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Il diritto comunitario ed i tentativi di una azione “correttiva” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella tutela delle minoranze

Mentre, a livello di diritto internazionale pubblico, disponiamo di una serie di documenti-Convenzioni sulla tutela delle minoranze, nazionali in particolare, sotto il profilo del diritto dell’Unione Europea, manca un principio espresso di salvaguardia delle minoranze che sia formalmente sancito nel Trattato CE ([1]). Il rispetto e la tutela delle minoranze, chiariscono Palermo e Woelk, “è dunque rimasto in ambito comunitario un criterio di carattere politico. La sua formulazione risale al vertice di Copenaghen, che nel 1993 ha fissato i criteri che gli Stati dell’Europa centrale ed orientale dovevano soddisfare per essere ammessi nell’Unione Europea” ([2]). Al di là, quindi, di alcune sporadiche menzioni nei documenti comunitari, l’attenzione va posta alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, nelle sue decisioni, ingloba il tema della tutela minoritaria all’interno del principio di parità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri il quale, a differenza di quello sulla protezione delle minoranze, è espressamente previsto e contemplato nel Trattato ([3]).

Tanto il principio del pluralismo delle culture, quale manifestazione tipica degli ordinamenti democratici contemporanei ([4]), quanto il divieto, da parte degli Stati membri dell’Unione Europea, a procedere all’assimilazione degli appartenenti ad una minoranza nazionale o etnica o linguistica, rappresentano uno dei principali obiettivi della politica comunitaria. Se, nel Trattato di Amsterdam del 1997 (modificativo del Trattato CE ed UE) ([5]), dopo aver sancito che la Comunità “contribuisce” al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri “nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali” ([6]), ci si limita ad una forma di tutela circoscritta agli aspetti culturali “al fine di rispettare e promuovere la diversità delle culture” ([7]), un riferimento chiaro al concetto di minoranza, si consegue solo con la Carta di Nizza ([8]), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, originariamente incorporata nella Parte II del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa ([9]) ed oggi, a seguito del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ([10]), posta a Preambolo ([11]) dello stesso con valore giuridicamente vincolante (non si tratta di una novità in quanto già previsto nel progetto di Costituzione Europea) ([12]).

La Carta dei Diritti Fondamentali, infatti, dopo aver genericamente sancito il rispetto ([13]), da parte dell’Unione, della diversità culturale, religiosa e linguistica, vieta “ogni discriminazione fondata……sull’appartenenza ad una minoranza nazionale” ([14]). Ora, l’introduzione nel sistema comunitario del divieto di alcune forme di discriminazione, tra cui quella dell’appartenenza ad una minoranza, è stata operata fin dalla riforma del Trattato CE ad opera del Trattato di Amsterdam che ha introdotto il vigente testo dell’art. 13 Tr. secondo il quale “fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali , gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Tuttavia, si riscontrano delle sostanziali differenze tra i due testi normativi sopra riportati: da un lato, la Carta dei diritti fondamentali mira a vietare forme di discriminazione, con norma di carattere negativo, “finalizzata a vietare tout court le discriminazioni” ([15]), dall’altro lato, la disposizione del Trattato CE impegna gli organi comunitari ad assumere “azioni volte a combattere le discriminazioni con norma di carattere positivo” ([16]). Inoltre, dal punto di vista soggettivo, il divieto di discriminazione della Carta dei Diritti Fondamentali UE viene posto “con la massima ampiezza possibile”, mancando del tutto ogni riferimento alla titolarità della tutela la quale si estende, pertanto, non solo al profilo individuale ma anche a quello collettivo nel senso che “non è ammissibile un trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio nei confronti dei gruppi” ([17]). Degno di rilievo, in questo senso, è proprio il tema delle minoranze. La tutela minoritaria, infatti, che si traduce in una tutela della diversità, non può che riferirsi sia all’aspetto soggettivo sia a quello di gruppo con l’unica differenza che, in dottrina, si ritiene preferibile dedurre dalla lettera dell’art. 22 “una più spiccata propensione verso una considerazione delle posizioni collettive, come tali degne di rispetto da parte dell’Unione” mentre dalla lettera dell’art. 21 una maggiore attenzione al dato individuale. Il limite, tuttavia, della salvaguardia della diversità minoritaria in seno alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è però la ascrivibilità della protezione alle sole minoranze nazionali intese, secondo l’interpretazione maggioritaria, in senso etnico e razziale ([18]); aspetto, peraltro, ribadito anche dalla direttiva 2000/43/CE ([19]) del Consiglio dei Ministri dell’Unione, datata 29 giugno 2000 ed attuata nell’ordinamento italiano con D.Lgs. n. 215/2003 ([20]), a seguito della quale gli Stati membri della Comunità si impegnano a vietare qualsiasi atto discriminatorio basato sulla razza o l’origine etnica, facendo salve, all’art. 5, le azioni positive degli Stati dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con l’appartenenza ad una determinata etnia.

In questo contesto, la formulazione dell’art. 2 del Trattato di Lisbona nella parte in cui modifica il Trattato UE, risulta illuminante dal momento che, nel prevedere che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di Diritto e del rispetto dei diritti umani”, ricomprende anche “i diritti delle persone appartenenti ad una minoranza” senza alcun tipo di aggettivazione. Il che significa, da un lato, sulla scia di quanto emerso dalla analisi e dallo studio della Convenzione-Quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995, il riconoscimento di veri e propri diritti soggettivi in capo ai soggetti minoritari, dall’altro, l’instaurazione di una forma di tutela onnicomprensiva che trascende la dimensione etnico-razziale nonché la ricorribilità alla Corte di Giustizia UE a garanzia delle pretese dei singoli componenti una realtà minoritaria nell’eventualità di una lesione nell’esercizio dei loro diritti. La Costituzione Europea prima ed il Trattato di Lisbona ora, non vogliono espropriare i 27 Stati dell’Unione della disciplina di una materia così delicata rispetto alla quale la Comunità svolge un ruolo sussidiario ed integrativo. L’art. 6, 3° comma, infatti, del Trattato di Lisbona nella parte in cui incide sul Trattato UE indica come, in tema di diritti fondamentali, la politica comunitaria si informi tanto alla CEDU quanto soprattutto “alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”: in altri termini, sul piano della tutela delle minoranze e dei diritti in generale, si cerca di sottolineare e valorizzare il “rapporto di filiazione” ([21]) del Trattato rispetto alle Costituzioni nazionali, inaugurando “un indirizzo di interpretazione adeguatrice delle disposizioni della prima rispetto a quelle delle Costituzioni nazionali” ([22]).

L’attivismo dimostrato negli ultimi anni dal legislatore sia statale che locale verso la protezione delle minoranze se, da un lato, “si inserisce nel trend sotteso alle iniziative del Consiglio d’Europa e nel diffuso orientamento degli Stati di regolare mediante Trattati bilaterali o multilaterali le situazioni minoritarie di confine anche valorizzando strumenti della cooperazione transfrontaliera” ([23]), dall’altro lato, “non può far riflettere sulle eventuali ripercussioni che l’introduzione di un regime derogatorio e speciale, quale quello diretto alla protezione delle minoranze linguistiche, è suscettibile di produrre nei confronti della restante popolazione, che rischia di venirsi a trovare, a sua volta e paradossalmente, in una situazione di svantaggio, senza trascurare le conseguenze di natura finanziaria che simili interventi inevitabilmente impongono in misura più o meno considerevole” ([24]). Proprio al fine di evitare forme di discriminazione all’incontrario (la c.d. reverse discrimination), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha provato, non sempre riuscendoci in modo pieno, un punto di equilibrio tra tutela minoritaria e parità di trattamento dei cittadini degli Stati membri ossia ha cercato di risolvere l’eterna dicotomia tra protezione speciale e differenziata delle minoranze e principio di eguaglianza. Il c.d. caso Bickel cercherà di chiarire i termini della questione: un camionista austriaco ed un turista tedesco erano stati sottoposti a procedimenti penali nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol, essendo stati fermati per guida in stato di ebbrezza, il primo, e per possesso di un coltello proibito, il secondo. Entrambi avevano dichiarato di non conoscere la lingua italiana ed avevano chiesto che il procedimento a loro carico si svolgesse in lingua tedesca, in base alle disposizioni normative poste a tutela comunità tedesca della Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen. Il Pretore di Bolzano, nutrendo dubbi sull’applicabilità, ai sensi del diritto comunitario, delle norme previste per i cittadini della Provincia di Bolzano/Bozen ai cittadini di altri Stati membri che si rechino nella stessa Provincia, aveva sospeso il procedimento e sottoposto, ex art. 177 Trattato CE, alla Corte di Giustizia sull’interpretazione degli artt. 12, 18 e 49 Tr. La stessa, con sentenza 24 novembre 1998, causa C-274/96, Horst Otto Bickel e Ulrich Franz ([25]), ritiene che la mancata applicazione della disciplina prevista per la minoranza tedesca altoatesina ai cittadini di lingua tedesca degli altri Stati membri, costituisce una violazione del principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 Trattato CE nonché di quello della libera circolazione all’interno del territorio dell’Unione da parte dei cittadini comunitari. Innanzi all’obiezione del Governo italiano secondo la quale tale normativa è diretta a tutelare esclusivamente la minoranza etnico-culturale residente nella Provincia bolzanina e che, a garanzia del diritto di difesa, erano praticabili altre soluzioni come il diritto all’interprete, ex art. 143 c.p.p., la Corte non le prende minimamente in esame sostenendo che la tutela di una minoranza può certo costituire un obiettivo legittimo, ma non risulta “che l’estensione della normativa controversa ai cittadini di lingua tedesca di altri Stati membri che esercitano il loro diritto di libera circolazione lederebbe tale obiettivo” ([26]).

Pur senza ledere l’obiettivo della protezione della minoranza tedesca insediata nella Provincia di Bolzano/Bozen, la mera estensione della disciplina legislativa riservata al gruppo di lingua tedesca, ha constatato la dottrina, tende comunque “ad alimentare una serie di disparità di trattamento, sia nei confronti di altri cittadini italiani, sia nei confronti di cittadini degli Stati membri che circolino e soggiornino nel territorio italiano” ([27]). Con riferimento agli altri cittadini italiani, va osservato come la garanzia, predisposta dall’art. 109 c.p.p., circa la possibilità che un cittadino della Repubblica, appartenente ad una minoranza, chieda, innanzi ad una autorità giudiziaria avente competenza in primo grado o in appello, di essere sentito, interrogato o esaminato nella madrelingua con redazione del relativo verbale nella lingua medesima, valga unicamente nel territorio (la c.d. minority area) ove è insediato un gruppo minoritario, mentre, con riferimento ai cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, trova applicazione soltanto il disposto codicistico di cui all’art. 143 c.p.p. che contempla il c.d. diritto all’interprete, attivabile ed azionabile nella circostanza e nell’ipotesi in cui un soggetto indagato o un imputato, nell’ambito di un procedimento penale, si trovi in uno stato di non conoscenza della lingua italiana ([28]).

In modo ancora più drastico e diretto rispetto al caso Bickel, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee interviene, con la sentenza 6 giugno 2000, causa C-281/98, Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano S.p.a. ([29]) al fine di cercare un punto di congiuntura tra diritto comunitario e tutela minoritaria all’interno dell’ordinamento nazionale italiano, finendo, però, per interrogarsi circa il fatto se alcuni istituti a salvaguardia dei gruppi tedesco e ladino della Provincia di Bolzano/Bozen, funzionali per garantire quote di posti negli organici, in ragione della comunità linguistica, in tutte le amministrazioni e nei servizi di pubblico interesse (la c.d. proporzionale etnica), siano compatibili con le libertà fondamentali previste dal Trattato CE e, più in generale, con i principi di eguaglianza e dello Stato di Diritto su cui si fondano sia la Costituzione europea sia quella italiana.

Roman Angonese è un cittadino italiano di lingua tedesca, che si reca in Austria per motivi di studio tra il 1993 ed il 1997. Nel 1997 si candida ad un concorso per un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio. La domanda viene respinta dal momento che il candidato non è in possesso dell’attestato di bilinguismo (c.d. patentino), pre-requisito per l’accesso all’impiego, rilasciato dalla Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen in conformità alla normativa di attuazione dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige/SudTirol dedicata alla distribuzione proporzionale dei posti pubblici ed alla peculiare dichiarazione di appartenenza o aggregazione al gruppo linguistico in occasione del censimento generale della popolazione ([30]).

Al di là dei forti dubbi che la dottrina ha manifestato circa la competenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee a conoscere ed essere competente a giudicare in merito al caso di specie ([31]), quello che qui risulta interessante è l’atteggiamento del giudice di Strasburgo che sembra sussumere direttamente nell’art. 39 Trattato CE (la libera circolazione dei lavoratori nel territorio UE), ritenendolo suscettibile di applicazione immediata, la disposizione di cui all’art. 7 n. 4 del regolamento CE n. 1612/1968 ([32]) secondo il quale “tutte le clausole dei contratti collettivi o individuali o di altre regolamentazioni collettive concernenti l’accesso all’impiego……sono nulle di diritto nella misura in cui prevedano o autorizzino condizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli Stati membri”. Pertanto, come già ribadito nella sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman ([33]), il divieto di discriminazione ed il principio della libera circolazione dei lavoratori non possono, in alcun modo, trovare ostacolo nell’autonomia giuridica di enti di natura privatistica. Con particolare attenzione al problema minoritario, la pronuncia 6 giugno 2000 in C-281/98, costituisce una evoluzione in merito al tema de quo. Se, già con il caso Bickel-Franz, il giudice comunitario aveva espressamente riconosciuto che la protezione delle minoranze rappresenta uno “scopo legittimo” anche per l’ordinamento dell’Unione Europea, pronunciandosi, per la prima volta, su una materia nuova e delicatissima, anche e soprattutto in riferimento ai c.d. criteri di Copenaghen che postulano, in vista del continuo allargamento ad est dell’UE una effettiva tutela delle minoranze, con la sentenza relativa al caso Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano S.p.a., la Corte di Giustizia prosegue nel tentativo di porre paletti importanti rispetto alle modalità di attuazione del principio di salvaguardia dei gruppi minoritari. In altri termini, la Corte non contesta la presenza di discipline ed istituti speciali, in dati territori, al fine di garantire una adeguata protezione delle minoranze etnico-linguistiche, ma, e questo è il punto innovativo, obbliga, nota il Palermo, “ad una interpretazione e ad una “gestione” delle normative speciali tali da costituire il migliore punto di equilibrio tra le esigenze di specialità e tutela collettiva da un lato e la garanzia di condizioni se non eguali almeno non irragionevolmente o sproporzionalmente differenti tra i cittadini europei dall’altro” ([34]). Se, dunque, è ragionevole limitare di fatto la libertà di circolazione per la Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen o per qualunque altro territorio bilingue in Europa, attraverso il requisito della conoscenza delle due lingue ufficiali per l’accesso all’impiego, non è ragionevole che la sussistenza di questo requisito possa essere accertata esclusivamente e preventivamente dalle autorità locali di un ente territoriale di uno Stato membro. Ogni normativa speciale di tutela, pertanto, dovrà tenere conto dei parametri di funzionalità e non discriminazione dettati dalla giurisprudenza comunitaria senza che, la insoddisfacente copertura normativa dell’art. 13 Trattato CE, divenga un ostacolo insormontabile dal momento che saranno sempre e comunque gli Stati membri a legiferare sulle minoranze, lasciando alla Corte il ruolo, non secondario, di effettuare un bilanciamento di interessi (il c.d. Abwagung) tra le esigenze individuali o, in termini più propriamente costituzionalistici di eguaglianza formale e salvaguardia di situazioni collettive in potenziale contrasto con le libertà fondamentali del Trattato (eguaglianza sostanziale).



([1]) Il Trattato della Comunità Europea, è stato adottato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato con l. ordinaria dello Stato 14 ottobre 1957 n. 1203 (in G.U. 23 dicembre 1957 n. 317).

([2]) Sul punto, F. PALERMO-J. WOELK, Diritto Costituzionale comparato dei Gruppi e delle Minoranze, Padova, Cedam, 2008, p. 94.

([3]) Art. 12, 1°comma, Trattato CE: “Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.

([4]) Cfr., A. PIZZORUSSO, Maggioranze e minoranze, Torino, Giappichelli, 1993, p. 43 e ss.

([5]) Il Trattato di Amsterdam è stato firmato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1 gennaio 1999 a seguito della l. ordinaria dello Stato di autorizzazione alla ratifica n. 209/1998 (in G.U. 6 luglio 1998 n. 155. Supp. Ord.).

([6]) Cfr., art. 151, 1°comma, Trattato CE come modificato dal Trattato di Amsterdam

([7]) Cfr., art. 151, 4°comma, Trattato CE come modificato dal Trattato di Amsterdam

([8]) La Carta non costituisce uno strumento giuridico in senso stretto non essendo stata adottata sotto forma di Trattato. E’ stata solennemente proclamata dal Parlamento Europeo, dal Consiglio e dalla Commissione a Nizza il 7 dicembre 2000. Per il testo integrale, si veda G.U. dell’Unione Europea 18 dicembre 2000 C. 364.

([9]) Sull’incorporamento della Carta di Nizza nel nuovo Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, R. BIN-P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 146-158.

([10]) Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, pone fine alla crisi dell’Unione Europea, durata più di due anni e iniziata dopo i “no” francese ed olandese al Trattato che adottava una Costituzione per l’Europa. Il Trattato modificherà il Trattato UE ed il Trattato CE. In particolare, quest’ultimo assumerà la denominazione di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea mentre saranno apportate modifiche al primo. Il Trattato di Lisbona non sostituisce ai Trattati esistenti un nuovo, unico testo, bensì “integra” nei Trattati vigenti le innovazioni già contenute nella Costituzione Europea.

([11]) Il Testo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, si ricava da G.U. Unione Europea serie c del 14 dicembre 2007.

([12]) Sulle novità del Trattato di Lisbona, B. NASCIMBENE-A. LANG, Il Trattato di Lisbona : l’Unione Europea ad una svolta ?, in Corr. Giur., 2007.

([13]) Cfr., art. 22 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e art. II-82 del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa.

([14]) Cfr., art. 21, 1° comma, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

([15]) Così, A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (a cura di) L’Europa dei Diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 172.

([16]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 172.

([17]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 176.

([18]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 177.

([19]) In G.U. Unione Europea serie L del 19 luglio 2000, pp. 22-26.

([20]) In G.U. 12 agosto 2003 n. 186.

([21]) Si veda, ancora, R. BIN-P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione Europea, op. cit., p. 152.

([22]) Da questo punto di vista, appaiono di notevole interesse alcune decisioni del Tribunale Costituzionale spagnolo del 13 dicembre 2004 (DTC 1/2004) e del Consiglio Costituzionale francese del 19 novembre 2004 (décision n. 2004-505).

([23]) Cfr., V. PIERGIGLI, Le minoranze linguistiche nell’ordinamento italiano: recenti sviluppi normativi, in A. D’Aloia (a cura di) Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano, Giuffrè, 2003, p. 29.

([24]) Cfr., V. PIERGIGLI, Le minoranze linguistiche nell’ordinamento italiano: recenti sviluppi normativi, op. cit., p. 29.

([25]) Si veda per un commento alla sentenza in esame, E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., n. 1/1999, p. 171 e ss.

([26]) Punto 29 della sentenza.

([27]) E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, op. cit., p. 172.

([28]) La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, cita, a sostegno di questa sua decisione, il caso Mutsch (sent. 11 luglio 1985, causa 137/84, in Racc., p. 2681 e ss.). Ma nel caso Mutsch la questione si presentava, come vedremo, in termini assai differenti. Robert Mutsch, cittadino lussemburghese, residente in Belgio in un Comune di lingua tedesca, condannato in contumacia ad un’ammenda, aveva chiesto l’applicazione dell’art. 17 della legge 15 giugno 1935 relativa all’uso delle lingue in materia giudiziaria secondo il quale “qualora l’imputato di cittadinanza belga risieda in un Comune di lingua tedesca ubicato nel circondario del Tribunal correctionel di Verviers e ne faccia richiesta nelle forme prescritte dall’art. 16, il procedimento davanti al predetto organo giurisdizionale si svolge in tedesco”. La Cour d’Appel di Liegi, nutrendo dubbi sulla compatibilità di tale disposizione normativa con il diritto comunitario nella parte in cui riserva tale facoltà ai soli cittadini belgi, aveva sollevato una questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia. La Corte risolse la queastio de qua nel senso che il principio della libera circolazione dei lavoratori, stabilito dal Trattato (all’epoca art. 48 Tr. CE) esigeva ed esige che al lavoratore cittadino di uno Stato membro e residente in un altro Stato membro venga riconosciuto il diritto che un procedimento penale iniziato nei suoi confronti si svolga in una lingua diversa da quella processuale usata di regola dinnanzi al giudice investito della causa qualora i lavoratori nazionali possano, nelle stesse condizioni, avvalersi di questo diritto. La principale differenza tra il caso Bickel ed il caso Mutsch consiste che, nel caso primo, Bickel e Franz transitavano nel territorio italiano rispettivamente come camionista e turista, nel secondo, invece, Mutsch era sì un cittadino del Lussemburgo ma residente in Belgio in quella parte in cui è concentrata la minoranza di lingua tedesca sicchè non vi sarebbe stato motivo di escluderlo dal trattamento riservato ai cittadini di lingua tedesca in base alla disposizione del Trattao che vieta ogni discriminazione fondata sulla nazionalità. Anzi, nel caso Bickel, lo stesso Governo italiano aveva sostenuto la applicabilità della disciplina riservata ai cittadini di di lingua tedesca della Provincia di Bolzano/Bozen anche ai cittadini di lingua tedesca degli altri Stati membri se residenti all’interno del territorio provinciale.

([29]) Cfr., F. PALERMO, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., n. 2/2000, p. 969 e ss.

([30]) Si veda il D.Lgs. n. 752/1972. In G.U. 15 novembre 1976 n. 304.

([31]) Come segnalato dal Governo italiano e dalla conclusioni dell’ Avvocato generale Fennelly, la causa riguardava un cittadino italiano residente in Italia che ha adito l’autorità giudiziaria italiana lamentando l’illegittimitàdi un atto di una società italiana. Sembra, dunque, trattarsi di un caso interno, mancando un fattore di collegamento con il diritto comunitario tala da giustificare l’intervento della Corte di Giustizia.

([32]) In G.U.C.E 19 ottobre 1968, serie L, n. 257.

([33]) In Racc., p. 4921.

([34]) In questa direzione, F. PALERMO, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, op. cit., p. 972.

