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La tutela dell’immagine di marca contro free-riders, look-alike e parassitismo

[Intervento tenuto al convegno "Marchi, marketing pubblicità" - Università di Parma, Venerdì 26 ottobre 2007]

Sul piano economico, il marchio è oggi lo strumento fondamentale della comunicazione d’impresa, poiché viene utilizzato (e valorizzato) non soltanto per informare il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato da una determinata impresa e quindi dell’esistenza di un’esclusiva di quest’impresa sull’uso di esso in un determinato settore (la tradizionale “funzione di indicazione di provenienza” del marchio), ma anche come simbolo di tutte le altre componenti del “messaggio” che il pubblico ricollega, appunto attraverso il marchio, ai prodotti o ai servizi per i quali esso viene utilizzato: messaggio che comprende sia i dati che i consumatori hanno desunto dall’esame e dall’uso (diretto o indiretto) di questi prodotti o servizi; sia – e soprattutto – le informazioni e le suggestioni diffuse direttamente dall’imprenditore attraverso la pubblicità.

È su queste ultime componenti del “messaggio” collegato al marchio, ed in particolare sulla capacità di esso di evocare immagini gratificanti per l’acquirente del prodotto o del servizio contraddistinto, che oggi maggiormente si concentra il valore di mercato, in termini di c.d. selling power (potere di vendita), dei marchi più famosi – per i quali gli economisti preferiscono parlare di “marche” –, in quanto grazie a questa capacità evocativa essi aggiungono al prodotto un valore aggiunto rilevante per il pubblico. Per i consumatori, anzi, acquistare prodotti o servizi contraddistinti da un marchio che, oltre ad assolvere una funzione di identificazione, assume anche un valore simbolico, rappresenta spesso una forma di “investment in reputation capital”, perché usando (e sfoggiando) questi prodotti o servizi e i loro marchi essi comunicano all’esterno una certa immagine di se stessi, coerente con lo “stile” collegato a questi marchi. La critica ideologica che viene spesso rivolta ai marchi, muovendo dall’assunto che, quando le componenti di immagine ricollegate ai marchi famosi fanno aggio sulle qualità intrinseche del prodotto, i consumatori sono indotti ad acquistare a più caro prezzo prodotti che nella sostanza sono del tutto equivalenti ad altri più economici (o addirittura peggiori di essi), sembra dunque superabile sulla base del riconoscimento del valore che nell’odierna realtà di mercato anche queste componenti di immagine possono assumere per i consumatori, e correlativamente del fatto che il successo o l’insuccesso di un prodotto, e quindi anche dei prodotti “di marca”, alla fine dipende comunque dalle scelte del mercato, ossia dei consumatori.

A questa evoluzione del marchio nella pratica economica ha fatto riscontro, anche nel nostro ordinamento, un’evoluzione normativa, per effetto della quale si è giunti al riconoscimento legislativo del ruolo svolto dal marchio come strumento di comunicazione, e quindi alla protezione del marchio contro ogni sfruttamento parassitario, sia che questo si verifichi nella forma del pericolo di confusione, sia che avvenga in quella dell’agganciamento, e cioè contro tutte le utilizzazioni di segni eguali o simili che comportino l’appropriazione non autorizzata di quella sorta di “economia esterna” del marchio che è legata al “messaggio” in esso incorporato: riconoscimento al quale fa da contraltare un’articolata posizione di responsabilità in ordine alle informazioni e agli altri elementi di tale messaggio percepiti dal pubblico come collegati a quel marchio, che viene posta a carico del titolare di esso, il quale deve garantire la conformità a questo messaggio dei prodotti o servizi contrassegnati dal marchio (si parla a questo riguardo di “statuto di non decettività” del marchio e nella dottrina anglosassone di “consumer trademark”).

