche se, naturalmente, in via extracontrattuale.

    Ad ogni modo, nei casi in cui le condotte poste in essere da colleghi o superiori del mobbizzato non siano parte di un disegno preordinato dal datore di lavoro per danneggiarlo, ma siano frutto di autonome iniziative di tali soggetti, al datore di lavoro è comunque concessa la facoltà di rivalersi nei confronti di chi ha posto in essere le condotte mobbizzanti sia per i danni che venga condannato a rifondere al lavoratore sia per eventuali altri danni subiti dall’impresa.

4. Quali sono i danni da “mobbing” risarcibili?

    Le conseguenze del mobbing sul lavoratore che ne sia soggetto passivo sono da ritenersi differenti per caratteristiche e gravità.

I danni da mobbing vanno, infatti, dalle lesioni più gravi al sistema nervoso centrale, tali da apportare profondi ed irreparabili perturbamenti alle funzioni più necessarie alla vita organica e sociale, a psico-nevrosi di media entità, fino a sindromi nevrosiche lievi, ma persistenti.

    Tali danni, per giurisprudenza oramai unanime, sono da ritenersi risarcibili sotto il profilo della menomazione all’integrità psico-fisica del lavoratore, del danno alla salute, del danno alla professionalità e del danno esistenziale. Tipologie di danno tutte risarcibili, sia sul piano patrimoniale che su quello non patrimoniale, in quanto effetto di un’attività tale da arrecare una “lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro”.

    In particolare, quanto al danno patrimoniale, si tratta delle conseguenze del comportamento mobbizzante che incidono sul patrimonio del soggetto leso sia in termini di danno emergente (rimborso di tutte le spese e dei costi da sopportare per eventuali cure o assistenza) che di lucro cessante (danno da perdita di occasioni di guadagno o di altre occasioni utili).

    Quanto al danno non patrimoniale si fa invece riferimento specificatamente al danno all’integrità psico-fisica tale da pregiudicare l’equilibrio personale professionale del lavoratore. E’ quindi ravvisabile la configurabilità di tale tipologia di danno, ad esempio, in presenza di situazioni di elevato stress, che sono causa di malattia o di aggravamento di stati patologici già in atto. (Tribunale di Agrigento, sentenza del 1/02/2005 ). Il danno morale, in sostanza, riguarda tutte quelle sofferenze psichiche derivanti dall’illecito.

    La giurisprudenza di legittimità ha inoltre chiarito che tale voce di danno è risarcibile, non solo quando non solo la fattispecie integri gli estremi di un reato, ma ogni qual volta vengono lesi i diritti inviolabili della persona. Alla stregua di questa ricostruzione è pertanto risarcibile sia il “danno morale soggettivo,” inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico; sia infine il danno “esistenziale” derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. (Cassazione, sezione civile, 22.2.2002, sentenza n. 4129; Cassazione, sezione civile, 12 maggio 2003, sentenze nn. 7281 e 7282).

    Nel Settembre del 2006 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità anche del cd. “danno alla professionalità” in favore di un dirigente, in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale, totalmente e repentinamente privato di qualsiasi mansione e costretto per mesi ad una forzata inattività. Nella stessa occasione la Corte ha però escluso la risarcibilità di altre voci di danno, "quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere provate”. (Cassazione, sezione civile, sentenza n. 20616/2006).

5. Il “mobbing” rappresenta una condotta penalmente rilevante?

    Dopo parecchi dubbi e nessuna certezza circa la rilevanza penale del “mobbing”, la Corte di Cassazione ha recentissimamente stabilito (Agosto 2007) che il mobbing non costituisce un fatto penalmente rilevante e, quindi, punibile secondo la legge penale, stante “la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al Codice penale questa tipicizzazione” (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 33624/2007).

    Aggiunge inoltre la Corte: “La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.

    La stessa sentenza riconosce comunque che “la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall’art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione. [...] Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l’ipotesi dell’aggravante specifica della citata disposizione, si richieda l’individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti”.

    Parafrasando quanto deciso dalla Corte di Cassazione sembrerebbe pertanto che per la Corte di Cassazione la condotta di mobbing non possa essere considerata come penalmente sanzionabile non tanto perchè priva di disvalore sociale o perchè legittima (basti in tal senso vedere la copiosa giurisprudenza, soprattutto delle Sezioni civili della stessa Corte, in merito all’illegittimità della condotta di mobbing), ma bensì in quanto il mobbing rappresenterebbe una condotta non prevista (o meglio tipicizzata) come reato dal Codice penale italiano e, quindi, non punibile penalmente secondo il dettato dell’art. 1 del Codice penale (“nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”).

T    ale recentissima sentenza, oltre ad avere una sua indiscutibile rilevanza sul piano strettamente giuridico, assume altresì i toni di un vero e proprio “invito” rivolto al Legislatore italiano avente lo scopo di sollecitare quest’ultimo nella modifica del vigente Codice penale nel senso della previsione, in maniera espressa, del mobbing come specifica fattispecie di reato, in linea peraltro con quanto prescritto della delibera del Consiglio d’Europa del 2000 che ha imposto a tutti gli Stati membri di dotarsi di una disciplina nazionale antimobbing.

6. Quali sono le categorie a maggiore rischio di “mobbizzazione”?

    Ed infine, quali sono i lavoratori a più alto rischio di mobbing?

Inaspettatamente, è proprio nel pubblico impiego che il mobbing sembra affermarsi con sempre maggiore decisione. In particolare la categoria più esposta risulta essere quella degli impiegati pubblici con ben il 79% di lavoratori mobbizzati.

    Il ripetersi di episodi di mobbing nell’ambito delle Pubbliche amministrazioni ha difatti assunto dimensioni tali da richiedere l’intervento diretto della stessa Pubblica Amministrazione attraverso la costituzione di comitati paritetici e la previsione di sanzioni disciplinari finanche alla revoca dall’incarico nei confronti del pubblico dipendente riconosciuto colpevole di pratiche mobbizzanti.

    Ma accanto agli impiegati pubblici, fra i soggetti a più alto rischio di mobbing vi sarebbero, sulla base di recenti studi, anche gli operai. Non più quadri e dirigenti, bensì addetti alle mansioni più semplici. Sarebbero loro le vittime preferite degli abusi psicologici in azienda che costano al datore di lavoro fino al 70% del calo della produttività del lavoratore mobbizzato.

    Un dato appare in conclusione confortante: anche se l’Italia è un Paese a forte tasso di mobbing (il 4%), la percentuale di mobbizzati italiani è ben al di sotto di quella di altri Paesi europei (Inghilterra 16%, Svezia 10%, Francia 9%, Germania 7%).

    Il dato allarmante è però un altro: nonostante il sempre più massiccio intervento delle Corti italiane, il grado di “ignoranza sociale” dei rischi collegati al mobbing è ancora troppo alto come peraltro dimostrato dall’esponenziale crescita di tale fenomeno nel nostro Paese.

E’ perciò quanto mai necessario un potenziamento delle strutture volte all’informazione sui rischi e sui danni riconnessi al mobbing, prima che sia troppo tardi.

                                                                                                Dott. Francesco Salamone

                                                                                        Praticante Avvocato del Foro di Roma