Mentre, a livello di diritto internazionale pubblico, disponiamo di una serie di documenti-Convenzioni sulla tutela delle minoranze, nazionali in particolare, sotto il profilo del diritto dell’Unione Europea, manca un principio espresso di salvaguardia delle minoranze che sia formalmente sancito nel Trattato CE ([1]). Il rispetto e la tutela delle minoranze, chiariscono Palermo e Woelk, “è dunque rimasto in ambito comunitario un criterio di carattere politico. La sua formulazione risale al vertice di Copenaghen, che nel 1993 ha fissato i criteri che gli Stati dell’Europa centrale ed orientale dovevano soddisfare per essere ammessi nell’Unione Europea” ([2]). Al di là, quindi, di alcune sporadiche menzioni nei documenti comunitari, l’attenzione va posta alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, nelle sue decisioni, ingloba il tema della tutela minoritaria all’interno del principio di parità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri il quale, a differenza di quello sulla protezione delle minoranze, è espressamente previsto e contemplato nel Trattato ([3]).

Tanto il principio del pluralismo delle culture, quale manifestazione tipica degli ordinamenti democratici contemporanei ([4]), quanto il divieto, da parte degli Stati membri dell’Unione Europea, a procedere all’assimilazione degli appartenenti ad una minoranza nazionale o etnica o linguistica, rappresentano uno dei principali obiettivi della politica comunitaria. Se, nel Trattato di Amsterdam del 1997 (modificativo del Trattato CE ed UE) ([5]), dopo aver sancito che la Comunità “contribuisce” al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri “nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali” ([6]), ci si limita ad una forma di tutela circoscritta agli aspetti culturali “al fine di rispettare e promuovere la diversità delle culture” ([7]), un riferimento chiaro al concetto di minoranza, si consegue solo con la Carta di Nizza ([8]), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, originariamente incorporata nella Parte II del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa ([9]) ed oggi, a seguito del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ([10]), posta a Preambolo ([11]) dello stesso con valore giuridicamente vincolante (non si tratta di una novità in quanto già previsto nel progetto di Costituzione Europea) ([12]).

La Carta dei Diritti Fondamentali, infatti, dopo aver genericamente sancito il rispetto ([13]), da parte dell’Unione, della diversità culturale, religiosa e linguistica, vieta “ogni discriminazione fondata……sull’appartenenza ad una minoranza nazionale” ([14]). Ora, l’introduzione nel sistema comunitario del divieto di alcune forme di discriminazione, tra cui quella dell’appartenenza ad una minoranza, è stata operata fin dalla riforma del Trattato CE ad opera del Trattato di Amsterdam che ha introdotto il vigente testo dell’art. 13 Tr. secondo il quale “fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali , gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Tuttavia, si riscontrano delle sostanziali differenze tra i due testi normativi sopra riportati: da un lato, la Carta dei diritti fondamentali mira a vietare forme di discriminazione, con norma di carattere negativo, “finalizzata a vietare tout court le discriminazioni” ([15]), dall’altro lato, la disposizione del Trattato CE impegna gli organi comunitari ad assumere “azioni volte a combattere le discriminazioni con norma di carattere positivo” ([16]). Inoltre, dal punto di vista soggettivo, il divieto di discriminazione della Carta dei Diritti Fondamentali UE viene posto “con la massima ampiezza possibile”, mancando del tutto ogni riferimento alla titolarità della tutela la quale si estende, pertanto, non solo al profilo individuale ma anche a quello collettivo nel senso che “non è ammissibile un trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio nei confronti dei gruppi” ([17]). Degno di rilievo, in questo senso, è proprio il tema delle minoranze. La tutela minoritaria, infatti, che si traduce in una tutela della diversità, non può che riferirsi sia all’aspetto soggettivo sia a quello di gruppo con l’unica differenza che, in dottrina, si ritiene preferibile dedurre dalla lettera dell’art. 22 “una più spiccata propensione verso una considerazione delle posizioni collettive, come tali degne di rispetto da parte dell’Unione” mentre dalla lettera dell’art. 21 una maggiore attenzione al dato individuale. Il limite, tuttavia, della salvaguardia della diversità minoritaria in seno alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è però la ascrivibilità della protezione alle sole minoranze nazionali intese, secondo l’interpretazione maggioritaria, in senso etnico e razziale ([18]); aspetto, peraltro, ribadito anche dalla direttiva 2000/43/CE ([19]) del Consiglio dei Ministri dell’Unione, datata 29 giugno 2000 ed attuata nell’ordinamento italiano con D.Lgs. n. 215/2003 ([20]), a seguito della quale gli Stati membri della Comunità si impegnano a vietare qualsiasi atto discriminatorio basato sulla razza o l’origine etnica, facendo salve, all’art. 5, le azioni positive degli Stati dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con l’appartenenza ad una determinata etnia.

In questo contesto, la formulazione dell’art. 2 del Trattato di Lisbona nella parte in cui modifica il Trattato UE, risulta illuminante dal momento che, nel prevedere che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di Diritto e del rispetto dei diritti umani”, ricomprende anche “i diritti delle persone appartenenti ad una minoranza” senza alcun tipo di aggettivazione. Il che significa, da un lato, sulla scia di quanto emerso dalla analisi e dallo studio della Convenzione-Quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995, il riconoscimento di veri e propri diritti soggettivi in capo ai soggetti minoritari, dall’altro, l’instaurazione di una forma di tutela onnicomprensiva che trascende la dimensione etnico-razziale nonché la ricorribilità alla Corte di Giustizia UE a garanzia delle pretese dei singoli componenti una realtà minoritaria nell’eventualità di una lesione nell’esercizio dei loro diritti. La Costituzione Europea prima ed il Trattato di Lisbona ora, non vogliono espropriare i 27 Stati dell’Unione della disciplina di una materia così delicata rispetto alla quale la Comunità svolge un ruolo sussidiario ed integrativo. L’art. 6, 3° comma, infatti, del Trattato di Lisbona nella parte in cui incide sul Trattato UE indica come, in tema di diritti fondamentali, la politica comunitaria si informi tanto alla CEDU quanto soprattutto “alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”: in altri termini, sul piano della tutela delle minoranze e dei diritti in generale, si cerca di sottolineare e valorizzare il “rapporto di filiazione” ([21]) del Trattato rispetto alle Costituzioni nazionali, inaugurando “un indirizzo di interpretazione adeguatrice delle disposizioni della prima rispetto a quelle delle Costituzioni nazionali” ([22]).

L’attivismo dimostrato negli ultimi anni dal legislatore sia statale che locale verso la protezione delle minoranze se, da un lato, “si inserisce nel trend sotteso alle iniziative del Consiglio d’Europa e nel diffuso orientamento degli Stati di regolare mediante Trattati bilaterali o multilaterali le situazioni minoritarie di confine anche valorizzando strumenti della cooperazione transfrontaliera” ([23]), dall’altro lato, “non può far riflettere sulle eventuali ripercussioni che l’introduzione di un regime derogatorio e speciale, quale quello diretto alla protezione delle minoranze linguistiche, è suscettibile di produrre nei confronti della restante popolazione, che rischia di venirsi a trovare, a sua volta e paradossalmente, in una situazione di svantaggio, senza trascurare le conseguenze di natura finanziaria che simili interventi inevitabilmente impongono in misura più o meno considerevole” ([24]). Proprio al fine di evitare forme di discriminazione all’incontrario (la c.d. reverse discrimination), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha provato, non sempre riuscendoci in modo pieno, un punto di equilibrio tra tutela minoritaria e parità di trattamento dei cittadini degli Stati membri ossia ha cercato di risolvere l’eterna dicotomia tra protezione speciale e differenziata delle minoranze e principio di eguaglianza. Il c.d. caso Bickel cercherà di chiarire i termini della questione: un camionista austriaco ed un turista tedesco erano stati sottoposti a procedimenti penali nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol, essendo stati fermati per guida in stato di ebbrezza, il primo, e per possesso di un coltello proibito, il secondo. Entrambi avevano dichiarato di non conoscere la lingua italiana ed avevano chiesto che il procedimento a loro carico si svolgesse in lingua tedesca, in base alle disposizioni normative poste a tutela comunità tedesca della Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen. Il Pretore di Bolzano, nutrendo dubbi sull’applicabilità, ai sensi del diritto comunitario, delle norme previste per i cittadini della Provincia di Bolzano/Bozen ai cittadini di altri Stati membri che si rechino nella stessa Provincia, aveva sospeso il procedimento e sottoposto, ex art. 177 Trattato CE, alla Corte di Giustizia sull’interpretazione degli artt. 12, 18 e 49 Tr. La stessa, con sentenza 24 novembre 1998, causa C-274/96, Horst Otto Bickel e Ulrich Franz ([25]), ritiene che la mancata applicazione della disciplina prevista per la minoranza tedesca altoatesina ai cittadini di lingua tedesca degli altri Stati membri, costituisce una violazione del principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 Trattato CE nonché di quello della libera circolazione all’interno del territorio dell’Unione da parte dei cittadini comunitari. Innanzi all’obiezione del Governo italiano secondo la quale tale normativa è diretta a tutelare esclusivamente la minoranza etnico-culturale residente nella Provincia bolzanina e che, a garanzia del diritto di difesa, erano praticabili altre soluzioni come il diritto all’interprete, ex art. 143 c.p.p., la Corte non le prende minimamente in esame sostenendo che la tutela di una minoranza può certo costituire un obiettivo legittimo, ma non risulta “che l’estensione della normativa controversa ai cittadini di lingua tedesca di altri Stati membri che esercitano il loro diritto di libera circolazione lederebbe tale obiettivo” ([26]).

Pur senza ledere l’obiettivo della protezione della minoranza tedesca insediata nella Provincia di Bolzano/Bozen, la mera estensione della disciplina legislativa riservata al gruppo di lingua tedesca, ha constatato la dottrina, tende comunque “ad alimentare una serie di disparità di trattamento, sia nei confronti di altri cittadini italiani, sia nei confronti di cittadini degli Stati membri che circolino e soggiornino nel territorio italiano” ([27]). Con riferimento agli altri cittadini italiani, va osservato come la garanzia, predisposta dall’art. 109 c.p.p., circa la possibilità che un cittadino della Repubblica, appartenente ad una minoranza, chieda, innanzi ad una autorità giudiziaria avente competenza in primo grado o in appello, di essere sentito, interrogato o esaminato nella madrelingua con redazione del relativo verbale nella lingua medesima, valga unicamente nel territorio (la c.d. minority area) ove è insediato un gruppo minoritario, mentre, con riferimento ai cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, trova applicazione soltanto il disposto codicistico di cui all’art. 143 c.p.p. che contempla il c.d. diritto all’interprete, attivabile ed azionabile nella circostanza e nell’ipotesi in cui un soggetto indagato o un imputato, nell’ambito di un procedimento penale, si trovi in uno stato di non conoscenza della lingua italiana ([28]).

In modo ancora più drastico e diretto rispetto al caso Bickel, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee interviene, con la sentenza 6 giugno 2000, causa C-281/98, Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano S.p.a. ([29]) al fine di cercare un punto di congiuntura tra diritto comunitario e tutela minoritaria all’interno dell’ordinamento nazionale italiano, finendo, però, per interrogarsi circa il fatto se alcuni istituti a salvaguardia dei gruppi tedesco e ladino della Provincia di Bolzano/Bozen, funzionali per garantire quote di posti negli organici, in ragione della comunità linguistica, in tutte le amministrazioni e nei servizi di pubblico interesse (la c.d. proporzionale etnica), siano compatibili con le libertà fondamentali previste dal Trattato CE e, più in generale, con i principi di eguaglianza e dello Stato di Diritto su cui si fondano sia la Costituzione europea sia quella italiana.

Roman Angonese è un cittadino italiano di lingua tedesca, che si reca in Austria per motivi di studio tra il 1993 ed il 1997. Nel 1997 si candida ad un concorso per un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio. La domanda viene respinta dal momento che il candidato non è in possesso dell’attestato di bilinguismo (c.d. patentino), pre-requisito per l’accesso all’impiego, rilasciato dalla Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen in conformità alla normativa di attuazione dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige/SudTirol dedicata alla distribuzione proporzionale dei posti pubblici ed alla peculiare dichiarazione di appartenenza o aggregazione al gruppo linguistico in occasione del censimento generale della popolazione ([30]).

Al di là dei forti dubbi che la dottrina ha manifestato circa la competenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee a conoscere ed essere competente a giudicare in merito al caso di specie ([31]), quello che qui risulta interessante è l’atteggiamento del giudice di Strasburgo che sembra sussumere direttamente nell’art. 39 Trattato CE (la libera circolazione dei lavoratori nel territorio UE), ritenendolo suscettibile di applicazione immediata, la disposizione di cui all’art. 7 n. 4 del regolamento CE n. 1612/1968 ([32]) secondo il quale “tutte le clausole dei contratti collettivi o individuali o di altre regolamentazioni collettive concernenti l’accesso all’impiego……sono nulle di diritto nella misura in cui prevedano o autorizzino condizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli Stati membri”. Pertanto, come già ribadito nella sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman ([33]), il divieto di discriminazione ed il principio della libera circolazione dei lavoratori non possono, in alcun modo, trovare ostacolo nell’autonomia giuridica di enti di natura privatistica. Con particolare attenzione al problema minoritario, la pronuncia 6 giugno 2000 in C-281/98, costituisce una evoluzione in merito al tema de quo. Se, già con il caso Bickel-Franz, il giudice comunitario aveva espressamente riconosciuto che la protezione delle minoranze rappresenta uno “scopo legittimo” anche per l’ordinamento dell’Unione Europea, pronunciandosi, per la prima volta, su una materia nuova e delicatissima, anche e soprattutto in riferimento ai c.d. criteri di Copenaghen che postulano, in vista del continuo allargamento ad est dell’UE una effettiva tutela delle minoranze, con la sentenza relativa al caso Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano S.p.a., la Corte di Giustizia prosegue nel tentativo di porre paletti importanti rispetto alle modalità di attuazione del principio di salvaguardia dei gruppi minoritari. In altri termini, la Corte non contesta la presenza di discipline ed istituti speciali, in dati territori, al fine di garantire una adeguata protezione delle minoranze etnico-linguistiche, ma, e questo è il punto innovativo, obbliga, nota il Palermo, “ad una interpretazione e ad una “gestione” delle normative speciali tali da costituire il migliore punto di equilibrio tra le esigenze di specialità e tutela collettiva da un lato e la garanzia di condizioni se non eguali almeno non irragionevolmente o sproporzionalmente differenti tra i cittadini europei dall’altro” ([34]). Se, dunque, è ragionevole limitare di fatto la libertà di circolazione per la Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen o per qualunque altro territorio bilingue in Europa, attraverso il requisito della conoscenza delle due lingue ufficiali per l’accesso all’impiego, non è ragionevole che la sussistenza di questo requisito possa essere accertata esclusivamente e preventivamente dalle autorità locali di un ente territoriale di uno Stato membro. Ogni normativa speciale di tutela, pertanto, dovrà tenere conto dei parametri di funzionalità e non discriminazione dettati dalla giurisprudenza comunitaria senza che, la insoddisfacente copertura normativa dell’art. 13 Trattato CE, divenga un ostacolo insormontabile dal momento che saranno sempre e comunque gli Stati membri a legiferare sulle minoranze, lasciando alla Corte il ruolo, non secondario, di effettuare un bilanciamento di interessi (il c.d. Abwagung) tra le esigenze individuali o, in termini più propriamente costituzionalistici di eguaglianza formale e salvaguardia di situazioni collettive in potenziale contrasto con le libertà fondamentali del Trattato (eguaglianza sostanziale).



([1]) Il Trattato della Comunità Europea, è stato adottato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato con l. ordinaria dello Stato 14 ottobre 1957 n. 1203 (in G.U. 23 dicembre 1957 n. 317).

([2]) Sul punto, F. PALERMO-J. WOELK, Diritto Costituzionale comparato dei Gruppi e delle Minoranze, Padova, Cedam, 2008, p. 94.

([3]) Art. 12, 1°comma, Trattato CE: “Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.

([4]) Cfr., A. PIZZORUSSO, Maggioranze e minoranze, Torino, Giappichelli, 1993, p. 43 e ss.

([5]) Il Trattato di Amsterdam è stato firmato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1 gennaio 1999 a seguito della l. ordinaria dello Stato di autorizzazione alla ratifica n. 209/1998 (in G.U. 6 luglio 1998 n. 155. Supp. Ord.).

([6]) Cfr., art. 151, 1°comma, Trattato CE come modificato dal Trattato di Amsterdam

([7]) Cfr., art. 151, 4°comma, Trattato CE come modificato dal Trattato di Amsterdam

([8]) La Carta non costituisce uno strumento giuridico in senso stretto non essendo stata adottata sotto forma di Trattato. E’ stata solennemente proclamata dal Parlamento Europeo, dal Consiglio e dalla Commissione a Nizza il 7 dicembre 2000. Per il testo integrale, si veda G.U. dell’Unione Europea 18 dicembre 2000 C. 364.

([9]) Sull’incorporamento della Carta di Nizza nel nuovo Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, R. BIN-P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 146-158.

([10]) Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, pone fine alla crisi dell’Unione Europea, durata più di due anni e iniziata dopo i “no” francese ed olandese al Trattato che adottava una Costituzione per l’Europa. Il Trattato modificherà il Trattato UE ed il Trattato CE. In particolare, quest’ultimo assumerà la denominazione di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea mentre saranno apportate modifiche al primo. Il Trattato di Lisbona non sostituisce ai Trattati esistenti un nuovo, unico testo, bensì “integra” nei Trattati vigenti le innovazioni già contenute nella Costituzione Europea.

([11]) Il Testo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, si ricava da G.U. Unione Europea serie c del 14 dicembre 2007.

([12]) Sulle novità del Trattato di Lisbona, B. NASCIMBENE-A. LANG, Il Trattato di Lisbona : l’Unione Europea ad una svolta ?, in Corr. Giur., 2007.

([13]) Cfr., art. 22 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e art. II-82 del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa.

([14]) Cfr., art. 21, 1° comma, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

([15]) Così, A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (a cura di) L’Europa dei Diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 172.

([16]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 172.

([17]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 176.

([18]) A. CELOTTO, Commento agli artt. 21-22 della Carta di Nizza, op. cit., p. 177.

([19]) In G.U. Unione Europea serie L del 19 luglio 2000, pp. 22-26.

([20]) In G.U. 12 agosto 2003 n. 186.

([21]) Si veda, ancora, R. BIN-P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione Europea, op. cit., p. 152.

([22]) Da questo punto di vista, appaiono di notevole interesse alcune decisioni del Tribunale Costituzionale spagnolo del 13 dicembre 2004 (DTC 1/2004) e del Consiglio Costituzionale francese del 19 novembre 2004 (décision n. 2004-505).

([23]) Cfr., V. PIERGIGLI, Le minoranze linguistiche nell’ordinamento italiano: recenti sviluppi normativi, in A. D’Aloia (a cura di) Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano, Giuffrè, 2003, p. 29.

([24]) Cfr., V. PIERGIGLI, Le minoranze linguistiche nell’ordinamento italiano: recenti sviluppi normativi, op. cit., p. 29.

([25]) Si veda per un commento alla sentenza in esame, E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., n. 1/1999, p. 171 e ss.

([26]) Punto 29 della sentenza.

([27]) E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, op. cit., p. 172.

([28]) La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, cita, a sostegno di questa sua decisione, il caso Mutsch (sent. 11 luglio 1985, causa 137/84, in Racc., p. 2681 e ss.). Ma nel caso Mutsch la questione si presentava, come vedremo, in termini assai differenti. Robert Mutsch, cittadino lussemburghese, residente in Belgio in un Comune di lingua tedesca, condannato in contumacia ad un’ammenda, aveva chiesto l’applicazione dell’art. 17 della legge 15 giugno 1935 relativa all’uso delle lingue in materia giudiziaria secondo il quale “qualora l’imputato di cittadinanza belga risieda in un Comune di lingua tedesca ubicato nel circondario del Tribunal correctionel di Verviers e ne faccia richiesta nelle forme prescritte dall’art. 16, il procedimento davanti al predetto organo giurisdizionale si svolge in tedesco”. La Cour d’Appel di Liegi, nutrendo dubbi sulla compatibilità di tale disposizione normativa con il diritto comunitario nella parte in cui riserva tale facoltà ai soli cittadini belgi, aveva sollevato una questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia. La Corte risolse la queastio de qua nel senso che il principio della libera circolazione dei lavoratori, stabilito dal Trattato (all’epoca art. 48 Tr. CE) esigeva ed esige che al lavoratore cittadino di uno Stato membro e residente in un altro Stato membro venga riconosciuto il diritto che un procedimento penale iniziato nei suoi confronti si svolga in una lingua diversa da quella processuale usata di regola dinnanzi al giudice investito della causa qualora i lavoratori nazionali possano, nelle stesse condizioni, avvalersi di questo diritto. La principale differenza tra il caso Bickel ed il caso Mutsch consiste che, nel caso primo, Bickel e Franz transitavano nel territorio italiano rispettivamente come camionista e turista, nel secondo, invece, Mutsch era sì un cittadino del Lussemburgo ma residente in Belgio in quella parte in cui è concentrata la minoranza di lingua tedesca sicchè non vi sarebbe stato motivo di escluderlo dal trattamento riservato ai cittadini di lingua tedesca in base alla disposizione del Trattao che vieta ogni discriminazione fondata sulla nazionalità. Anzi, nel caso Bickel, lo stesso Governo italiano aveva sostenuto la applicabilità della disciplina riservata ai cittadini di di lingua tedesca della Provincia di Bolzano/Bozen anche ai cittadini di lingua tedesca degli altri Stati membri se residenti all’interno del territorio provinciale.

([29]) Cfr., F. PALERMO, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., n. 2/2000, p. 969 e ss.

([30]) Si veda il D.Lgs. n. 752/1972. In G.U. 15 novembre 1976 n. 304.

([31]) Come segnalato dal Governo italiano e dalla conclusioni dell’ Avvocato generale Fennelly, la causa riguardava un cittadino italiano residente in Italia che ha adito l’autorità giudiziaria italiana lamentando l’illegittimitàdi un atto di una società italiana. Sembra, dunque, trattarsi di un caso interno, mancando un fattore di collegamento con il diritto comunitario tala da giustificare l’intervento della Corte di Giustizia.

([32]) In G.U.C.E 19 ottobre 1968, serie L, n. 257.

([33]) In Racc., p. 4921.

([34]) In questa direzione, F. PALERMO, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, op. cit., p. 972.