Per affrontare i problemi giuridici attinenti alla protezione del marchio, ed in particolare per contrastare efficacemente i “nuovi” fenomeni di contraffazione, legati non più alla confondibilità (che almeno per i marchi più famosi, e quindi più imitati, è un fenomeno ormai eccezionale, se non nella forma dell’agganciamento), quanto piuttosto all’indebito sfruttamento dell’immagine di marca, costruita dal titolare spesso a prezzo di considerevoli investimenti, è dunque oggi più che mai necessaria un’integrazione di competenze e professionalità diverse – giuristi, consulenti in proprietà industriale, economisti, esperti di marketing –, che muova dalla considerazione di ciò che concretamente il marchio rappresenta, o meglio comunica, sul mercato.

Esattamente in questa direzione si muove del resto la giurisprudenza comunitaria in materia di segni distintivi, che insegna a valorizzare tutti gli elementi della fattispecie concreta che possono influire sull’effettiva percezione dei marchi da parte del pubblico di riferimento, scartando tutti i criteri “astratti” che erano seguiti dalle singole giurisprudenze nazionali così per la valutazione della confondibilità, come per l’accertamento della rinomanza e per quello della capacità distintiva del segno.

Emblematica di questo approccio è la sentenza del Tribunale di Primo Grado C.E. (poi confermata dalla Corte di Giustizia) nel caso Picasso/Picaro (Trib. C.E. 22 giugno 2004 nel procedimento T-185/02, poi confermata da C. Giust. C.E., 12 gennaio 2006, nel procedimento C-361/04 P, in Giur. it., 2006, p. 1187 e ss.), dove i Giudici comunitari hanno escluso che il cognome del pittore Pablo Picasso, registrato e utilizzato, col consenso dei suoi eredi, come marchio di automobili, potesse privare di novità un segno simile (Picaro), registrato sempre per automobili, in quanto hanno ritenuto che la grande notorietà del segno anteriore – notorietà che, secondo i criteri abitualmente seguiti anche dalla nostra giurisprudenza interna, dovrebbe invece conferire al marchio una tutela più forte e più estesa – induce in realtà il pubblico a evitare di confondersi, quando il segno del preteso imitatore non sia identico; ma non meno significativa è la sentenza della Corte di Giustizia C.E. che ha ritenuto non conforme al diritto comunitario l’orientamento della giurisprudenza tedesca in base al quale si dovrebbe escludere a priori la confondibilità tra due segni quando il secondo di essi comprenda bensì il marchio anteriore, ma lo abbia inserito in un segno più complesso nel quale esso non assume valore dominante, ed ha invece affermato che anche in questo caso il pericolo di confusione va valutato in concreto, caso per caso (Corte Giust. C.E., 6 ottobre 2005, nel procedimento C-120/04, “Thomson”). Allo stesso modo, la Corte di Giustizia ha escluso che la rinomanza del marchio possa essere accertata sulla base di indici astratti, come la conoscenza del segno da parte di una percentuale determinata del pubblico ed ha invece ritenuto che la rinomanza sussista ogni qual volta il marchio sia «conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi da esso contraddistinti» (Corte Giust. C.E., 14 settembre 1999, in causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind, 1999), così rendendo evidente che questa protezione, lungi dall’essere l’eccezionale attributo di pochi marchi celeberrimi, riguarda potenzialmente tutti i segni che siano usati in modo effettivo sul mercato, e che il vero limite per l’applicazione della norma è segnato dall’esistenza di un approfittamento o un pregiudizio: il che comporta anche come corollario che il rapporto regola-eccezione tra la tutela contro l’imitazione confusoria e quella contro l’imitazione non confusoria non è più attuale, e che quindi le situazioni in cui si verifica una confondibilità devono essere intese piuttosto come casi particolari di uso idoneo a determinare un approfittamento parassitario della notorietà e capacità distintiva del marchio ovvero ad arrecare ad esse un pregiudizio. La Corte di Giustizia C.E., anzi, sembra richiedere che l’uso del terzo interferisca concretamente con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 5, comma 1° della Direttiva n. 89/104/C.E.E., affermando (discutibilmente, in questo caso, data la formulazione della norma) che l’uso di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici è vietato «solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del detto marchio e in particolare la sua funzione essenziale, che è di garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi» (Corte Giust. C.E., 14 settembre 1999, in causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind, 1999).

La stessa impostazione è stata del resto seguita in materia di capacità distintiva, tema sul quale la giurisprudenza comunitaria si è particolarmente soffermata, verificando anche in positivo la sussistenza del requisito della capacità distintiva, anziché considerarlo soltanto in negativo, in relazione ai divieti di registrazione dei segni di uso comune e di quelli costituiti esclusivamente dalla denominazione generica del prodotto o servizio per cui il marchio è registrato o da un’indicazione descrittiva ad essi relativa, come era tradizionale nella giurisprudenza e nella dottrina italiane; questa verifica è a sua volta effettuata sulla base dell’idoneità della realtà che forma oggetto del marchio ad essere percepita anzitutto come “segno” (art. 2 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. e art. 4 del Regolamento sul marchio comunitario), ovvero come portatrice di un significato, venendo così idealmente a scinderlo dal prodotto o servizio contrassegnato; e poi come portatrice di un significato che sia appunto “distintivo”, ossia ad essere percepita come l’indicatore (anche) dell’esistenza di un’esclusiva sull’uso di esso in un determinato settore e quindi del fatto che in quel settore vi è un solo soggetto che può usarlo, ovvero autorizzare altri ad usarlo e che assume la responsabilità per le caratteristiche dei prodotti o dei servizi da esso contrassegnati (cfr. ad esempio Corte Giust. C.E., 7 ottobre 2004, nel procedimento C-136/02 P, “Mag”, in materia di forme, e Corte Giust. C.E., 6 maggio 2003, nel procedimento C-104/01, “Libertel”, in materia di colori).

Anche nella nostra giurisprudenza più recente ci si sta in effetti muovendo in questa direzione. Emblematiche di questa impostazione, che valorizza le diverse componenti del “messaggio” di cui il marchio è in concreto portatore sul mercato e la percezione che il pubblico ha dei segni in conflitto, sono alcuni recenti provvedimenti resi in sede cautelare – ma nondimeno sorretti da motivazioni ampie ed articolate – ad opera della Sezione Specializzata in Proprietà Industriale e Intellettuale del Tribunale di Milano, e dei quali ha avuto modo di occuparsi anche la stampa economica, proprio per il loro valore di leading cases in questa materia.

Nel primo caso il 17 gennaio 2006, a soli tre giorni dalla presentazione del ricorso, i Giudici milanesi hanno emesso inaudita altera parte un decreto (poi confermato con ordinanza non reclamata e divenuta definitiva), con il quale hanno tutelato la forma di un prodotto contro una copia identica di esso realizzata in Cina, nonostante questa forma non fosse registrata né come marchio, né come design. Il Tribunale ha infatti ritenuto che la copia identica di un prodotto noto sul mercato, anche non registrato né come marchio, né come design, può essere considerata illecita, sia come contraffazione di un «segno distintivo di fatto», vietata dal Codice della Proprietà Industriale, sia come atto di concorrenza sleale, quest’ultimo non soltanto sotto il profilo dell’imitazione servile (che postula la sussistenza di un pericolo di confusione), ma anche sotto quello dell’appropriazione di pregi, e cioè dell’agganciamento parassitario alla notorietà del prodotto imitato e all’immagine commerciale del produttore di esso. Come tale, questa pronuncia segna un decisivo progresso nel rafforzamento della protezione dei nostri prodotti contro le imitazioni provenienti dall’Estremo Oriente, oggi molto spesso realizzate «a ricalco» attraverso metodi di digitalizzazione del prodotto originale effettuati utilizzando un «tastatore» elettronico o un sistema al laser (come era avvenuto anche nel caso concretamente deciso dai Giudici milanesi), che consentono di risparmiare così anche i costi (tutt’altro che trascurabili) per la progettazione degli stampi.

