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Lo spoil system visto dalla Corte Costituzionale: il rapporto tra politica e amministrazione

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 20 maggio 2008, n.161

1. PREMESSA

Nella sentenza n. 161 del 20 maggio 2008, la Corte Costituzionale è ritornata – a distanza di un anno dalle sentenze nn. 103/2007 e 104/2007 – sul tema della dirigenza pubblica e della distinzione tra politica e amministrazione.

La pronuncia, ampiamente articolata e ricca di spunti, si sforza, fra l’altro, di fornire delle chiavi interpretative per comprendere quale possa essere nel nostro ordinamento l’identità e lo spazio di applicazione effettivo dello spoil system.

Con la sentenza in esame, pronunciata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale attivato dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 161, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n. 286, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che gli incarichi attribuiti ai dirigenti ’esterni’ "conferiti prima del 17 maggio 2006 cessano ove non confermati entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto". La norma denunciata, infatti, prevedendo l’immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge, in mancanza di riconferma, è stata considerata lesiva - in carenza di idonee garanzie procedimentali - dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, del principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa.

Nel motivare la propria decisione, i giudici costituzionali si richiamano alle sentenze nn. 103 e 104 del 2007 con cui, lo scorso anno, hanno censurato le forme più estreme di spoil system. Con la prima sentenza, la n. 103, pronunciata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale attivato con quattro ordinanze di rimessione del Tribunale di Roma la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità, in parte qua, dell’art. 3, comma 7, della legge del 15 luglio 2002, n. 145 (c.d. legge Frattini), disciplinante il cd. spoil system una tantum, nella parte in cui disponeva che “i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione”. Con la successiva sentenza (n. 104), invece, seguendo lo stesso indirizzo interpretativo, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni della Regione Lazio e della Regione Sicilia, entrambe volte a prevedere la decadenza automatica dei dirigenti generali e/o di livello inferiore alla data di insediamento del nuovo organo di vertice politico.

L’iter logico-giuridico seguito dalla Corte ha avuto come risultato finale un ridimensionamento dello spoil system – meccanismo per cui a ogni tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento, dei consigli regionali e comunali cambiano i vertici burocratici dei ministeri, assessorati e altri enti pubblici – sebbene con decisione del 16 giugno 2006, n. 233 ne avesse, in sostanza, affermato la conformità a costituzione, ove riconducibile a nomine intuitu personae.

Si tratta, com’è noto, di un modello che ha origine negli Stati Uniti, un paese nel quale fino ad epoca relativamente recente mancava una burocrazia fortemente professionalizzata e, pertanto, ogni presidente neo eletto riempiva i ranghi più alti delle amministrazioni con propri fiduciari, scelti anche secondo il criterio di ricompensare i propri adepti per i favori e l’appoggio concessi nel corso della campagna elettorale.

Nel sistema italiano è nato con lo scopo di dotare la P.A. di professionalità provenienti dal mondo esterno, anche a fronte del blocco dei concorsi pubblici ed è divenuto, nella sua distorta applicazione, uno strumento attraverso il quale si è, nella gran parte dei casi, favorito l’innalzamento delle nomine clientelari.

La giurisprudenza non ha mancato di evidenziare come lo spoil system appaia assai contrastante con il principio ispiratore della riforma del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica, ossia con l’esigenza di distinguere tra politica ed amministrazione, nonché con i principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità ex art. 97 Cost. Il meccanismo, infatti, subordina la decadenza dall’incarico ad un evento oggettivo (l’insediamento di un nuovo Governo) e non all’idoneità all’incarico.

2. LA DIRIGENZA PUBBLICA DAL D.LGS. 29/1993 ALLA L. 145/2002.

Per comprendere appieno le argomentazioni addotte dalla Corte Costituzionale a fondamento delle proprie decisioni, è utile per schemi e passaggi essenziali soffermarsi sugli aspetti rilevanti della complessa evoluzione legislativa che ha investito il settore della dirigenza pubblica e, in particolare, sul rapporto tra politica e amministrazione.

Occorre, al riguardo, partire dalla cosiddetta “prima privatizzazione” della dirigenza, esaminando come sia stata in concreto regolamentata la relazione tra vertice politico e dirigenti sul piano delle rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la contrattualizzazione del rapporto di servizio, l’introduzione del principio di temporaneità degli incarichi, nonché, infine, la previsione della cessazione ex lege degli incarichi stessi.

Come è noto, il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) ha provveduto alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, superando, ad eccezione di taluni settori, il tradizionale regime pubblicistico e stabilendo l’applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato (art. 2, comma 2), «ritenuta più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma».

Questo processo ha investito anche il settore della dirigenza: l’art. 2, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1993, nella sua versione originaria, escludeva, però, espressamente dalla contrattualizzazione del rapporto di impiego i «dirigenti generali».

La riforma del 1993 ha, infatti, dettato una disciplina differenziata della dirigenza che ha preso le mosse proprio dalla diversità delle fonti di regolazione del rapporto.

In particolare, l’art. 21 del citato d.lgs. ha stabilito che i dirigenti generali dovessero essere nominati «con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente» e che l’incarico fosse conferito a soggetti in possesso dei requisiti prescritti dal medesimo art. 21.

Ai dirigenti generali in servizio presso l’amministrazione interessata era previsto il conferimento – con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei ministri – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2).

Ai dirigenti non generali, invece, la legge in esame ha autorizzato il conferimento – con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale», con la possibilità dell’attribuzione di incarichi per l’esercizio della funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca «di livello dirigenziale» (art. 19, comma 3).

Con riferimento al profilo relativo al rapporto tra politica e amministrazione, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 ha previsto che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi risultati.

Le innovazioni legislative introdotte negli anni 1997–1998 hanno, da un lato, completato, sul piano strutturale, il processo di contrattualizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti, modificando rilevanti aspetti della previgente disciplina, in relazione anche alle modalità di svolgimento degli incarichi dirigenziali; dall’altro, hanno accentuato, sul piano funzionale, la distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori.

In particolare, i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387 hanno modificato, in più parti, il d.lgs. n. 29 del 1993 estendendo il regime della contrattualizzazione ai dirigenti generali, i quali, pertanto, non sono più inclusi nell’ambito del personale che è, invece, rimasto disciplinato, in deroga alla regola della privatizzazione, secondo il previgente regime di diritto pubblico (vedi il nuovo art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993).

L’art. 19 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo modificato dai citati decreti, ha previsto tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l’organo politico.

Innanzitutto, sono stati previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta degli incarichi dirigenziali “apicali”, conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della prima fascia del ruolo unico (art. 19, comma 3).

Sono stati poi contemplati «gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della «prima fascia del ruolo unico o, in misura non superiore ad un terzo, ai dirigenti del medesimo ruolo unico» ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso di specifiche qualità professionali (comma 4). Ed è su tale tipologia di incarichi che vertono le disposizioni censurate in questa sede.

Infine, sono stati previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (comma 5).

Detto ciò, va sottolineato che per tutti i predetti incarichi, per espressa previsione contemplata al comma 2 del novellato art. 19, è stato previsto il conferimento «a tempo determinato», in tal modo introducendosi, a livello legislativo, il principio di temporaneità degli incarichi, aventi «durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni con facoltà di rinnovo». La stessa disposizione ha puntualizzato che tale durata dovesse essere definita contrattualmente unitamente all’oggetto e agli obiettivi da conseguire.

Quanto, poi, alla scadenza dell’incarico, si è stabilito, in mancanza di riconferma, il “collocamento in disponibilità” dell’interessato presso il ruolo unico. In particolare, secondo il comma 10 dello stesso art. 19, «i dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento».

Autorevoli voci, tuttavia, si erano levate contro la stessa possibilità di attribuire incarichi a tempo determinato, in quanto si riteneva che la temporaneità dello stesso, da un lato, e la rinnovabilità con decisione rimessa agli organi politici, dall’altro, rappresentassero una illegittima forma di pressione sul dirigente. A ben vedere, la temporaneità delle funzioni dirigenziali, ai tre livelli non è, tuttavia, ex se contraria alla Costituzione ed appare una logica conseguenza della contrattualizzazione della dirigenza e della previsione di una sua responsabilità dirigenziale in ordine al raggiungimento dei risultati attesi e prefissati. Se vi è predeterminazione degli obiettivi, se vi è valutazione del grado di loro raggiungimento e dell’apporto personale del dirigente al risultato, l’incarico non può che essere configurato come a tempo determinato: al termine del periodo stabilito una valutazione negativa sul raggiungimento dei risultati può condurre al mancato rinnovo dell’incarico.

È stata anche sancita la cessazione dell’incarico come misura conseguente all’accertamento di una responsabilità dirigenziale. Il successivo art. 21, prima delle modifiche apportate dalla legge n. 145 del 2002, ha, infatti, stabilito che «i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi» avrebbero potuto comportare «la revoca dell’incarico […] e la destinazione ad altro incarico». Il comma 2 dello stesso art. 21 ha, altresì, previsto che «nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o di ripetuta valutazione negativa (…), il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi, di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni». Infine, quale terza tipologia di misura, si è disposto che «nei casi di maggiore gravità», riferiti alle fattispecie da ultimo menzionate, l’amministrazione avrebbe potuto recedere dallo stesso rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.

In sintesi può dirsi che gli interventi normativi adottati hanno evidenziato il divario funzionale tra gli organi politici, ai quali spettano compiti di indirizzo politico-amministrativo, e i dirigenti, ai quali invece vengono riservati compiti di gestione e attuazione dell’azione amministrativa.

Sul punto, inoltre, a totale chiarimento delle modifiche normative succedutesi nel tempo, è pure intervenuta l’ordinanza n. 11 della Corte Costituzionale, emessa il 30 gennaio 2002. Al riguardo, tale ultima ordinanza ha chiarito che, nonostante l’intervenuta privatizzazione del pubblico impiego, i dirigenti generali sono, comunque, tenuti a svolgere le loro funzioni nel pieno e conforme rispetto del principio di imparzialità e di buon andamento della P.A., in puntuale ossequio agli artt. 97 e 98 della Costituzione. A tale risultato si deve pervenire tenendo ben distinte le funzioni di indirizzo politico-ammistrativo, proprie dell’organo politico, da quelle di gestione e attuazione amministrativa, spettanti ai dirigenti. La soluzione interpretativa, adottata dalla Consulta con la ricordata ordinanza, quindi, altro non rappresenta, se non la estrinsecazione di quanto previsto dall’art. 14 del d.lgs. n. 29/933, in forza del quale i rapporti tra politica e amministrazione non possono essere fondati su un mero rapporto gerarchico bensì come il coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due differenziati livelli. In tale quadro lo spoil system ha rappresentato, all’epoca della sua entrata in vigore, lo strumento di raccordo attraverso il quale si è voluto rimandare, sia pure per talune figure dirigenziali apicali, una relazione di continuità tra politica e amministrazione, che ha visto però quest’ultima soccombere alle istanze provenienti dal mondo politico.

Le disposizioni normative richiamate, a seguito della novella dei primi anni novanta e di quelle intervenute successivamente, sono tutte integralmente confluite nel T.U sul pubblico impiego (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), per come modificato e integrato.

Giova ricordare che il legame tra il dirigente apicale e la P.A. risulta essere disciplinato in due ben distinti rapporti, ancorché l’uno complementare all’altro. Il comma 2 dell’art. 19 del d.lgs n. 165/01 stabilisce, infatti, che l’incarico dirigenziale viene conferito con un provvedimento amministrativo, detto anche di alta amministrazione, nel quale sono determinati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire. La opzione adottata dal legislatore di attribuire l’incarico dirigenziale mediante un provvedimento amministrativo trova la sua ragione giustificatrice in due motivazioni; la prima, rappresentata dal fatto che l’amministrazione conferisce (e, quindi, aveva la facultas di revocare) incarichi dirigenziali nell’esercizio di un proprio potere autoritativo, fondando la scelta su un rapporto intuitus personae, di esclusiva natura fiduciaria, tra quanti siano in possesso dei prescritti requisiti di legge; la seconda - in linea con l’originaria ratio dello spoil system nord-americano – poggia la sua ragione d’essere nell’attribuzione in capo all’organo di Governo del potere di dotarsi di un apparato dirigenziale fiduciario e, soprattutto, strumentale all’azione politica.

Lo statuto giuridico della dirigenza pubblica, inoltre, è stato modificato dalla Legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato) che, in particolare, all’art. 3, comma 7, conteneva una disciplina transitoria (dichiarata incostituzionale dalla sentenza 103/2007) che prevedeva la cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali interni di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.

Per aggirare l’ostacolo, infine, il decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 ha trattato l’ipotesi di dirigenti esterni provenienti da altra amministrazione pubblica, stabilendo – con norme transitorie – che tali incarichi dirigenziali cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge stesso.

3. IL PERCORSO DECISIONALE DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA SENTENZA N. 161/2008

La Consulta si trova di fronte al problema di verificare se il meccanismo di decadenza contemplato dal decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 si diversifichi da quello scrutinato con la sentenza n. 103 del 2007. Infatti, l’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 prevedeva la cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali interni di livello generale, mentre l’art. 2, comma 161, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 prevede una ipotesi di cessazione anticipata – non automatica, bensì subordinata al potere di conferma dell’organo politico – dall’incarico di dirigenti esterni dipendenti da “altre” amministrazioni.

Nel primo caso, l’atto di conferimento dell’incarico ai dirigenti di ruolo e il contratto individuale cui esso accede si innestano, con funzione integrativa, su un rapporto di servizio già esistente con l’amministrazione statale. Nella seconda fattispecie, invece, l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale e il correlato contratto individuale, avente ad oggetto la definizione del trattamento economico, hanno una loro autonomia, atteso che il personale esterno dipendente da “altre” amministrazioni statali mantiene la propria specifica fonte di regolazione del rapporto base.

La Corte giunge alla conclusione che le descritte diversità strutturali relative alle modalità di conferimento dei suddetti incarichi non siano idonee a determinare l’applicazione di princípi diversi, sul piano funzionale, da quelli di cui alla sentenza n. 103 del 2007, in relazione alla distinzione tra attività di indirizzo politico amministrativo e compiti gestori dei dirigenti.

Anche per i dirigenti esterni il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve essere «connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione».

La Corte precisa che il rispetto dei suddetti princípi è necessario al fine di garantire che «il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai princípi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)». Tali princípi stanno «alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, la quale, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al “servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento» (sentenza n. 103 del 2007). In definitiva, dunque, la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.

A nulla rileva, inoltre, che nella disposizione di cui al decreto legge n. 262 del 2006 è previsto il potere di conferma dell’organo politico da esercitarsi entro sessanta giorni. Il potere ministeriale di conferma non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso alcuna garanzia di autonomia funzionale, atteso che dalla mancata conferma la legge fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale.

Alla luce di queste considerazioni, la Consulta ritiene che la norma denunciata, prevedendo la immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge n. 262 del 2006, in mancanza di riconferma, víoli, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa». Ciò in quanto la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale – impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità ad un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza «alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita».

È necessario, pertanto, garantire «la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato».

A ben vedere, l’esistenza di una preventiva fase valutativa, risulta «essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, il rispetto dei princípi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa».

Solo per i dirigenti apicali (segretario generale, capo di dipartimento, ecc.) il rapporto fiduciario stretto potrebbe prevalere su queste esigenze. La dirigenza generale, invece, è sottratta a forme di spoil system non collegate a un qualche meccanismo di accertamento in concreto e in contraddittorio della responsabilità dirigenziale.

Pregevole appare l’interpretazione fornita dalla Corte in riferimento al principio di imparzialità e di buon andamento, ricostruito sulla base della elaborazione giurisprudenziale intercorsa negli anni. Il principio di imparzialità, strettamente connesso a quello di legalità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., rappresenta un valore essenziale cui deve uniformarsi l’intera organizzazione dei pubblici uffici. Dai lavori preparatori della Costituente è possibile rinvenire la reale essenza dell’art. 97 Cost., quella appunto di assicurare una netta indifferenza dell’apparato dirigenziale rispetto alla volontà della politica. La scelta dei soggetti più idonei e funzionali all’amministrazione per l’esercizio e lo svolgimento dell’azione pubblica deve avvenire indipendentemente dalle valutazioni dell’apparato governativo. La valutazione tecnica, infatti, deve essere effettuata sulla base di scelte obiettive, senza alcuna ingerenza di carattere politico. I risultati interpretativi cui è pervenuta la Consulta presuppongono - per il massimo e concreto soddisfacimento dei principi di imparzialità e di buon andamento amministrativo - la copertura di adeguate garanzie di continuità nell’incarico e di stabilità della dirigenza. Una scelta dell’organo politico di pervenire alla revoca ante tempus di dirigenti non solo condiziona l’operato della amministrazione ma crea evidenti scompensi alla continuità amministrativa. La Corte Costituzionale, di fatto, auspica un sistema di revoca di tipo sanzionatorio, da applicarsi all’esito delle verifiche obiettive, allo stato attuale del tutto inadeguate. L’ingerenza della politica, sia per quanto riguarda le nomine dei dirigenti che per l’effettiva realizzazione dei controlli, ha creato in seno all’amministrazione una situazione fattuale, nella quale l’intero apparato dirigenziale ha vissuto sino ad oggi in un stato di precariato. Proprio a tale scopo, un doveroso richiamo merita l’effettivo ruolo assunto in tale occasione dalla Corte.

Risulta, dunque, necessario un intervento legislativo volto ad adeguare l’impianto normativo alle problematiche e alle esigenze denunciate dal Giudice costituzionale. E’, infatti, inevitabile che il legislatore si faccia carico di costituire un meccanismo di verifica oggettivo e funzionale e, soprattutto, non lasciato alla mercè della politica. Il tutto deve essere adeguatamente strutturato, avendo come unico obiettivo quello di favorire l’efficentismo nella gestione della cosa pubblica.

4. RILIEVI CONCLUSIVI

La sentenza esaminata, congiuntamente alle pronunce nn. 103 e 104 del 2007, ha sine dubio il merito di voler riscattare la dirigenza pubblica da un ruolo troppo subalterno all’organo politico, mediante il rafforzamento della responsabilità - accanto a quella disciplinare – per il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero per l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, sanzionata con l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico e, nei casi più gravi, con la revoca dell’incarico e addirittura con il recesso dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. 165/2001, come modificato dalla L. 145/2002).

Risulta, dunque, ampiamente condivisibile la necessità di procedere alla valutazione del dirigente pubblico attraverso un iter procedimentale, a prescindere dal ricambio governativo. Una buona amministrazione, deve essere messa al servizio della politica, non secondo una logica clientelare bensì funzionale.

In fondo, il principio della distinzione tra politica e amministrazione assegna comunque ai politici - la cui legittimazione discende dai meccanismi della rappresentanza democratica - il compito di dettare le direttive e di valutare ex post, con tutte le garanzie del caso, i dirigenti in relazione ai risultati effettivamente perseguiti. Il principio della primazia della politica, rettamente inteso, non è in discussione. Ciò che si vuole evitare è soltanto che all’interno di una Costituzione democratica, in base alla quale al potere si alternano i partiti politici, l’amministrazione si trasformi in “un’amministrazione di partiti”.



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

• CARINGELLA F., Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, 2007.

• CASSESE S., Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. Dir. Amm., n. 12, 2000.

• CLARICH M., Corte Costituzionale e spoils system, ovvero il ripristino di un rapporto più corretto tra politica e amministrazione.

• CORSO G. – FARES G., Quale spoyls systems dopo la sentenza 103 della Corte Costituzionale, in www.giustamm.it.

• D’ALESSIO G., La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, in www.giustamm.it, 2006.

• JORIO F., Lo spoil system viene nuovamente ridisegnato dal giudice delle leggi con le sentenze nn. 103 e 104 del 2007: stabilizzazione della dirigenza e giusto procedimento, in www.filodiritto.com, 11 aprile 2007.

• MERLONI F., Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna 2006.

1. PREMESSA

Nella sentenza n. 161 del 20 maggio 2008, la Corte Costituzionale è ritornata – a distanza di un anno dalle sentenze nn. 103/2007 e 104/2007 – sul tema della dirigenza pubblica e della distinzione tra politica e amministrazione.

La pronuncia, ampiamente articolata e ricca di spunti, si sforza, fra l’altro, di fornire delle chiavi interpretative per comprendere quale possa essere nel nostro ordinamento l’identità e lo spazio di applicazione effettivo dello spoil system.

Con la sentenza in esame, pronunciata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale attivato dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 161, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n. 286, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che gli incarichi attribuiti ai dirigenti ’esterni’ "conferiti prima del 17 maggio 2006 cessano ove non confermati entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto". La norma denunciata, infatti, prevedendo l’immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge, in mancanza di riconferma, è stata considerata lesiva - in carenza di idonee garanzie procedimentali - dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, del principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa.

Nel motivare la propria decisione, i giudici costituzionali si richiamano alle sentenze nn. 103 e 104 del 2007 con cui, lo scorso anno, hanno censurato le forme più estreme di spoil system. Con la prima sentenza, la n. 103, pronunciata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale attivato con quattro ordinanze di rimessione del Tribunale di Roma la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità, in parte qua, dell’art. 3, comma 7, della legge del 15 luglio 2002, n. 145 (c.d. legge Frattini), disciplinante il cd. spoil system una tantum, nella parte in cui disponeva che “i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione”. Con la successiva sentenza (n. 104), invece, seguendo lo stesso indirizzo interpretativo, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni della Regione Lazio e della Regione Sicilia, entrambe volte a prevedere la decadenza automatica dei dirigenti generali e/o di livello inferiore alla data di insediamento del nuovo organo di vertice politico.

L’iter logico-giuridico seguito dalla Corte ha avuto come risultato finale un ridimensionamento dello spoil system – meccanismo per cui a ogni tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento, dei consigli regionali e comunali cambiano i vertici burocratici dei ministeri, assessorati e altri enti pubblici – sebbene con decisione del 16 giugno 2006, n. 233 ne avesse, in sostanza, affermato la conformità a costituzione, ove riconducibile a nomine intuitu personae.

Si tratta, com’è noto, di un modello che ha origine negli Stati Uniti, un paese nel quale fino ad epoca relativamente recente mancava una burocrazia fortemente professionalizzata e, pertanto, ogni presidente neo eletto riempiva i ranghi più alti delle amministrazioni con propri fiduciari, scelti anche secondo il criterio di ricompensare i propri adepti per i favori e l’appoggio concessi nel corso della campagna elettorale.

Nel sistema italiano è nato con lo scopo di dotare la P.A. di professionalità provenienti dal mondo esterno, anche a fronte del blocco dei concorsi pubblici ed è divenuto, nella sua distorta applicazione, uno strumento attraverso il quale si è, nella gran parte dei casi, favorito l’innalzamento delle nomine clientelari.

La giurisprudenza non ha mancato di evidenziare come lo spoil system appaia assai contrastante con il principio ispiratore della riforma del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica, ossia con l’esigenza di distinguere tra politica ed amministrazione, nonché con i principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità ex art. 97 Cost. Il meccanismo, infatti, subordina la decadenza dall’incarico ad un evento oggettivo (l’insediamento di un nuovo Governo) e non all’idoneità all’incarico.

2. LA DIRIGENZA PUBBLICA DAL D.LGS. 29/1993 ALLA L. 145/2002.

Per comprendere appieno le argomentazioni addotte dalla Corte Costituzionale a fondamento delle proprie decisioni, è utile per schemi e passaggi essenziali soffermarsi sugli aspetti rilevanti della complessa evoluzione legislativa che ha investito il settore della dirigenza pubblica e, in particolare, sul rapporto tra politica e amministrazione.

Occorre, al riguardo, partire dalla cosiddetta “prima privatizzazione” della dirigenza, esaminando come sia stata in concreto regolamentata la relazione tra vertice politico e dirigenti sul piano delle rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la contrattualizzazione del rapporto di servizio, l’introduzione del principio di temporaneità degli incarichi, nonché, infine, la previsione della cessazione ex lege degli incarichi stessi.

Come è noto, il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) ha provveduto alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, superando, ad eccezione di taluni settori, il tradizionale regime pubblicistico e stabilendo l’applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato (art. 2, comma 2), «ritenuta più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma».

Questo processo ha investito anche il settore della dirigenza: l’art. 2, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1993, nella sua versione originaria, escludeva, però, espressamente dalla contrattualizzazione del rapporto di impiego i «dirigenti generali».

La riforma del 1993 ha, infatti, dettato una disciplina differenziata della dirigenza che ha preso le mosse proprio dalla diversità delle fonti di regolazione del rapporto.

In particolare, l’art. 21 del citato d.lgs. ha stabilito che i dirigenti generali dovessero essere nominati «con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente» e che l’incarico fosse conferito a soggetti in possesso dei requisiti prescritti dal medesimo art. 21.

Ai dirigenti generali in servizio presso l’amministrazione interessata era previsto il conferimento – con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei ministri – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2).

Ai dirigenti non generali, invece, la legge in esame ha autorizzato il conferimento – con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale», con la possibilità dell’attribuzione di incarichi per l’esercizio della funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca «di livello dirigenziale» (art. 19, comma 3).

Con riferimento al profilo relativo al rapporto tra politica e amministrazione, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 ha previsto che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi risultati.

Le innovazioni legislative introdotte negli anni 1997–1998 hanno, da un lato, completato, sul piano strutturale, il processo di contrattualizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti, modificando rilevanti aspetti della previgente disciplina, in relazione anche alle modalità di svolgimento degli incarichi dirigenziali; dall’altro, hanno accentuato, sul piano funzionale, la distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori.

In particolare, i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387 hanno modificato, in più parti, il d.lgs. n. 29 del 1993 estendendo il regime della contrattualizzazione ai dirigenti generali, i quali, pertanto, non sono più inclusi nell’ambito del personale che è, invece, rimasto disciplinato, in deroga alla regola della privatizzazione, secondo il previgente regime di diritto pubblico (vedi il nuovo art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993).

L’art. 19 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo modificato dai citati decreti, ha previsto tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l’organo politico.

Innanzitutto, sono stati previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta degli incarichi dirigenziali “apicali”, conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della prima fascia del ruolo unico (art. 19, comma 3).

Sono stati poi contemplati «gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della «prima fascia del ruolo unico o, in misura non superiore ad un terzo, ai dirigenti del medesimo ruolo unico» ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso di specifiche qualità professionali (comma 4). Ed è su tale tipologia di incarichi che vertono le disposizioni censurate in questa sede.

Infine, sono stati previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (comma 5).

Detto ciò, va sottolineato che per tutti i predetti incarichi, per espressa previsione contemplata al comma 2 del novellato art. 19, è stato previsto il conferimento «a tempo determinato», in tal modo introducendosi, a livello legislativo, il principio di temporaneità degli incarichi, aventi «durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni con facoltà di rinnovo». La stessa disposizione ha puntualizzato che tale durata dovesse essere definita contrattualmente unitamente all’oggetto e agli obiettivi da conseguire.

Quanto, poi, alla scadenza dell’incarico, si è stabilito, in mancanza di riconferma, il “collocamento in disponibilità” dell’interessato presso il ruolo unico. In particolare, secondo il comma 10 dello stesso art. 19, «i dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento».

Autorevoli voci, tuttavia, si erano levate contro la stessa possibilità di attribuire incarichi a tempo determinato, in quanto si riteneva che la temporaneità dello stesso, da un lato, e la rinnovabilità con decisione rimessa agli organi politici, dall’altro, rappresentassero una illegittima forma di pressione sul dirigente. A ben vedere, la temporaneità delle funzioni dirigenziali, ai tre livelli non è, tuttavia, ex se contraria alla Costituzione ed appare una logica conseguenza della contrattualizzazione della dirigenza e della previsione di una sua responsabilità dirigenziale in ordine al raggiungimento dei risultati attesi e prefissati. Se vi è predeterminazione degli obiettivi, se vi è valutazione del grado di loro raggiungimento e dell’apporto personale del dirigente al risultato, l’incarico non può che essere configurato come a tempo determinato: al termine del periodo stabilito una valutazione negativa sul raggiungimento dei risultati può condurre al mancato rinnovo dell’incarico.

È stata anche sancita la cessazione dell’incarico come misura conseguente all’accertamento di una responsabilità dirigenziale. Il successivo art. 21, prima delle modifiche apportate dalla legge n. 145 del 2002, ha, infatti, stabilito che «i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi» avrebbero potuto comportare «la revoca dell’incarico […] e la destinazione ad altro incarico». Il comma 2 dello stesso art. 21 ha, altresì, previsto che «nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o di ripetuta valutazione negativa (…), il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi, di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni». Infine, quale terza tipologia di misura, si è disposto che «nei casi di maggiore gravità», riferiti alle fattispecie da ultimo menzionate, l’amministrazione avrebbe potuto recedere dallo stesso rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.

In sintesi può dirsi che gli interventi normativi adottati hanno evidenziato il divario funzionale tra gli organi politici, ai quali spettano compiti di indirizzo politico-amministrativo, e i dirigenti, ai quali invece vengono riservati compiti di gestione e attuazione dell’azione amministrativa.

Sul punto, inoltre, a totale chiarimento delle modifiche normative succedutesi nel tempo, è pure intervenuta l’ordinanza n. 11 della Corte Costituzionale, emessa il 30 gennaio 2002. Al riguardo, tale ultima ordinanza ha chiarito che, nonostante l’intervenuta privatizzazione del pubblico impiego, i dirigenti generali sono, comunque, tenuti a svolgere le loro funzioni nel pieno e conforme rispetto del principio di imparzialità e di buon andamento della P.A., in puntuale ossequio agli artt. 97 e 98 della Costituzione. A tale risultato si deve pervenire tenendo ben distinte le funzioni di indirizzo politico-ammistrativo, proprie dell’organo politico, da quelle di gestione e attuazione amministrativa, spettanti ai dirigenti. La soluzione interpretativa, adottata dalla Consulta con la ricordata ordinanza, quindi, altro non rappresenta, se non la estrinsecazione di quanto previsto dall’art. 14 del d.lgs. n. 29/933, in forza del quale i rapporti tra politica e amministrazione non possono essere fondati su un mero rapporto gerarchico bensì come il coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due differenziati livelli. In tale quadro lo spoil system ha rappresentato, all’epoca della sua entrata in vigore, lo strumento di raccordo attraverso il quale si è voluto rimandare, sia pure per talune figure dirigenziali apicali, una relazione di continuità tra politica e amministrazione, che ha visto però quest’ultima soccombere alle istanze provenienti dal mondo politico.

Le disposizioni normative richiamate, a seguito della novella dei primi anni novanta e di quelle intervenute successivamente, sono tutte integralmente confluite nel T.U sul pubblico impiego (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), per come modificato e integrato.

Giova ricordare che il legame tra il dirigente apicale e la P.A. risulta essere disciplinato in due ben distinti rapporti, ancorché l’uno complementare all’altro. Il comma 2 dell’art. 19 del d.lgs n. 165/01 stabilisce, infatti, che l’incarico dirigenziale viene conferito con un provvedimento amministrativo, detto anche di alta amministrazione, nel quale sono determinati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire. La opzione adottata dal legislatore di attribuire l’incarico dirigenziale mediante un provvedimento amministrativo trova la sua ragione giustificatrice in due motivazioni; la prima, rappresentata dal fatto che l’amministrazione conferisce (e, quindi, aveva la facultas di revocare) incarichi dirigenziali nell’esercizio di un proprio potere autoritativo, fondando la scelta su un rapporto intuitus personae, di esclusiva natura fiduciaria, tra quanti siano in possesso dei prescritti requisiti di legge; la seconda - in linea con l’originaria ratio dello spoil system nord-americano – poggia la sua ragione d’essere nell’attribuzione in capo all’organo di Governo del potere di dotarsi di un apparato dirigenziale fiduciario e, soprattutto, strumentale all’azione politica.

Lo statuto giuridico della dirigenza pubblica, inoltre, è stato modificato dalla Legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato) che, in particolare, all’art. 3, comma 7, conteneva una disciplina transitoria (dichiarata incostituzionale dalla sentenza 103/2007) che prevedeva la cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali interni di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.

Per aggirare l’ostacolo, infine, il decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 ha trattato l’ipotesi di dirigenti esterni provenienti da altra amministrazione pubblica, stabilendo – con norme transitorie – che tali incarichi dirigenziali cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge stesso.

3. IL PERCORSO DECISIONALE DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA SENTENZA N. 161/2008

La Consulta si trova di fronte al problema di verificare se il meccanismo di decadenza contemplato dal decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 si diversifichi da quello scrutinato con la sentenza n. 103 del 2007. Infatti, l’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 prevedeva la cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali interni di livello generale, mentre l’art. 2, comma 161, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 prevede una ipotesi di cessazione anticipata – non automatica, bensì subordinata al potere di conferma dell’organo politico – dall’incarico di dirigenti esterni dipendenti da “altre” amministrazioni.

Nel primo caso, l’atto di conferimento dell’incarico ai dirigenti di ruolo e il contratto individuale cui esso accede si innestano, con funzione integrativa, su un rapporto di servizio già esistente con l’amministrazione statale. Nella seconda fattispecie, invece, l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale e il correlato contratto individuale, avente ad oggetto la definizione del trattamento economico, hanno una loro autonomia, atteso che il personale esterno dipendente da “altre” amministrazioni statali mantiene la propria specifica fonte di regolazione del rapporto base.

La Corte giunge alla conclusione che le descritte diversità strutturali relative alle modalità di conferimento dei suddetti incarichi non siano idonee a determinare l’applicazione di princípi diversi, sul piano funzionale, da quelli di cui alla sentenza n. 103 del 2007, in relazione alla distinzione tra attività di indirizzo politico amministrativo e compiti gestori dei dirigenti.

Anche per i dirigenti esterni il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve essere «connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione».

La Corte precisa che il rispetto dei suddetti princípi è necessario al fine di garantire che «il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai princípi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)». Tali princípi stanno «alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, la quale, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al “servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento» (sentenza n. 103 del 2007). In definitiva, dunque, la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.

A nulla rileva, inoltre, che nella disposizione di cui al decreto legge n. 262 del 2006 è previsto il potere di conferma dell’organo politico da esercitarsi entro sessanta giorni. Il potere ministeriale di conferma non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso alcuna garanzia di autonomia funzionale, atteso che dalla mancata conferma la legge fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale.

Alla luce di queste considerazioni, la Consulta ritiene che la norma denunciata, prevedendo la immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge n. 262 del 2006, in mancanza di riconferma, víoli, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa». Ciò in quanto la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale – impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità ad un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza «alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita».

È necessario, pertanto, garantire «la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato».

A ben vedere, l’esistenza di una preventiva fase valutativa, risulta «essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, il rispetto dei princípi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa».

Solo per i dirigenti apicali (segretario generale, capo di dipartimento, ecc.) il rapporto fiduciario stretto potrebbe prevalere su queste esigenze. La dirigenza generale, invece, è sottratta a forme di spoil system non collegate a un qualche meccanismo di accertamento in concreto e in contraddittorio della responsabilità dirigenziale.

Pregevole appare l’interpretazione fornita dalla Corte in riferimento al principio di imparzialità e di buon andamento, ricostruito sulla base della elaborazione giurisprudenziale intercorsa negli anni. Il principio di imparzialità, strettamente connesso a quello di legalità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., rappresenta un valore essenziale cui deve uniformarsi l’intera organizzazione dei pubblici uffici. Dai lavori preparatori della Costituente è possibile rinvenire la reale essenza dell’art. 97 Cost., quella appunto di assicurare una netta indifferenza dell’apparato dirigenziale rispetto alla volontà della politica. La scelta dei soggetti più idonei e funzionali all’amministrazione per l’esercizio e lo svolgimento dell’azione pubblica deve avvenire indipendentemente dalle valutazioni dell’apparato governativo. La valutazione tecnica, infatti, deve essere effettuata sulla base di scelte obiettive, senza alcuna ingerenza di carattere politico. I risultati interpretativi cui è pervenuta la Consulta presuppongono - per il massimo e concreto soddisfacimento dei principi di imparzialità e di buon andamento amministrativo - la copertura di adeguate garanzie di continuità nell’incarico e di stabilità della dirigenza. Una scelta dell’organo politico di pervenire alla revoca ante tempus di dirigenti non solo condiziona l’operato della amministrazione ma crea evidenti scompensi alla continuità amministrativa. La Corte Costituzionale, di fatto, auspica un sistema di revoca di tipo sanzionatorio, da applicarsi all’esito delle verifiche obiettive, allo stato attuale del tutto inadeguate. L’ingerenza della politica, sia per quanto riguarda le nomine dei dirigenti che per l’effettiva realizzazione dei controlli, ha creato in seno all’amministrazione una situazione fattuale, nella quale l’intero apparato dirigenziale ha vissuto sino ad oggi in un stato di precariato. Proprio a tale scopo, un doveroso richiamo merita l’effettivo ruolo assunto in tale occasione dalla Corte.

Risulta, dunque, necessario un intervento legislativo volto ad adeguare l’impianto normativo alle problematiche e alle esigenze denunciate dal Giudice costituzionale. E’, infatti, inevitabile che il legislatore si faccia carico di costituire un meccanismo di verifica oggettivo e funzionale e, soprattutto, non lasciato alla mercè della politica. Il tutto deve essere adeguatamente strutturato, avendo come unico obiettivo quello di favorire l’efficentismo nella gestione della cosa pubblica.

4. RILIEVI CONCLUSIVI

La sentenza esaminata, congiuntamente alle pronunce nn. 103 e 104 del 2007, ha sine dubio il merito di voler riscattare la dirigenza pubblica da un ruolo troppo subalterno all’organo politico, mediante il rafforzamento della responsabilità - accanto a quella disciplinare – per il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero per l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, sanzionata con l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico e, nei casi più gravi, con la revoca dell’incarico e addirittura con il recesso dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. 165/2001, come modificato dalla L. 145/2002).

Risulta, dunque, ampiamente condivisibile la necessità di procedere alla valutazione del dirigente pubblico attraverso un iter procedimentale, a prescindere dal ricambio governativo. Una buona amministrazione, deve essere messa al servizio della politica, non secondo una logica clientelare bensì funzionale.

In fondo, il principio della distinzione tra politica e amministrazione assegna comunque ai politici - la cui legittimazione discende dai meccanismi della rappresentanza democratica - il compito di dettare le direttive e di valutare ex post, con tutte le garanzie del caso, i dirigenti in relazione ai risultati effettivamente perseguiti. Il principio della primazia della politica, rettamente inteso, non è in discussione. Ciò che si vuole evitare è soltanto che all’interno di una Costituzione democratica, in base alla quale al potere si alternano i partiti politici, l’amministrazione si trasformi in “un’amministrazione di partiti”.



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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