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Controversie coi gestori telefonici: istanza cautelare ammessa senza il previo ricorso al tentativo di conciliazione

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 30 novembre 2007, n.403.
Gli utenti del servizio telefonico che intendono instaurare una controversia con l’azienda fornitrice e per fondati motivi temano di subire un pregiudizio imminente ed irreparabile del loro diritto, possono proporre all’Autorità Giudiziaria l’istanza cautelare senza necessariamente esperire il preliminare tentativo di conciliazione.

Questa è, in sostanza, la conclusione cui è pervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n° 403/07 (rel. Prof. Tesauro), depositata il 30/11/07.

Tuttavia, occorre riconoscere che tale esito, in un certo senso, è stato annunciato in numerose pronunce di merito (v. esemplificativamente tra le più recenti, Tribunale Milano, ord. 12/10/06 G.U. dr. Maddaloni; Tribunale Brindisi ord. 18/8/06; Tribunale Napoli sez. dist. Pozzuoli 6/6/07; v anche Tribunale Lamezia Terme 15/3/05 in composizione collegiale avverso il reclamo di un gestore telefonico – Pres. Dr. Garofalo, est. dr. Aragona; adde Tribunale Siracusa, ord. 9/6/05 Pres. Dr. Barbara, est. dr. Artino Innaria; Trib. Rossano ord. 1/4/05, G.U. dr. Sacchi; Trib. Firenze, ord. 4/3/05 G.U. dr. Breggia, in Giur. merito, 2005, p. 2323; Trib. Napoli, ord. 3/2/05 G.U. dr. Criscuolo; Trib. Lamezia Terme, ord. 21/12/04, G.U. dr. Silvestri).

La questione esaminata dalla Consulta è stata sollevata dal Tribunale di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, con ordinanza del 22 settembre 2006.

In particolare, il giudice rimettente assume l’incostituzionalità dell’art. 1 co. 11 della L. 249/97 (Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo), «nella parte in cui esso esclude anche la possibilità di proporre ricorso in sede giurisdizionale di natura cautelare, fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione ivi previsto».

Soggiunge di essere stato adito, nell’àmbito di un procedimento civile promosso nei confronti di Telecom Italia s.p.a., in sede cautelare ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, al fine di ottenere l’attivazione in via d’urgenza di una linea telefonica fissa.

Espone, inoltre, che nel giudizio si è costituita la Telecom Italia s.p.a. la quale ha eccepito, oltre all’assenza dei presupposti specifici di cui all’art. 700 cod. proc. civ., l’«improponibilità e/o improcedibilità» dell’azione ai sensi dell’art. 1, comma 11, della legge n. 249 del 1997, in ragione del mancato espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Nel relativo giudizio le parti hanno dato atto che è cessata la materia del contendere in quanto la linea telefonica è stata allacciata, ma hanno, tuttavia, rispettivamente, chiesto la condanna alle spese di lite, in base al principio della cosiddetta soccombenza virtuale.

Ma, prima di procedere oltre, è opportuno richiamare quanto emerge dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in tema di responsabilità processuale.

Non è possibile la declaratoria di cessazione della materia del contendere quando tra le parti permane contrasto proprio sulla liquidazione delle spese, che si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio per la parte resistente (cfr. Trib. Milano 8722/05; Trib. Ivrea 14/6/01; Trib. Milano 2/6/98; Trib. Ferrara 24/1/97; Trib. Firenze 15/11/94).

In particolare, il giudice, adito ai sensi e nelle forme di cui all’art. 700 cpc, deve operare una valutazione prognostica di come si sarebbe chiuso il processo se non si fosse verificata la causa di cessazione della materia del contendere (cfr. Cass. Sez. Un. 18956/03 – adde Cass. Civ. 21244/06. V. anche Corte Appello Genova, I^ sez. 27/2/06; Trib. Potenza, 5/7/07 rg 869/05) e, quindi, disporre conseguentemente in ordine alle spese e competenze processuali. Di talché, qualora il procedimento cautelare si concluda con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, è ammissibile la condanna del resistente al rimborso delle spese processuali sostenute sul fondamento della c.d. soccombenza tecnica o virtuale o teorica (v. ord. Trib. Milano 2/6/98 – parti Liuzzo c/ Mazzeo – in Giur. It. ’99).