Pochi mesi prima e precisamente il 28 ottobre 2005, lo stesso Tribunale di Milano aveva disposto il sequestro e l’inibitoria e ordinato il ritiro dal commercio di una pubblicazione (un calendario), sulla quale era stato riprodotto senza autorizzazione uno dei più famosi marchi italiani nel settore dei luxury goods. Il Tribunale ha infatti ritenuto che qualsiasi uso nell’attività economica di un altrui marchio rinomato, che sia idoneo a determinare un pericolo di confusione oppure un approfittamento della rinomanza del marchio (o un pregiudizio per questa rinomanza) costituisce contraffazione. Anche questa pronuncia segna dunque un importante rafforzamento nella protezione dei marchi rinomati, perché considera illecite e reprime tutte le iniziative parassitarie fondate sull’uso di segni eguali o simili a questi marchi, anche quando il segno dell’imitatore non è usato come marchio del prodotto sul quale compare, ma costituisce un semplice elemento decorativo o attrattivo di questo prodotto. Ancora più importanti sono le misure concretamente adottate. Il Tribunale ha infatti sequestrato i prodotti del contraffattore; ha disposto l’inibitoria provvisoria della produzione e commercializzazione dei prodotti in questione e più in generale dell’uso del marchio contraffatto nell’attività economica; ed ha ordinato al distributore di essi il ritiro dal commercio degli esemplari già distribuiti, imponendogli di farseli restituire dai rivenditori ed anzi rafforzando quest’ordine con la comminatoria di una penale in caso di inadempimento, così anticipando, sulla base dell’art. 700 c.p.c., la previsione espressa dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti realizzati in violazione di un diritto di proprietà industriale come misura tipica a tutela dei diritti di proprietà industriale poi introdotta nel Codice della Proprietà Industriale, in attuazione della Direttiva comunitaria n. 48/2004.

Recentissimamente, poi, in un’ordinanza resa il 27 agosto di quest’anno, sempre il Tribunale di Milano, occupandosi della contraffazione di uno dei più famosi marchi italiani nel settore del beachwear (“Pin Up Star”) da parte di un produttore di abbigliamento casual che utilizzava un segno simile, che però non comprendeva tutto il “cuore” del marchio, ha scartato i metodi più formalistici per l’accertamento del pericolo di confusione, che poggiano su considerazioni di carattere astratto e generale (l’identificazione del cuore del segno, l’identità o la diversità sul piano concettuale, la più o meno stretta affinità merceologica dei prodotti contrassegnati), per puntare direttamente sulla percezione del segno da parte del pubblico, secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia europea. In questo caso, ha così assunto particolare rilievo il fatto che i due segni fossero usati nel settore della moda, dove è frequente il lancio di “secondo linee” di marchi famosi, contraddistinte da marchi che riprendono solo una parte degli elementi caratterizzanti del segno principale: e l’ordinanza ha ritenuto rilevante il pericolo di confusione anche sotto il profilo dell’“agganciamento”, vale a dire del richiamo al marchio famoso che l’uso di un segno da esso non sufficientemente differenziato determina.

Appare perciò chiaro, che l’approccio fortemente market oriented del diritto dei segni distintivi, ed in particolare delle norme di origine comunitaria, non lascia che uno spazio limitatissimo per una tutela “astratta” di questi segni, il cui ambito di tutela è segnato piuttosto dalla concreta interferenza sul mercato con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio, e oggi in particolare con la sua “nuova” funzione di portatore di un messaggio, o di strumento di comunicazione.

In questa prospettiva si comprende bene come le norme in materia di segni distintivi formino sempre più un unico sistema con quelle in materia di pubblicità ingannevole – anche queste, non a caso di origine comunitaria –, e per certi versi anche con quelle di poco precedenti in materia di responsabilità del produttore per prodotti difettosi, egualmente derivanti da una Direttiva: così integrando diritto dei segni distintivi e diritto della pubblicità in quello che potremmo chiamare il nuovo diritto della comunicazione d’impresa sul mercato.

[Intervento tenuto al convegno "Marchi, marketing pubblicità" - Università di Parma, Venerdì 26 ottobre 2007]

Sul piano economico, il marchio è oggi lo strumento fondamentale della comunicazione d’impresa, poiché viene utilizzato (e valorizzato) non soltanto per informare il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato da una determinata impresa e quindi dell’esistenza di un’esclusiva di quest’impresa sull’uso di esso in un determinato settore (la tradizionale “funzione di indicazione di provenienza” del marchio), ma anche come simbolo di tutte le altre componenti del “messaggio” che il pubblico ricollega, appunto attraverso il marchio, ai prodotti o ai servizi per i quali esso viene utilizzato: messaggio che comprende sia i dati che i consumatori hanno desunto dall’esame e dall’uso (diretto o indiretto) di questi prodotti o servizi; sia – e soprattutto – le informazioni e le suggestioni diffuse direttamente dall’imprenditore attraverso la pubblicità.

È su queste ultime componenti del “messaggio” collegato al marchio, ed in particolare sulla capacità di esso di evocare immagini gratificanti per l’acquirente del prodotto o del servizio contraddistinto, che oggi maggiormente si concentra il valore di mercato, in termini di c.d. selling power (potere di vendita), dei marchi più famosi – per i quali gli economisti preferiscono parlare di “marche” –, in quanto grazie a questa capacità evocativa essi aggiungono al prodotto un valore aggiunto rilevante per il pubblico. Per i consumatori, anzi, acquistare prodotti o servizi contraddistinti da un marchio che, oltre ad assolvere una funzione di identificazione, assume anche un valore simbolico, rappresenta spesso una forma di “investment in reputation capital”, perché usando (e sfoggiando) questi prodotti o servizi e i loro marchi essi comunicano all’esterno una certa immagine di se stessi, coerente con lo “stile” collegato a questi marchi. La critica ideologica che viene spesso rivolta ai marchi, muovendo dall’assunto che, quando le componenti di immagine ricollegate ai marchi famosi fanno aggio sulle qualità intrinseche del prodotto, i consumatori sono indotti ad acquistare a più caro prezzo prodotti che nella sostanza sono del tutto equivalenti ad altri più economici (o addirittura peggiori di essi), sembra dunque superabile sulla base del riconoscimento del valore che nell’odierna realtà di mercato anche queste componenti di immagine possono assumere per i consumatori, e correlativamente del fatto che il successo o l’insuccesso di un prodotto, e quindi anche dei prodotti “di marca”, alla fine dipende comunque dalle scelte del mercato, ossia dei consumatori.

A questa evoluzione del marchio nella pratica economica ha fatto riscontro, anche nel nostro ordinamento, un’evoluzione normativa, per effetto della quale si è giunti al riconoscimento legislativo del ruolo svolto dal marchio come strumento di comunicazione, e quindi alla protezione del marchio contro ogni sfruttamento parassitario, sia che questo si verifichi nella forma del pericolo di confusione, sia che avvenga in quella dell’agganciamento, e cioè contro tutte le utilizzazioni di segni eguali o simili che comportino l’appropriazione non autorizzata di quella sorta di “economia esterna” del marchio che è legata al “messaggio” in esso incorporato: riconoscimento al quale fa da contraltare un’articolata posizione di responsabilità in ordine alle informazioni e agli altri elementi di tale messaggio percepiti dal pubblico come collegati a quel marchio, che viene posta a carico del titolare di esso, il quale deve garantire la conformità a questo messaggio dei prodotti o servizi contrassegnati dal marchio (si parla a questo riguardo di “statuto di non decettività” del marchio e nella dottrina anglosassone di “consumer trademark”).

Per affrontare i problemi giuridici attinenti alla protezione del marchio, ed in particolare per contrastare efficacemente i “nuovi” fenomeni di contraffazione, legati non più alla confondibilità (che almeno per i marchi più famosi, e quindi più imitati, è un fenomeno ormai eccezionale, se non nella forma dell’agganciamento), quanto piuttosto all’indebito sfruttamento dell’immagine di marca, costruita dal titolare spesso a prezzo di considerevoli investimenti, è dunque oggi più che mai necessaria un’integrazione di competenze e professionalità diverse – giuristi, consulenti in proprietà industriale, economisti, esperti di marketing –, che muova dalla considerazione di ciò che concretamente il marchio rappresenta, o meglio comunica, sul mercato.

Esattamente in questa direzione si muove del resto la giurisprudenza comunitaria in materia di segni distintivi, che insegna a valorizzare tutti gli elementi della fattispecie concreta che possono influire sull’effettiva percezione dei marchi da parte del pubblico di riferimento, scartando tutti i criteri “astratti” che erano seguiti dalle singole giurisprudenze nazionali così per la valutazione della confondibilità, come per l’accertamento della rinomanza e per quello della capacità distintiva del segno.

Emblematica di questo approccio è la sentenza del Tribunale di Primo Grado C.E. (poi confermata dalla Corte di Giustizia) nel caso Picasso/Picaro (Trib. C.E. 22 giugno 2004 nel procedimento T-185/02, poi confermata da C. Giust. C.E., 12 gennaio 2006, nel procedimento C-361/04 P, in Giur. it., 2006, p. 1187 e ss.), dove i Giudici comunitari hanno escluso che il cognome del pittore Pablo Picasso, registrato e utilizzato, col consenso dei suoi eredi, come marchio di automobili, potesse privare di novità un segno simile (Picaro), registrato sempre per automobili, in quanto hanno ritenuto che la grande notorietà del segno anteriore – notorietà che, secondo i criteri abitualmente seguiti anche dalla nostra giurisprudenza interna, dovrebbe invece conferire al marchio una tutela più forte e più estesa – induce in realtà il pubblico a evitare di confondersi, quando il segno del preteso imitatore non sia identico; ma non meno significativa è la sentenza della Corte di Giustizia C.E. che ha ritenuto non conforme al diritto comunitario l’orientamento della giurisprudenza tedesca in base al quale si dovrebbe escludere a priori la confondibilità tra due segni quando il secondo di essi comprenda bensì il marchio anteriore, ma lo abbia inserito in un segno più complesso nel quale esso non assume valore dominante, ed ha invece affermato che anche in questo caso il pericolo di confusione va valutato in concreto, caso per caso (Corte Giust. C.E., 6 ottobre 2005, nel procedimento C-120/04, “Thomson”). Allo stesso modo, la Corte di Giustizia ha escluso che la rinomanza del marchio possa essere accertata sulla base di indici astratti, come la conoscenza del segno da parte di una percentuale determinata del pubblico ed ha invece ritenuto che la rinomanza sussista ogni qual volta il marchio sia «conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi da esso contraddistinti» (Corte Giust. C.E., 14 settembre 1999, in causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind, 1999), così rendendo evidente che questa protezione, lungi dall’essere l’eccezionale attributo di pochi marchi celeberrimi, riguarda potenzialmente tutti i segni che siano usati in modo effettivo sul mercato, e che il vero limite per l’applicazione della norma è segnato dall’esistenza di un approfittamento o un pregiudizio: il che comporta anche come corollario che il rapporto regola-eccezione tra la tutela contro l’imitazione confusoria e quella contro l’imitazione non confusoria non è più attuale, e che quindi le situazioni in cui si verifica una confondibilità devono essere intese piuttosto come casi particolari di uso idoneo a determinare un approfittamento parassitario della notorietà e capacità distintiva del marchio ovvero ad arrecare ad esse un pregiudizio. La Corte di Giustizia C.E., anzi, sembra richiedere che l’uso del terzo interferisca concretamente con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 5, comma 1° della Direttiva n. 89/104/C.E.E., affermando (discutibilmente, in questo caso, data la formulazione della norma) che l’uso di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici è vietato «solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del detto marchio e in particolare la sua funzione essenziale, che è di garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi» (Corte Giust. C.E., 14 settembre 1999, in causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind, 1999).

