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Cade il sistema di calcolo dell’indennizzo per l’espropriazione di terreni edificabili

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 22 ottobre 2007, n. 348
Con la sentenza n. 348 del 2007 la Corte Costituzionale ha affrontato aspetti fondamentali della disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità, fornendone innovative indicazioni. In particolare, la Corte ha statuito la incompatibilità della disciplina introdotta dall’art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359 - relativa alle modalità di computo dell’indennità di espropriazione fondato sulla media tra il valore del bene e il reddito dominicale rivalutato - con la disciplina contenuta nell’art. 1 del primo Protocollo allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), pronunciando, conseguentemente, l’illegittimità costituzionale della impugnata normativa per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione dove si prevede che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Di particolare rilievo è la valutazione della legittimità costituzionale della disciplina ex art. 5-bis della L. 359/1992, per violazione dell’Art. 117, co.1, Cost., in relazione all’Art.1 del Primo Protocollo CEDU. La Corte, infatti, sofferma preliminarmente la propria attenzione sul rapporto intercorrente tra norme CEDU e norme di diritto interno, mettendo a fuoco un originale metodo di indagine circa la conformità della legislazione interna al diritto internazionale che presuppone il sindacato dello stesso diritto internazionale rispetto all’ordinamento costituzionale interno, fondandolo sul primo comma dell’Art. 117 Cost. (nel testo introdotto dall’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione [1] .

La Corte, partendo da una incontestabile distinzione tra norme comunitarie e norme CEDU - direttamente applicabili in tutti gli Stati membri le prime e semplicemente vincolanti ma non produttive di effetti diretti negli ordinamenti interni le seconde, in quanto norme internazionali pattizie - ha escluso che i giudici nazionali, ancorchè giudici comuni del sistema CEDU, possano disapplicare le norme interne in contrasto con il sistema CEDU, come pure alcuna giurisprudenza di merito [2] e di legittimità [3] ha ritenuto, con il conforto di parte della dottrina [4]. Ciò è sine dubio confermato dal primo comma dell’Art. 117 Cost. nella parte in cui distingue in modo significativo i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali ».

Ne deriva che il sistema delle norme CEDU ed il sistema delle norme comunitarie rimangono allo stato due sistemi giuridici distinti con la conseguenza che le norme CEDU – in quanto norme di diritto internazionale pattizio – non possono essere considerate come base di legittimazione per disapplicare le norme legislative interne con essa in contrasto.

La Corte esclude, inoltre, che le norme del sistema CEDU, in quanto norme pattizie, possano ricadere nell’ambito di operatività dell’art. 10, co.1, Cost., in conformità alla propria costante giurisprudenza sul punto [5] . La citata disposizione costituzionale, con l’espressione “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano. Da ciò deriva che le norme pattizie in generale, e quelle del sistema CEDU in particolare, esulino dalla portata normativa del suddetto Art. 10 con la conseguente impossibilità di assumere ex se le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale.

Esaminando, quindi, nel merito le questioni di legittimità costituzionale delle citate disposizioni dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, con particolare riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., la Corte assume come “norma interposta” l’art. 1 del citato primo Protocollo della CEDU - quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo [6] - in quanto i criteri di calcolo per determinare l’indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di interesse pubblico condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione.

La necessità del richiamo ad una norma interposta deriva dal fatto che l’Art. 117, co.1, Cost. non è direttamente operativo, necessitando dell’esatta individuazione degli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico, tra gli obblighi internazionali vi è quello di adeguare la legislazione italiana alle norme CEDU (nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita), obbligo assunto dall’Italia con la sottoscrizione e ratifica della stessa.

Secondo la Corte, infatti, il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost, “se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive”, in quanto fonti internazionali assunte a produrre effetti con leggi di autorizzazione, da considerare fonti interne atipiche sul piano formale “dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”.

La Corte passa quindi ad illustrare lo svolgimento del proprio giudizio in ordine ad eventuali norme legislative interne in contrasto con norme pattizie generali, quali le norme del sistema CEDU, affermando che tali norme – quali interpretate dalla Corte di Strasburgo – non acquistano la forza delle norme costituzionali e perciò non sono immuni dal controllo di legittimità costituzionale. Anzi, precisa che proprio “perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione”. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie che da quelle concordatarie, fa si che lo scrutinio di costituzionalità “non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali […] ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le norme interposte e quelle costituzionali”. La ratio va individuata nella necessità di evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. Ovviamente, nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale la Corte “ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”, sulla base di un sindacato ispirato al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.

Si considerino, ora, le statuizioni che riguardano l’indennità di espropriazione per la realizzazione di opere pubbliche.

Punto di partenza è costituito dall’Art.5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359, che al comma 1, prescrive i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, fondati sulla media del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all’ultimo decennio, con un’ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra così ottenuta.

Sul punto, la Corte Costituzionale rileva che si sia consolidata una giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sull’Art.1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU, che abbia attribuito alla disposizione in esame un contenuto ed una portata incompatibili con la disciplina italiana dell’indennità di espropriazione [7] .

In particolare, la Corte menziona la sentenza Scordino vs. Italia, nella quale si afferma, testualmente, che il criterio ex art. 5-bis non è in ragionevole rapporto con il valore del bene.

In secondo luogo la Corte, rilevata la necessità di tenere quale punto di riferimento per il calcolo dell’indennizzo il solo valore di mercato del bene ablato, giustifica la propria precedente giurisprudenza [8] – con la quale aveva respinto le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis – fondata essenzialmente sul carattere transitorio della disciplina, motivata dalla “grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando”.

Detto carattere provvisorio sarebbe, tuttavia, venuto meno con l’entrata in vigore dell’Art. 37 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) che ha recepito, quale norma a regime, il contestato criterio di computo dell’indennizzo ex art. 5-bis. Si deve, dunque, trarre la conclusione che la norma censurata – la quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata della Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale pari a circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può, infatti, giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà.

Da ultimo, la Corte, sancita l’incostituzionalità dell’art. 5-bis, non manca di richiamare la funzione sociale della proprietà ed il necessario bilanciamento tra interesse privato ed interesse pubblico. La funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. Da ciò deriva che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato: il singolo Stato ben può discostarsi dagli standards previsti in via generale dalle norme CEDU, con la conseguenza che il quantum dell’indennizzo può anche avvicinarsi il più possibile al valore venale dell’area.

La ratio va rivenuta nel fatto che livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.

La sentenza esaminata ha il rilevante merito di aver risolto, anzitutto, il problema sollevato dalla Corte europea di Strasburgo in relazione al caso esaminato, e cioè l’incompatibilità della normativa italiana relativa al calcolo della indennità di esproprio – generando un “azzeramento”, dopo circa trenta anni dalla prima pronuncia del 1980, della disciplina della determinazione dell’indennità di espropriazione – ma, più in generale, di aver riconosciuto l’obbligo, per l’ordinamento italiano, di conformarsi alle norme della Convenzione europea, nella interpretazione che delle stesse viene fornita data dalla Corte Strasburgo. Le norme della Convenzione europea hanno, infatti, nell’ordinamento italiano valore di norme interposte (fra le leggi e la Costituzione) che devono essere rispettate, in quanto integrano il contenuto degli obblighi internazionali che, in applicazione dell’art. 117 della Costituzione, si impongono all’attività normativa dello Stato e delle Regioni, sempre che esse stesse non siano in contrasto con altre norme costituzionali.



[1] R. DICKMANN, “Corte Costituzionale e diritto internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’Art. 117, primo comma, della Costituzione”, 21 novembre 2007, in www.federalismi.it.

[2] Trib.Genova, sent. 30 novembre 2000 n. 4114; Corte di Appello di Firenze, sent. 20 gennaio 2005, n. 111; Corte di Appello di Firenze, sez. I, 14 luglio 2006, n. 1403.

[3] Corte cass., sez. I pen., sent. 10 luglio 1993 n. 2194 (in Cass. pen., 1994, 439 ss.); Corte cass., sez. I civ, sent. n. 8 luglio 1998, n. 6672 (in Riv. it. dir. pubbl. com., 6/1998); Corte cass., sez. I civ., sent. 19 luglio 2002, n. 10542; Corte cass., SS.UU. civ., sentt. 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340 e 1341; Corte cass., sez. lav., sent. 10 marzo 2004, n. 4932; Corte cass., sez. lav., sent. 27 marzo 2004, n. 6173; Corte cass., sez. I civ., sent. 11 giugno 2004, n. 11096; Corte cass., sez. I civ., 15 aprile 2005, n. 7923; Corte cass., sez. I civ., 22 luglio 2005, n. 15489; Corte cass., SS.UU. civ., sent. 23 dicembre 2005, n. 28507 ss.; Corte cass., sez. I pen., sent. 3 ottobre 2005, n. 35616; Corte cass,, sez. I pen., sent. 3 ottobre 2006, n. 32678; Corte cass., sez. I pen., sent, 25 gennaio 2007, n. 2800; Corte cass., sez. V, sent. 2 febbraio 2007, n. 1329.

[4] A. GUAZZAROTTI, A. COSSIRI, “L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente”, in www.forumcostituzionale.it.

[5] Sentenza n. 188 del 1980: ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005.

[6] La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa.

[7] La Corte precisa che “Poiché i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte europea ha dichiarato che l’Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima”.

[8] Si veda Corte Cost. n. 283 del 1993.

Con la sentenza n. 348 del 2007 la Corte Costituzionale ha affrontato aspetti fondamentali della disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità, fornendone innovative indicazioni. In particolare, la Corte ha statuito la incompatibilità della disciplina introdotta dall’art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359 - relativa alle modalità di computo dell’indennità di espropriazione fondato sulla media tra il valore del bene e il reddito dominicale rivalutato - con la disciplina contenuta nell’art. 1 del primo Protocollo allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), pronunciando, conseguentemente, l’illegittimità costituzionale della impugnata normativa per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione dove si prevede che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Di particolare rilievo è la valutazione della legittimità costituzionale della disciplina ex art. 5-bis della L. 359/1992, per violazione dell’Art. 117, co.1, Cost., in relazione all’Art.1 del Primo Protocollo CEDU. La Corte, infatti, sofferma preliminarmente la propria attenzione sul rapporto intercorrente tra norme CEDU e norme di diritto interno, mettendo a fuoco un originale metodo di indagine circa la conformità della legislazione interna al diritto internazionale che presuppone il sindacato dello stesso diritto internazionale rispetto all’ordinamento costituzionale interno, fondandolo sul primo comma dell’Art. 117 Cost. (nel testo introdotto dall’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione [1] .

La Corte, partendo da una incontestabile distinzione tra norme comunitarie e norme CEDU - direttamente applicabili in tutti gli Stati membri le prime e semplicemente vincolanti ma non produttive di effetti diretti negli ordinamenti interni le seconde, in quanto norme internazionali pattizie - ha escluso che i giudici nazionali, ancorchè giudici comuni del sistema CEDU, possano disapplicare le norme interne in contrasto con il sistema CEDU, come pure alcuna giurisprudenza di merito [2] e di legittimità [3] ha ritenuto, con il conforto di parte della dottrina [4]. Ciò è sine dubio confermato dal primo comma dell’Art. 117 Cost. nella parte in cui distingue in modo significativo i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali ».

Ne deriva che il sistema delle norme CEDU ed il sistema delle norme comunitarie rimangono allo stato due sistemi giuridici distinti con la conseguenza che le norme CEDU – in quanto norme di diritto internazionale pattizio – non possono essere considerate come base di legittimazione per disapplicare le norme legislative interne con essa in contrasto.

La Corte esclude, inoltre, che le norme del sistema CEDU, in quanto norme pattizie, possano ricadere nell’ambito di operatività dell’art. 10, co.1, Cost., in conformità alla propria costante giurisprudenza sul punto [5] . La citata disposizione costituzionale, con l’espressione “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano. Da ciò deriva che le norme pattizie in generale, e quelle del sistema CEDU in particolare, esulino dalla portata normativa del suddetto Art. 10 con la conseguente impossibilità di assumere ex se le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale.

Esaminando, quindi, nel merito le questioni di legittimità costituzionale delle citate disposizioni dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, con particolare riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., la Corte assume come “norma interposta” l’art. 1 del citato primo Protocollo della CEDU - quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo [6] - in quanto i criteri di calcolo per determinare l’indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di interesse pubblico condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione.

La necessità del richiamo ad una norma interposta deriva dal fatto che l’Art. 117, co.1, Cost. non è direttamente operativo, necessitando dell’esatta individuazione degli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico, tra gli obblighi internazionali vi è quello di adeguare la legislazione italiana alle norme CEDU (nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita), obbligo assunto dall’Italia con la sottoscrizione e ratifica della stessa.

Secondo la Corte, infatti, il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost, “se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive”, in quanto fonti internazionali assunte a produrre effetti con leggi di autorizzazione, da considerare fonti interne atipiche sul piano formale “dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”.

La Corte passa quindi ad illustrare lo svolgimento del proprio giudizio in ordine ad eventuali norme legislative interne in contrasto con norme pattizie generali, quali le norme del sistema CEDU, affermando che tali norme – quali interpretate dalla Corte di Strasburgo – non acquistano la forza delle norme costituzionali e perciò non sono immuni dal controllo di legittimità costituzionale. Anzi, precisa che proprio “perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione”. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie che da quelle concordatarie, fa si che lo scrutinio di costituzionalità “non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali […] ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le norme interposte e quelle costituzionali”. La ratio va individuata nella necessità di evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. Ovviamente, nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale la Corte “ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”, sulla base di un sindacato ispirato al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.

Si considerino, ora, le statuizioni che riguardano l’indennità di espropriazione per la realizzazione di opere pubbliche.

Punto di partenza è costituito dall’Art.5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359, che al comma 1, prescrive i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, fondati sulla media del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all’ultimo decennio, con un’ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra così ottenuta.

Sul punto, la Corte Costituzionale rileva che si sia consolidata una giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sull’Art.1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU, che abbia attribuito alla disposizione in esame un contenuto ed una portata incompatibili con la disciplina italiana dell’indennità di espropriazione [7] .

In particolare, la Corte menziona la sentenza Scordino vs. Italia, nella quale si afferma, testualmente, che il criterio ex art. 5-bis non è in ragionevole rapporto con il valore del bene.

In secondo luogo la Corte, rilevata la necessità di tenere quale punto di riferimento per il calcolo dell’indennizzo il solo valore di mercato del bene ablato, giustifica la propria precedente giurisprudenza [8] – con la quale aveva respinto le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis – fondata essenzialmente sul carattere transitorio della disciplina, motivata dalla “grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando”.

Detto carattere provvisorio sarebbe, tuttavia, venuto meno con l’entrata in vigore dell’Art. 37 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) che ha recepito, quale norma a regime, il contestato criterio di computo dell’indennizzo ex art. 5-bis. Si deve, dunque, trarre la conclusione che la norma censurata – la quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata della Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale pari a circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può, infatti, giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà.

Da ultimo, la Corte, sancita l’incostituzionalità dell’art. 5-bis, non manca di richiamare la funzione sociale della proprietà ed il necessario bilanciamento tra interesse privato ed interesse pubblico. La funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. Da ciò deriva che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato: il singolo Stato ben può discostarsi dagli standards previsti in via generale dalle norme CEDU, con la conseguenza che il quantum dell’indennizzo può anche avvicinarsi il più possibile al valore venale dell’area.

La ratio va rivenuta nel fatto che livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.

La sentenza esaminata ha il rilevante merito di aver risolto, anzitutto, il problema sollevato dalla Corte europea di Strasburgo in relazione al caso esaminato, e cioè l’incompatibilità della normativa italiana relativa al calcolo della indennità di esproprio – generando un “azzeramento”, dopo circa trenta anni dalla prima pronuncia del 1980, della disciplina della determinazione dell’indennità di espropriazione – ma, più in generale, di aver riconosciuto l’obbligo, per l’ordinamento italiano, di conformarsi alle norme della Convenzione europea, nella interpretazione che delle stesse viene fornita data dalla Corte Strasburgo. Le norme della Convenzione europea hanno, infatti, nell’ordinamento italiano valore di norme interposte (fra le leggi e la Costituzione) che devono essere rispettate, in quanto integrano il contenuto degli obblighi internazionali che, in applicazione dell’art. 117 della Costituzione, si impongono all’attività normativa dello Stato e delle Regioni, sempre che esse stesse non siano in contrasto con altre norme costituzionali.



[1] R. DICKMANN, “Corte Costituzionale e diritto internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’Art. 117, primo comma, della Costituzione”, 21 novembre 2007, in www.federalismi.it.

[2] Trib.Genova, sent. 30 novembre 2000 n. 4114; Corte di Appello di Firenze, sent. 20 gennaio 2005, n. 111; Corte di Appello di Firenze, sez. I, 14 luglio 2006, n. 1403.

[3] Corte cass., sez. I pen., sent. 10 luglio 1993 n. 2194 (in Cass. pen., 1994, 439 ss.); Corte cass., sez. I civ, sent. n. 8 luglio 1998, n. 6672 (in Riv. it. dir. pubbl. com., 6/1998); Corte cass., sez. I civ., sent. 19 luglio 2002, n. 10542; Corte cass., SS.UU. civ., sentt. 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340 e 1341; Corte cass., sez. lav., sent. 10 marzo 2004, n. 4932; Corte cass., sez. lav., sent. 27 marzo 2004, n. 6173; Corte cass., sez. I civ., sent. 11 giugno 2004, n. 11096; Corte cass., sez. I civ., 15 aprile 2005, n. 7923; Corte cass., sez. I civ., 22 luglio 2005, n. 15489; Corte cass., SS.UU. civ., sent. 23 dicembre 2005, n. 28507 ss.; Corte cass., sez. I pen., sent. 3 ottobre 2005, n. 35616; Corte cass,, sez. I pen., sent. 3 ottobre 2006, n. 32678; Corte cass., sez. I pen., sent, 25 gennaio 2007, n. 2800; Corte cass., sez. V, sent. 2 febbraio 2007, n. 1329.

[4] A. GUAZZAROTTI, A. COSSIRI, “L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente”, in www.forumcostituzionale.it.

[5] Sentenza n. 188 del 1980: ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005.

[6] La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa.

[7] La Corte precisa che “Poiché i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte europea ha dichiarato che l’Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima”.

[8] Si veda Corte Cost. n. 283 del 1993.