In definitiva, e si completa l’inciso sull’argomento, la parte che ha dato luogo alla situazione controversa dedotta in giudizio, deve reintegrare l’istante nella situazione quo ante ristorandolo anche delle spese occorse per ottenere la tutela giurisdizionale, poiché la necessità di ricorrere e di servirsi del processo non può andare a svantaggio di chi ne ha fatto richiesta.

Ritornando all’esame della sentenza, è opportuno sottolineare che i giudici della Consulta, con eloquente ed approfondita motivazione, ricca di richiami a giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, hanno considerato non fondata la questione nei termini in cui è stata loro sottoposta.

In particolare, hanno affermato che quanto stabilito dall’art. 412-bis del codice di procedura civile, con riferimento alla disciplina delle controversie di lavoro, secondo cui il mancato espletamento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari, deve essere inteso nel senso che «un istituto di generale applicazione in ogni controversia di lavoro (il tentativo obbligatorio di conciliazione) si arresta in presenza di un’istanza cautelare, prevalendo – sulle altre perseguite dal legislatore – le esigenze proprie della tutela cautelare» (sentenza n. 199 del 2003).

In termini più generali, la Corte ha riconosciuto, sia pure incidentalmente, che, per i procedimenti cautelari, «l’esclusione dalla soggezione al tentativo di conciliazione si correla alla stessa strumentalità della giurisdizione cautelare» (sentenza n. 276 del 2000) rispetto alla effettività della tutela dinanzi al giudice ripetutamente ribadita da questa Corte (sentenza n. 336 del 1998; ma si vedano anche le sentenze n. 199 del 2003, n. 165 del 2000, n. 161 del 2000, n. 190 del 1985 e le ordinanze n. 179 del 2002, n. 217 del 2000).

Proseguono i giudici della Consulta, la tutela cautelare, in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale (sentenza n. 190 del 1985), anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame).

A simili enunciazioni non può non riconoscersi portata generale, ove si tenga conto dell’identità degli interessi costituzionalmente rilevanti coinvolti in tutte le procedure rispetto alle quali è prescritto l’obbligatorio tentativo di conciliazione.

Peraltro, al di là della chiara e valente motivazione addotta dal giudice delle leggi, giova considerare il fatto che in ipotesi di ricorso d’urgenza è comunque inconferente il richiamo della disciplina sul tentativo di conciliazione, atteso che le eventuali misure adottate da un’autorità non giurisdizionale, come appunto il Corecom, (quale ad es. potrebbe essere la riattivazione della linea telefonica, a seguito di distacco operato in caso di asserita morosità da parte del gestore telefonico) sono sfornite dei caratteri di coercibilità, e quindi sono inidonee, in caso di reiterata inadempienza da parte della società telefonica, a soddisfare con immediatezza ed effettività le esigenze di natura cautelare dell’utente.

L’interesse alla composizione preventiva della lite, conclude la Corte, svanisce in riferimento all’azione cautelare, proprio in considerazione delle particolari esigenze che si vogliono tutelare attraverso i relativi procedimenti, che appunto mirano ad assicurare l’esigenza del ricorrente che richiede una risposta immediata. Non può, infatti, ritenersi che il tentativo obbligatorio di conciliazione, se considerato condizione di procedibilità anche per l’azione cautelare, assicuri un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguibile mediante tale forma di protezione. Inoltre, la diversa natura, il diverso regime e le diverse finalità della tutela cautelare e dei provvedimenti temporanei che l’Autorità di cui all’art. 1 co. 11 ex L. 249/97 può adottare al fine di garantire la continuità dell’erogazione del servizio o di far cessare forme di abuso o di scorretto funzionamento del medesimo da parte dell’operatore, rendono irrilevante la disciplina stabilita dall’art. 21 del regolamento sulle procedure di risoluzione delle controversie tra operatori di comunicazioni elettroniche ed utenti e dall’art. 2, comma 20, lettera e), della legge 14 novembre 1995, n. 481, ai fini della corretta interpretazione della norma censurata.

Alla luce delle richiamate indicazioni – considerando peraltro che la stessa lettera della disposizione censurata non è preclusiva della esegesi costituzionalmente orientata della medesima (sentenza n. 379 del 2007) – si deve, quindi, interpretare la predetta disposizione nel senso che il mancato espletamento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari.