La stessa impostazione è stata del resto seguita in materia di capacità distintiva, tema sul quale la giurisprudenza comunitaria si è particolarmente soffermata, verificando anche in positivo la sussistenza del requisito della capacità distintiva, anziché considerarlo soltanto in negativo, in relazione ai divieti di registrazione dei segni di uso comune e di quelli costituiti esclusivamente dalla denominazione generica del prodotto o servizio per cui il marchio è registrato o da un’indicazione descrittiva ad essi relativa, come era tradizionale nella giurisprudenza e nella dottrina italiane; questa verifica è a sua volta effettuata sulla base dell’idoneità della realtà che forma oggetto del marchio ad essere percepita anzitutto come “segno” (art. 2 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. e art. 4 del Regolamento sul marchio comunitario), ovvero come portatrice di un significato, venendo così idealmente a scinderlo dal prodotto o servizio contrassegnato; e poi come portatrice di un significato che sia appunto “distintivo”, ossia ad essere percepita come l’indicatore (anche) dell’esistenza di un’esclusiva sull’uso di esso in un determinato settore e quindi del fatto che in quel settore vi è un solo soggetto che può usarlo, ovvero autorizzare altri ad usarlo e che assume la responsabilità per le caratteristiche dei prodotti o dei servizi da esso contrassegnati (cfr. ad esempio Corte Giust. C.E., 7 ottobre 2004, nel procedimento C-136/02 P, “Mag”, in materia di forme, e Corte Giust. C.E., 6 maggio 2003, nel procedimento C-104/01, “Libertel”, in materia di colori).

Anche nella nostra giurisprudenza più recente ci si sta in effetti muovendo in questa direzione. Emblematiche di questa impostazione, che valorizza le diverse componenti del “messaggio” di cui il marchio è in concreto portatore sul mercato e la percezione che il pubblico ha dei segni in conflitto, sono alcuni recenti provvedimenti resi in sede cautelare – ma nondimeno sorretti da motivazioni ampie ed articolate – ad opera della Sezione Specializzata in Proprietà Industriale e Intellettuale del Tribunale di Milano, e dei quali ha avuto modo di occuparsi anche la stampa economica, proprio per il loro valore di leading cases in questa materia.

Nel primo caso il 17 gennaio 2006, a soli tre giorni dalla presentazione del ricorso, i Giudici milanesi hanno emesso inaudita altera parte un decreto (poi confermato con ordinanza non reclamata e divenuta definitiva), con il quale hanno tutelato la forma di un prodotto contro una copia identica di esso realizzata in Cina, nonostante questa forma non fosse registrata né come marchio, né come design. Il Tribunale ha infatti ritenuto che la copia identica di un prodotto noto sul mercato, anche non registrato né come marchio, né come design, può essere considerata illecita, sia come contraffazione di un «segno distintivo di fatto», vietata dal Codice della Proprietà Industriale, sia come atto di concorrenza sleale, quest’ultimo non soltanto sotto il profilo dell’imitazione servile (che postula la sussistenza di un pericolo di confusione), ma anche sotto quello dell’appropriazione di pregi, e cioè dell’agganciamento parassitario alla notorietà del prodotto imitato e all’immagine commerciale del produttore di esso. Come tale, questa pronuncia segna un decisivo progresso nel rafforzamento della protezione dei nostri prodotti contro le imitazioni provenienti dall’Estremo Oriente, oggi molto spesso realizzate «a ricalco» attraverso metodi di digitalizzazione del prodotto originale effettuati utilizzando un «tastatore» elettronico o un sistema al laser (come era avvenuto anche nel caso concretamente deciso dai Giudici milanesi), che consentono di risparmiare così anche i costi (tutt’altro che trascurabili) per la progettazione degli stampi.

Pochi mesi prima e precisamente il 28 ottobre 2005, lo stesso Tribunale di Milano aveva disposto il sequestro e l’inibitoria e ordinato il ritiro dal commercio di una pubblicazione (un calendario), sulla quale era stato riprodotto senza autorizzazione uno dei più famosi marchi italiani nel settore dei luxury goods. Il Tribunale ha infatti ritenuto che qualsiasi uso nell’attività economica di un altrui marchio rinomato, che sia idoneo a determinare un pericolo di confusione oppure un approfittamento della rinomanza del marchio (o un pregiudizio per questa rinomanza) costituisce contraffazione. Anche questa pronuncia segna dunque un importante rafforzamento nella protezione dei marchi rinomati, perché considera illecite e reprime tutte le iniziative parassitarie fondate sull’uso di segni eguali o simili a questi marchi, anche quando il segno dell’imitatore non è usato come marchio del prodotto sul quale compare, ma costituisce un semplice elemento decorativo o attrattivo di questo prodotto. Ancora più importanti sono le misure concretamente adottate. Il Tribunale ha infatti sequestrato i prodotti del contraffattore; ha disposto l’inibitoria provvisoria della produzione e commercializzazione dei prodotti in questione e più in generale dell’uso del marchio contraffatto nell’attività economica; ed ha ordinato al distributore di essi il ritiro dal commercio degli esemplari già distribuiti, imponendogli di farseli restituire dai rivenditori ed anzi rafforzando quest’ordine con la comminatoria di una penale in caso di inadempimento, così anticipando, sulla base dell’art. 700 c.p.c., la previsione espressa dell’ordine di ritiro dal commercio dei prodotti realizzati in violazione di un diritto di proprietà industriale come misura tipica a tutela dei diritti di proprietà industriale poi introdotta nel Codice della Proprietà Industriale, in attuazione della Direttiva comunitaria n. 48/2004.

Recentissimamente, poi, in un’ordinanza resa il 27 agosto di quest’anno, sempre il Tribunale di Milano, occupandosi della contraffazione di uno dei più famosi marchi italiani nel settore del beachwear (“Pin Up Star”) da parte di un produttore di abbigliamento casual che utilizzava un segno simile, che però non comprendeva tutto il “cuore” del marchio, ha scartato i metodi più formalistici per l’accertamento del pericolo di confusione, che poggiano su considerazioni di carattere astratto e generale (l’identificazione del cuore del segno, l’identità o la diversità sul piano concettuale, la più o meno stretta affinità merceologica dei prodotti contrassegnati), per puntare direttamente sulla percezione del segno da parte del pubblico, secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia europea. In questo caso, ha così assunto particolare rilievo il fatto che i due segni fossero usati nel settore della moda, dove è frequente il lancio di “secondo linee” di marchi famosi, contraddistinte da marchi che riprendono solo una parte degli elementi caratterizzanti del segno principale: e l’ordinanza ha ritenuto rilevante il pericolo di confusione anche sotto il profilo dell’“agganciamento”, vale a dire del richiamo al marchio famoso che l’uso di un segno da esso non sufficientemente differenziato determina.

Appare perciò chiaro, che l’approccio fortemente market oriented del diritto dei segni distintivi, ed in particolare delle norme di origine comunitaria, non lascia che uno spazio limitatissimo per una tutela “astratta” di questi segni, il cui ambito di tutela è segnato piuttosto dalla concreta interferenza sul mercato con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio, e oggi in particolare con la sua “nuova” funzione di portatore di un messaggio, o di strumento di comunicazione.

In questa prospettiva si comprende bene come le norme in materia di segni distintivi formino sempre più un unico sistema con quelle in materia di pubblicità ingannevole – anche queste, non a caso di origine comunitaria –, e per certi versi anche con quelle di poco precedenti in materia di responsabilità del produttore per prodotti difettosi, egualmente derivanti da una Direttiva: così integrando diritto dei segni distintivi e diritto della pubblicità in quello che potremmo chiamare il nuovo diritto della comunicazione d’impresa sul mercato.