Tale opzione interpretativa – che obbedisce al principio, espresso anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo.

Gli utenti del servizio telefonico che intendono instaurare una controversia con l’azienda fornitrice e per fondati motivi temano di subire un pregiudizio imminente ed irreparabile del loro diritto, possono proporre all’Autorità Giudiziaria l’istanza cautelare senza necessariamente esperire il preliminare tentativo di conciliazione.

Questa è, in sostanza, la conclusione cui è pervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n° 403/07 (rel. Prof. Tesauro), depositata il 30/11/07.

Tuttavia, occorre riconoscere che tale esito, in un certo senso, è stato annunciato in numerose pronunce di merito (v. esemplificativamente tra le più recenti, Tribunale Milano, ord. 12/10/06 G.U. dr. Maddaloni; Tribunale Brindisi ord. 18/8/06; Tribunale Napoli sez. dist. Pozzuoli 6/6/07; v anche Tribunale Lamezia Terme 15/3/05 in composizione collegiale avverso il reclamo di un gestore telefonico – Pres. Dr. Garofalo, est. dr. Aragona; adde Tribunale Siracusa, ord. 9/6/05 Pres. Dr. Barbara, est. dr. Artino Innaria; Trib. Rossano ord. 1/4/05, G.U. dr. Sacchi; Trib. Firenze, ord. 4/3/05 G.U. dr. Breggia, in Giur. merito, 2005, p. 2323; Trib. Napoli, ord. 3/2/05 G.U. dr. Criscuolo; Trib. Lamezia Terme, ord. 21/12/04, G.U. dr. Silvestri).

La questione esaminata dalla Consulta è stata sollevata dal Tribunale di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, con ordinanza del 22 settembre 2006.

In particolare, il giudice rimettente assume l’incostituzionalità dell’art. 1 co. 11 della L. 249/97 (Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo), «nella parte in cui esso esclude anche la possibilità di proporre ricorso in sede giurisdizionale di natura cautelare, fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione ivi previsto».

Soggiunge di essere stato adito, nell’àmbito di un procedimento civile promosso nei confronti di Telecom Italia s.p.a., in sede cautelare ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, al fine di ottenere l’attivazione in via d’urgenza di una linea telefonica fissa.

Espone, inoltre, che nel giudizio si è costituita la Telecom Italia s.p.a. la quale ha eccepito, oltre all’assenza dei presupposti specifici di cui all’art. 700 cod. proc. civ., l’«improponibilità e/o improcedibilità» dell’azione ai sensi dell’art. 1, comma 11, della legge n. 249 del 1997, in ragione del mancato espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Nel relativo giudizio le parti hanno dato atto che è cessata la materia del contendere in quanto la linea telefonica è stata allacciata, ma hanno, tuttavia, rispettivamente, chiesto la condanna alle spese di lite, in base al principio della cosiddetta soccombenza virtuale.

Ma, prima di procedere oltre, è opportuno richiamare quanto emerge dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in tema di responsabilità processuale.

Non è possibile la declaratoria di cessazione della materia del contendere quando tra le parti permane contrasto proprio sulla liquidazione delle spese, che si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio per la parte resistente (cfr. Trib. Milano 8722/05; Trib. Ivrea 14/6/01; Trib. Milano 2/6/98; Trib. Ferrara 24/1/97; Trib. Firenze 15/11/94).

In particolare, il giudice, adito ai sensi e nelle forme di cui all’art. 700 cpc, deve operare una valutazione prognostica di come si sarebbe chiuso il processo se non si fosse verificata la causa di cessazione della materia del contendere (cfr. Cass. Sez. Un. 18956/03 – adde Cass. Civ. 21244/06. V. anche Corte Appello Genova, I^ sez. 27/2/06; Trib. Potenza, 5/7/07 rg 869/05) e, quindi, disporre conseguentemente in ordine alle spese e competenze processuali. Di talché, qualora il procedimento cautelare si concluda con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, è ammissibile la condanna del resistente al rimborso delle spese processuali sostenute sul fondamento della c.d. soccombenza tecnica o virtuale o teorica (v. ord. Trib. Milano 2/6/98 – parti Liuzzo c/ Mazzeo – in Giur. It. ’99).

In definitiva, e si completa l’inciso sull’argomento, la parte che ha dato luogo alla situazione controversa dedotta in giudizio, deve reintegrare l’istante nella situazione quo ante ristorandolo anche delle spese occorse per ottenere la tutela giurisdizionale, poiché la necessità di ricorrere e di servirsi del processo non può andare a svantaggio di chi ne ha fatto richiesta.

Ritornando all’esame della sentenza, è opportuno sottolineare che i giudici della Consulta, con eloquente ed approfondita motivazione, ricca di richiami a giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, hanno considerato non fondata la questione nei termini in cui è stata loro sottoposta.

In particolare, hanno affermato che quanto stabilito dall’art. 412-bis del codice di procedura civile, con riferimento alla disciplina delle controversie di lavoro, secondo cui il mancato espletamento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari, deve essere inteso nel senso che «un istituto di generale applicazione in ogni controversia di lavoro (il tentativo obbligatorio di conciliazione) si arresta in presenza di un’istanza cautelare, prevalendo – sulle altre perseguite dal legislatore – le esigenze proprie della tutela cautelare» (sentenza n. 199 del 2003).

In termini più generali, la Corte ha riconosciuto, sia pure incidentalmente, che, per i procedimenti cautelari, «l’esclusione dalla soggezione al tentativo di conciliazione si correla alla stessa strumentalità della giurisdizione cautelare» (sentenza n. 276 del 2000) rispetto alla effettività della tutela dinanzi al giudice ripetutamente ribadita da questa Corte (sentenza n. 336 del 1998; ma si vedano anche le sentenze n. 199 del 2003, n. 165 del 2000, n. 161 del 2000, n. 190 del 1985 e le ordinanze n. 179 del 2002, n. 217 del 2000).

Proseguono i giudici della Consulta, la tutela cautelare, in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale (sentenza n. 190 del 1985), anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame).

A simili enunciazioni non può non riconoscersi portata generale, ove si tenga conto dell’identità degli interessi costituzionalmente rilevanti coinvolti in tutte le procedure rispetto alle quali è prescritto l’obbligatorio tentativo di conciliazione.

Peraltro, al di là della chiara e valente motivazione addotta dal giudice delle leggi, giova considerare il fatto che in ipotesi di ricorso d’urgenza è comunque inconferente il richiamo della disciplina sul tentativo di conciliazione, atteso che le eventuali misure adottate da un’autorità non giurisdizionale, come appunto il Corecom, (quale ad es. potrebbe essere la riattivazione della linea telefonica, a seguito di distacco operato in caso di asserita morosità da parte del gestore telefonico) sono sfornite dei caratteri di coercibilità, e quindi sono inidonee, in caso di reiterata inadempienza da parte della società telefonica, a soddisfare con immediatezza ed effettività le esigenze di natura cautelare dell’utente.

L’interesse alla composizione preventiva della lite, conclude la Corte, svanisce in riferimento all’azione cautelare, proprio in considerazione delle particolari esigenze che si vogliono tutelare attraverso i relativi procedimenti, che appunto mirano ad assicurare l’esigenza del ricorrente che richiede una risposta immediata. Non può, infatti, ritenersi che il tentativo obbligatorio di conciliazione, se considerato condizione di procedibilità anche per l’azione cautelare, assicuri un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguibile mediante tale forma di protezione. Inoltre, la diversa natura, il diverso regime e le diverse finalità della tutela cautelare e dei provvedimenti temporanei che l’Autorità di cui all’art. 1 co. 11 ex L. 249/97 può adottare al fine di garantire la continuità dell’erogazione del servizio o di far cessare forme di abuso o di scorretto funzionamento del medesimo da parte dell’operatore, rendono irrilevante la disciplina stabilita dall’art. 21 del regolamento sulle procedure di risoluzione delle controversie tra operatori di comunicazioni elettroniche ed utenti e dall’art. 2, comma 20, lettera e), della legge 14 novembre 1995, n. 481, ai fini della corretta interpretazione della norma censurata.

Alla luce delle richiamate indicazioni – considerando peraltro che la stessa lettera della disposizione censurata non è preclusiva della esegesi costituzionalmente orientata della medesima (sentenza n. 379 del 2007) – si deve, quindi, interpretare la predetta disposizione nel senso che il mancato espletamento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari.

Tale opzione interpretativa – che obbedisce al principio, espresso anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo.