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Considerazioni in tema di comunicazione e impugnazione del licenziamento

Sommario:

1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008, n. 22287

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

3.La comunicazione di licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

4.L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008 n.22287

La recentissima decisione di Cass., sez. lav., 4.9.2008 n.22287 (est. Roselli) – di cui riferiamo subito il pensiero in sintesi – ci fornisce l’occasione per una più ampia disamina delle modalità di comunicazione e di impugnativa del licenziamento, alla luce dell’orientamento maturato in giurisprudenza nel corso del tempo, accompagnato dalla prospettazione di nostre considerazioni in merito.

Vanno riferiti preliminarmente, per adeguata comprensione di quanto diremo in prosieguo, due dati normativi attinenti alla forma della comunicazione del licenziamento nonché all’impugnativa del medesimo, codificati rispettivamente nell’art. 2, L. n. 604/1966 e nell’art. 6 stessa legge (entrambi come modificati dalla L. n. 108/1990). Il primo dispone: « 1. Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. […]». Il secondo – afferente all’impugnativa - recita: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. […]».

Con la precitata sentenza la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui «l’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6, L. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine». Senza snaturare il carattere ricettizio del licenziamento essa ha aderito all’impostazione della Corte costituzionale che aveva ritenuto – in campo processuale – che la decadenza per il soggetto onerato della notifica degli atti era impedita dalla consegna dei medesimi «all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97)». Con tale orientamento la Consulta sottrasse al mittente l’ingiustificato accollo di eventuali responsabilità di terzi per la ritardata consegna degli atti al destinatario e conseguente ritardata cognizione dei medesimi. Nel campo del lavoro – dice espressamente Cass. 22287/2008 – tale esigenza è ancor più sostanziale e giustificata, in ragione della privazione in capo al lavoratore e per effetto del licenziamento dei mezzi di sostentamento correlati allo stato di disoccupazione e, quindi, l’orientamento palesato in campo processuale dalla Corte costituzionale si rivela ancor più meritevole di recepimento. Giustappunto queste ragioni stanno alla base del precedente in materia – prosegue ancora la Cassazione - afferente l’art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza), ove tale disposto «è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell’istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087)».

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

Ciò premesso, la problematica dell’obbligo del dipendente di ricevere comunicazioni verbali o scritte – compreso tra le comunicazioni verbali il non rifiutabile ascolto delle determinazioni che il superiore intende rassegnargli – è stata oggetto, abbastanza di recente, di una nuova disamina ad opera di Cass., sez. lav.,5.11.2007, n. 23061 (est. Monaci). La Cassazione, tramite quest’ultima decisione, ha riconfermato l’insussistenza di un diritto del dipendente di astenersi (o rifiutarsi) dal ricevere sul luogo di lavoro e durante l’orario di normale prestazione una comunicazione di licenziamento, equiparando il rifiuto all’avvenuta consegna.

La problematica era stata già sviscerata in precedenza da Cass., sez. lav., 12.11.1999, n. 12571 (est. Sciarelli) e da Cass., sez. lav., 5.6.2001, n. 7620 (est. Toffoli) che avevano raggiunto conclusioni similari, sostanzialmente conformi, talché l’orientamento della sentenza più recente può considerarsi al momento consolidato, in quanto esente da diversificazioni di opinione o da dissociazioni.

Cass. n. 1271/1999 si era occupata della fattispecie di un dirigente di banca al quale l’Amministratore delegato aveva tentato di consegnare una lettera di licenziamento sul posto di lavoro ma lo stesso si era rifiutato di riceverla e istantaneamente era stato colto da malore e trasportato d’urgenza presso l’ospedale di Potenza, dal quale aveva fatto pervenire il giorno dopo idonea documentazione medica di malattia con 15 giorni di prognosi. Le conclusioni della Cassazione, investita in ultima fase della vicenda, sono riassumibili nelle seguenti: «E’ principio fondamentale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, inficiandone l’adempimento. Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile dalle norme sulla mora credendi: il rifiuto dell’adempimento non può nuocere al debitore. Egualmente, il medesimo principio si ravvisa nella specifica norma sulla presunzione di conoscenza, secondo cui gli atti si presumono conosciuti col semplice arrivo all’indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.), essendo, dunque, irrilevante il rifiuto di accettarli. Ancor più chiaramente, nel diritto processuale, se il destinatario rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie (art. 138 c.p.c.). Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è il licenziamento: il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta».

La successiva Cass. n. 7620/2001 si era dovuta occupare della tentata consegna ad una dipendente dell’Unione industriali di Pisa – per il tramite di un fattorino in organico all’Unione – di una lettera di licenziamento fuori orario di lavoro, per strada, ricevendone il rifiuto (ritenuto legittimo anche dal giudice di primo grado).

Le conclusioni raggiunte dalla Cassazione, per la fattispecie, risultarono confermative dell’inesistenza di un obbligo del lavoratore di ricevere una comunicazione aziendale a mano da parte di incaricato dell’azienda, fuori del luogo e dell’orario di lavoro, con puntualizzazioni opposte per il caso che la tentata consegna fosse, invece, avvenuta in azienda e durante l’orario di lavoro. La Cassazione ebbe così a precisare: «E’ esatto che l’art. 2 della L. n. 604/1966 non prescrive forme particolari quanto alla consegna dell’atto scritto, richiesto dalla disposizione stessa; la consegna può quindi essere effettuata tramite persona incaricata dal datore di lavoro, la quale può poi essere assunta come teste al fine di provare l’avvenuta consegna (Cass. n. 1024/1997).[…] A tale principio non sembra, però, che possa attribuirsi una validità senza limiti. Deve affermarsi infatti che non esiste un incondizionato obbligo, o onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni, e in particolare di accettare la consegna di comunicazioni scritte, da parte di chicchessia e in qualunque situazione. Una situazione di soggezione a tali fini è certamente sussistente rispetto alle comunicazioni normativamente disciplinate, quali quelle mediante notificazione (che si attuano con il concorso di un potere pubblicistico) o mediante i servizi postali. Al di fuori di questi casi, una situazione di soggezione ai fini in esame del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni e dai rapporti giuridici cui la comunicazione stessa si collega.

In relazione al rapporto di lavoro, in particolare, è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (del resto la citata sentenza Cass. n. 12571/1999 si riferisce proprio a una consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito dell’ambiente di lavoro), così come, peraltro, non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore.

Un obbligo analogo non è, però, configurabile in termini generali al di fuori dell’orario e del posto di lavoro, e, in particolare, con riferimento a comunicazioni tentate, come nella specie, in un luogo pubblico».

La recente sentenza di Cass. n. 23061/2007 si è occupata del rifiuto di un medico di una Asl di ricevere la lettera di licenziamento in azienda da parte del superiore, alla presenza di altro medico.

Essa ha ricapitolato le impostazioni delle sentenze da noi già riassunte ed ha concluso in tal senso: «Se non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest’obbligo può invece sussistere, in relazione alle circostanze, e purché non sia prescritto per legge o per contratto l’utilizzo di un mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per telegramma, tramite fax, ecc.) quando i due soggetti privati siano già uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all’interno del rapporto negoziale.

In particolare, per quanto qui interessa, quest’obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell’ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in un caso di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, "anche nell’ambito del diritto sostanziale il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta." (Cass. civ., 12 novembre 1999, n. 12571).

In proposito, e sempre con riferimento ad un altro caso di consegna di una lettera di licenziamento, la Corte ha precisato ulteriormente che "il principio, secondo cui (...) il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generali ed incondizionati, l’obbligo, o l’onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione [...] una soggezione in tal senso del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni o dai rapporti giuridici cui la comunicazione si collega. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto" (Cass. civ., 5 giugno 2001, n. 7620), mentre "un obbligo analogo non è configurabile, in genere, al di fuori dell’orario di lavoro e, in particolare, in un luogo pubblico».

3 .La comunicazione di licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

Il licenziamento, in quanto atto unilaterale ricettizio, è efficace quando sia provata la ricezione della relativa comunicazione. Questa caratteristica ha fatto sorgere problemi attinenti alle forme e strumenti di trasmissione della comunicazione, che – come dice l’art. 2, L. n. 604/66 – deve avvenire per iscritto, nonché in ordine alla prova (effettiva o presunta) di avvenuta ricezione da parte del destinatario.

Se di regola la comunicazione avviene tramite la tradizionale raccomandata A.R. indirizzata al domicilio del destinatario, non è inusuale che - in ragione dell’evoluzione delle tecnologie – si utilizzino le nuove strumentazioni a disposizione (fax, telegramma fono dettato, e-mail). Allo stato attuale prevale assolutamente il metodo tradizionale della raccomandata; il ricorso alla comunicazione via fax, telegramma o e-mail assolvono di regola al ruolo di una “anticipazione” o “preannuncio”. Tuttavia non mancano casi in cui l’uso della comunicazione tramite le nuove tecnologie sia autonoma ed avvenga senza che sia attivata la successiva conferma tradizionale per posta raccomandata.

3.1. La comunicazione via fax realizza, senza dubbio alcuno, i requisiti dell’atto scritto richiesti dalla legge per la comunicazione di licenziamento, mentre problematiche sono state sollevate circa la prova dell’avvenuta ricezione da parte del destinatario. Quest’ultime perplessità – tuttavia – sono state convincentemente fugate recentissimamente da Tar Lazio 9.6.2008, sez. 3 bis, n. 5113, la quale ha statuito in una controversia di carattere commerciale che: «Se c’è l’ok il fax si presume arrivato. I documenti trasmessi via fax si presumono giunti al destinatario se il rapporto di trasmissione indica che il loro invio è avvenuto regolarmente». Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha così accolto il ricorso di una società contro Sviluppo Italia s.p.a., ora Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa, che aveva respinto la richiesta della ricorrente di ottenere un finanziamento per intraprendere l’attività avente per oggetto la creazione di un centro di rigenerazione e di ricostruzione cartucce e toner per stampanti con servizio di manutenzione e assistenza. Secondo i giudici amministrativi il ricorso è da considerarsi fondato in quanto l’Agenzia aveva rifiutato il finanziamento senza prendere in considerazione i chiarimenti a sostegno della domanda che le erano stati trasmessi dalla società via fax. L’Agenzia aveva dichiarato di non averli esaminati poiché non li aveva mai ricevuti. Il Tar ha però chiarito che «non è sufficiente sostenere di non aver ricevuto i documenti via fax. Infatti l’Agenzia avrebbe dovuto fornire una prova concreta della loro mancata comunicazione, dal momento che, quando i dati si trasmettono via fax, se il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta correttamente, si presume che il destinatario ne sia venuto a conoscenza, a meno che non provi l’esistenza di un cattivo funzionamento dell’apparecchio ricevente o di una sua rottura che abbia impedito l’effettiva comunicazione, mentre il mittente non deve fornire alcuna ulteriore prova sull’invio».

Ha poi aggiunto il Tar del Lazio che: «mette conto evidenziare che, ai sensi dell’art. 45, comma 1, del d. lgs. 17 marzo 2005, n. 82, recante il "Codice dell’amministrazione digitale", i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale (l’ora riportata disposizione legislativa è sostanzialmente reiterativa di quella contenuta nell’art. 43, comma 6, del d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, con il quale è stato emanato il "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa)».

Sotto il versante giurisprudenziale, dopo aver premesso che «il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente», è stato affermato che «tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, ne fanno uno strumento idoneo a garantire l’effettività della comunicazione» (cfr. CdS, VI, 4 giugno 2007, n. 2951, cui adde: Tar Lazio, III-quater, 13 febbario 2008, n. 1254; Tar Sicilia, Palermo, II, 7 febbraio 2008, n. 197; Tar Lazio, III-bis, 4 gennaio 2008, n. 238; Tar Lazio, I bis, 27 ottobre 2004, n. 17353; Tar Piemonte, 10 giugno 2002, n. 1190).

E stato poi soggiunto, in ordine alla presunzione che assiste la ricezione del fax e della prova contraria che può essere opposta dal destinarlo (presunzione che ha riflessi sul thema decidendum), quanto segue: «Posto […] che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue che […] un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell’apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio» (cit. sent. CdS n. 2951/2007, che fa riferimento a una precedente decisione della Sez. V, 24 aprile 2002, n. 2202; nonché Tar Lazio, III, 11 febbraio 2006, n. 1066).

3.2. Circa l’utilizzo del telegramma fono dettato (e convertito per iscritto in cartaceo dall’operatore delle Poste), si registrano le affermazioni di legittimazione (nel caso di specie per l’impugnativa di licenziamento ad iniziativa della lavoratrice, ma pacificamente estensibili alla comunicazione di licenziamento ad iniziativa datoriale) di Cass. n. 7260/2001. In essa la Cassazione ha statuito che: «va ricordato che l’art. 2705 c.c. (sulla cui ratio cfr. Cass. n. 12128/1992) , attribuisce l’efficacia dell’atto scritto al telegramma anche se l’originale consegnato all’ufficio telegrafico non è sottoscritto dal mittente, "se l’atto è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo".

La rilevanza di tale norma anche ai fini dell’impugnativa stragiudiziale del licenziamento - che, a norma dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, deve rivestire la forma scritta - è stata ripetutamente enunciata da questa Corte (Cass. n. 7610/1991, n. 6749/1996, n. 12256/2000, n. 14297/2000; cfr. anche Cass. n. 13959/2000 a proposito dell’intimazione del licenziamento mediante telegramma).

La possibile efficacia ai fini in esame anche di un telegramma spedito mediante l’apposito servizio telefonico è stata affermata da una recente pronuncia di questa Corte (Cass. n. 14297/2000, cit.), che ha rilevato anche come, in caso di contestazione, la prova della provenienza della dichiarazione da parte del lavoratore licenziato possa essere fornita anche mediante presunzioni.

Peraltro a conclusioni analoghe è pervenuta, con riferimento all’accettazione di una proposta contrattuale, una precedente sentenza (Cass. n. 6788/1990), la quale ha ritenuto che, anche in caso di fonodettatura del telegramma, prevista dall’art. 299 del d.P.R. 29 marzo 1973 n. 156 (cd. codice postale), chi ne appare il mittente, in caso di contestazione, ha la facoltà e l’onere di provare, con ricorso ad ogni tipo di prova, che l’affidamento all’ufficio incaricato di trasmetterlo è avvenuto a sua opera o sua iniziativa.

Questi principi, che si ritengono condivisibili, non sono stati correttamente applicati dal giudice d’appello, nel momento in cui ha ritenuto decisivo, riguardo alla provenienza della dichiarazione, il dato formale della dettatura del telegramma dallo studio dell’avv. X.Y. (circostanza alla quale, evidentemente, si collega l’indicazione del medesimo quale mittente, ai fini dell’addebito del costo e dell’invio della copia del telegramma), considerando detto professionista per solo questo fatto autore della dichiarazione di impugnativa del licenziamento, e trascurando invece che la presenza in calce al testo del telegramma, quale firma, delle parole "P. G." (circostanza testualmente, riferita nella stessa sentenza) sancisce la lavoratrice come soggetto a cui formalmente è riferita e imputata la dichiarazione, e, in tali termini, come effettivo mittente (al riguardo cfr. anche la citata Cass. n. 14297/2000, in cui la titolarità dell’utenza telefonica è solamente compresa tra i vari elementi indicati in via esemplificativa quali valutabili ai fini della prova per presunzioni della provenienza dal lavoratore della dichiarazione di impugnativa).

Al riguardo è opportuno precisare che in realtà non è decisivo neanche chi sia l’autore materiale della dettatura del telegramma o il redattore della dichiarazione nella sua formulazione letterale (non diversamente che nel caso delle ordinarie dichiarazioni per iscritto). Quel che conta è l’adesione della volontà (anche se orientata da qualche consulente) del soggetto interessato e apparentemente autore della dichiarazione, senza che possa avere alcuna efficacia ostativa la collaborazione di un terzo (ed eventualmente dello stesso consulente) agli aspetti concettuali o agli aspetti materiali dell’operazione. Queste conclusioni appaiono perfettamente aderenti al testo dell’art. 2705 c.c., che, quando parla di originale anche privo di firma "fatto consegnare" dal mittente, non richiede che il relativo testo sia materialmente scritto dal mittente.

Le precedenti considerazioni possono riassumersi con il seguente principio di diritto: "L’impugnativa per iscritto del licenziamento a norma dell’art. 6 della legge n. 604/1966 può essere realizzata, in base alla disciplina di cui all’art. 2705 cod. civ., anche mediante telegramma inoltrato tramite l’apposito servizio di dettatura telefonica, sempreché l’invio del telegramma, anche se effettuato materialmente da parte di un altro soggetto e da un’utenza telefonica non appartenente all’interessato, avvenga su mandato e a nome di quest’ultimo, il quale in caso di contestazione in giudizio, rimane onerato della prova di tale incarico, che può essere fornita anche a mezzo di testimoni e per presunzioni"».

3.3. Altra modalità suggerita dall’innovazione tecnologica, dalla diffusione di computer e stampanti e da appositi spazi comunicativi di cd. “intranet” aziendale, è la comunicazione tramite e-mail.

Va preso atto che nelle aziende (multinazionali in primis) oramai da tempo si usa il sistema “intranet” per comunicazioni di servizio al Personale, notifica di organigrammi - riservando anche uno spazio apposito (albo virtuale) per la divulgazione di comunicati sindacali da parte delle RSA in attuazione evolutiva del diritto di affissione ex art. 25 Statuto dei lavoratori - nonché per le contestazioni disciplinari ex art. 7, L. n. 300/70 – cui replica il lavoratore con stesso mezzo per fornire le proprie giustificazioni nei 5 gg.- e così via. Chi si occupa di contenzioso del lavoro deposita sovente in giudizio una serie di e-mail scambiate tra il lavoratore e la direzione aziendale che vengono considerate pacificamente documenti attendibili e probanti da parte del magistrato.

Il dissenso di taluni in ordine all’efficacia della e-mail per il licenziamento risiede nella considerazione che - correttamente ritenendosi la comunicazione di licenziamento atto unilaterale ricettizio - il licenziamento via e- mail sarebbe inefficace in quanto non vi sarebbe la prova che la e-mail strutturi le caratteristiche intrinsecamente connaturate all’atto ricettizio e all’atto scritto.

Si sostiene che la e-mail non fornirebbe al destinatario la garanzia della provenienza dal mittente dichiarato (l’azienda, nella persona di un suo rappresentante munito di poteri rescissori del rapporto di lavoro) – potendo ad esso sostituirsi qualsiasi “smanettone” informatico capace di confezionare un indirizzo elettronico aziendale fraudolento – e che inoltre non avrebbe le caratteristiche dell’atto scritto, che implica – ex art. 2702 c.c. – la sottoscrizione da parte del mittente (cfr. Cass. n. 7620/2001, ove rinvio a precedenti decisioni conformi).

Le obiezioni hanno un loro fondamento anche se, in caso di contestazione, l’azienda mittente è facoltizzata a provare con tutti i mezzi dell’ordinamento (incluse le presunzioni e le testimonianze) che l’indirizzo del mittente è un indirizzo proprio e non falsificato.

Notevolmente più seria si presenta l’obiezione in ordine alla perplessità che la e-mail possa essere considerata “atto scritto” ai sensi e per gli effetti dell’art. 2702 c.c.

In effetti la e-mail come il telegramma non sono normalmente sottoscritti (cioè firmati), ove la firma serve quale garanzia per il mittente ai fini di un agevole disconoscimento. Per il telegramma la ratio di questa disciplina agevolativa, viene evidenziata da Cass., sez. II, 11.11.1992, n. 12128, secondo la quale: «Ai fini dell’efficacia probatoria del telegramma quale scrittura privata, siccome prevista dall’art. 2705 c.c., il legislatore nell’intento di favorire la rapidità dell’incontro di volontà negoziali fra persone distanti, ha inteso prendere in considerazione l’ipotesi normale secondo cui il telegramma proviene dall’apparente mittente, con la conseguenza che solo in caso in cui ciò sia contestato il mittente medesimo è tenuto, ove intenda valersene quale scrittura privata, a fornire la prova delle condizioni, poste dal citato art. 2705, mentre, ove nessuna contestazione vi sia stata circa la provenienza del telegramma, questo ha a tutti gli effetti il valore di scrittura privata, senza che il mittente sia tenuto a dare alcuna ulteriore prova». Si può quindi correttamente sostenere che la e-mail, per la quale non esiste una disciplina speciale (quale quella ex art. 2705 c.c. riservata al telegramma) esonerativa della sottoscrizione da parte del mittente – e fatta salva l’ipotesi che il responsabile aziendale mittente, oltre all’inclusione dei suoi dati anagrafici identificativi, non utilizzi quella abilitata tecnicamente all’inclusione della firma digitale - è carente della sottoscrizione e non costituisce, al momento, “atto scritto” in senso giuridico. La carenza di tale caratteristica garantista per il destinatario fa sì che – allo stato attuale della nostra normativa e legislazione – la e-mail non sia utilizzabile dall’azienda a fini di comunicazione del licenziamento, anche quando l’azienda, accortamente, si faccia recapitare dal destinatario la ricevuta di avvenuta ricezione via e-mail. Anche in tale ipotesi infatti il destinatario – se non può negare di aver ricevuto la comunicazione – ha tuttavia ricevuto una comunicazione inidonea ed inefficace, priva delle caratteristiche dell’atto scritto e sottoscritto, ai sensi dell’art. 2702 c.c. L’inefficacia della e-mail quale mezzo di comunicazione del licenziamento discende quindi dall’impropria natura della comunicazione, non già da questioni inerenti la prova dell’avvenuta ricezione (o meno). A questo riguardo, infatti, anche qualora il destinatario non abbia fatto pervenire conferma all’azienda via e-mail, la mail indirizzatagli si presume pervenuta per effetto del disposto dell’art. 1335 c.c. così formulato: «Presunzione di conoscenza - La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». Né si potrebbe fondatamente sostenere (salvo rigido onere probatorio a carico del lavoratore) che è stata ricevuta – o è stata dotata di conferma di ricezione al mittente – per l’intervento di terzi estranei (colleghi), in quanto in azienda l’indirizzo e-mail è solitamente protetto per motivi di privacy da password apposta dal lavoratore e quindi non è accessibile, salvo imprudenze da esso commesse, a terzi.

Resta il fatto che l’innovazione tecnologica avanza col passo del galoppo e non si possono assolutamente escludere modifiche normative nei confronti di una obsoleta nozione di “atto scritto” codificata nel codice del 1942. Il suggerimento che consegue da parte di chi scrive è quello per cui - qualora si voglia precludere all’azienda la possibilità di azionare per il licenziamento le variegate modalità comunicative consentite dalle moderne tecnologie - la strada maestra è solo quella di pattuire nei ccnl che la sola idonea modalità di notifica del licenziamento è costituita dalla tradizionale raccomandata A/R a domicilio o consegnata a mano in azienda.

4. L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

Relativamente all’impugnativa del licenziamento, l’art. 6 della L. n. 604/66 conferisce tale facoltà al lavoratore direttamente o anche per il tramite di un’organizzazione sindacale fiduciariamente prescelta che faccia atto di opposizione alla comunicazione aziendale entro 60 giorni.

La legittimazione legale concerne solo questi due soggetti, ma nella concreta realtà della vita lavorativa il lavoratore è solito – di fronte ad un atto potenzialmente privativo del posto di lavoro – rivolgersi ad un legale specializzato nel diritto del lavoro, incaricandolo di predisporre lettera di impugnativa in opposizione alle determinazioni rescissorie aziendali.

Solitamente il legale predispone l’impugnativa, la firma e la fa sottoscrivere – per integrale condivisione e ratifica – dallo stesso lavoratore.

Se così avviene non si pongono questioni di mandato al legale, terzo nella vicenda.

Succede – ed è successo nella pratica – tuttavia che il legale indirizzi in nome e per conto del lavoratore atto di impugnativa all’azienda a firma singola. In questa ipotesi è sorto un discreto contenzioso in passato, fintanto che la Cassazione a sezioni unite con decisione del 2.3.1987, n. 2180 non ha ritenuto anche il legale o difensore – figura non prevista dall’art. 6, L. n. 604/66 – titolato all’azione di impugnazione del licenziamento, tuttavia dietro mandato o procura del lavoratore. Statuirono all’epoca le SU che: «diretta conseguenza […] dell’atto di impugnativa é che se tale impugnativa é posta in essere dal terzo, anche se avvocato o procuratore legale, prima dell’instaurazione del giudizio, questi deve essere munito di specifica procura scritta, alla stregua degli artt. 1392 c.c. e 1324 c.c., rilasciata prima dell’atto da compiere e da far conoscere al destinatario, prima della decorrenza del termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (cfr. in tali sensi ancora: Cass., sez. un., 1987 n. 2180)». Successivamente il pensiero delle SU venne riprecisato da Cass., sez. lav., 4.3.1998 n. 2374 (est. Vidiri) osservando correttamente che l’atto di impugnativa era non già “atto negoziale dispositivo” ma atto “unilaterale di opposizione”, senza che la natura non negoziale precludesse l’applicabilità delle norme generali sulla rappresentanza. Ne è sortita ad opera di Cass. n. 2374/1998 un’affermazione di principio che è stata mantenuta anche dalle successive decisioni n. 11178 del 7.10.1999 (est. Cuoco) e n. 8412 del 20.6.2000. Ebbe a stabilire Cass. n.2374/98 (con adesione integrale della successiva Cass. n. 8412/2000, est. Filadoro) che: «dovendosi configurare l’impugnativa del licenziamento come atto unilaterale tra vivi e contenuto patrimoniale (cfr. al riguardo da ultimo: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262), ad essa si applicano, giusta quanto stabilito dall’art. 1324 c.c., le disposizioni che regolano i contratti e, quindi anche la norma di cui all’art. 1392 c.c., per la quale si estende alla procura la forma scritta prevista per il contratto che la rappresentante deve concludere, essendo tale norma perfettamente compatibile con gli atti unilaterali, stante la già evidenziata compatibilità della rappresentanza con gli atti unilaterali di natura non negoziale (per una analoga statuizione vedi da ultimo Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.). Quanto sinora detto non legittima, però, la tesi dell’estensibilità della retroattività della ratifica ex 1399 c.c. dell’impugnativa del licenziamento del legale del lavoratore privo di procura sì da far ritenere tempestiva detta ratifica anche allorquando essa sia stata notificata o comunicata al datore di lavoro oltre il termine di decadenza di sessanta giorni ex art. 6, L.15 luglio 1966 n. 604. Ed invero, in base all’art. 1324 c.c. le norme sui contratti e, quindi, anche quelle dettate in tema di rappresentanza senza potere, possono essere applicate agli atti unilaterali "in quanto compatibili". Orbene, con riferimento al licenziamento, per la cui impugnativa vige il suddetto termine di sessanta giorni per evidenti esigenze relative alla definizione della sorte dei rapporti lavorativi, non pare compatibile l’instaurazione di una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi ben oltre tale scadenza, con la conseguenza di lasciare al "dominus" (il lavoratore licenziato), la piena disponibilità sui tempi e modi dell’impugnativa in netto e eclatante contrasto con l’assetto della disciplina sui licenziamenti, dettata dalla legge 15 luglio 1966 n. 604 e dalla legge 20 maggio 1970 n. 300 (così come modificata dalla legge 11 maggio 1990 n. 108). Per concludere deve, quindi, essere ribadito quanto ripetutamente statuito da questa Corte secondo cui la validità dell’impugnazione del licenziamento nella sede stragiudiziale, ai sensi dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, proposta da persona diversa dal lavoratore, anche se avvocato o procuratore legale, è subordinata al rilascio in forma scritta, da parte del lavoratore medesimo, di preventiva procura specifica o di successiva ratifica (cui è equiparata la proposizione del ricorso giudiziario con conferimento della procura allo stesso legale autore dell’impugnativa stragiudiziale), le quali devono essere portate a conoscenza del datore di lavoro destinatario nel medesimo termine di decadenza fissato da detto articolo (cfr. ex plurimis: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.; Cass. 24 giugno 1997 n. 5611; Cass. 20 agosto 1996 n. 4540)». Un anno e mezzo dopo Cass. n. 11178/99 tolse al legale (e al lavoratore) l’onere dell’invio all’azienda della procura o della ratifica, ritenendo sufficiente la di lui attestazione scritta all’azienda della sussistenza e del rilascio (in data certa ed anticipata rispetto allo scadere dei 60 giorni) del mandato in questione da parte del lavoratore, in considerazione del fatto che: «questa ulteriore formalità non sarebbe peraltro coerente con gli obblighi di buona fede (ex artt. 1176, 1375 c.c.) che, imponendo al lavoratore [rectius, al suo legale, ndr] adeguato comportamento (e determinando conseguente responsabilità), esigono dal datore (tutelato dall’indicata certezza e da questa responsabilità) corrispondente comportamento (non la pretesa di onerosi formalismi). E questa esigenza è pienamente attuata attraverso la comunicazione dell’esistenza dell’atto (procura o ratifica) e della sua certa data».

Ne consegue che il legale che impugni a firma singola, in nome e per conto del lavoratore, la comunicazione di licenziamento dovrà trasmettere entro il termine di decadenza dei 60 giorni la procura specifica o ad litem da questo rilasciatagli in data anteriore ovvero - accedendo alla tesi più permissiva di Cass. n. 11178/99 - attestarne sotto propria responsabilità all’azienda l’avvenuto rilascio in data certa e anteriore alla scadenza del termine decadenziale.

Sommario:

1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008, n. 22287

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

3.La comunicazione di licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

4.L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008 n.22287

La recentissima decisione di Cass., sez. lav., 4.9.2008 n.22287 (est. Roselli) – di cui riferiamo subito il pensiero in sintesi – ci fornisce l’occasione per una più ampia disamina delle modalità di comunicazione e di impugnativa del licenziamento, alla luce dell’orientamento maturato in giurisprudenza nel corso del tempo, accompagnato dalla prospettazione di nostre considerazioni in merito.

Vanno riferiti preliminarmente, per adeguata comprensione di quanto diremo in prosieguo, due dati normativi attinenti alla forma della comunicazione del licenziamento nonché all’impugnativa del medesimo, codificati rispettivamente nell’art. 2, L. n. 604/1966 e nell’art. 6 stessa legge (entrambi come modificati dalla L. n. 108/1990). Il primo dispone: « 1. Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. […]». Il secondo – afferente all’impugnativa - recita: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. […]».

Con la precitata sentenza la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui «l’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6, L. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine». Senza snaturare il carattere ricettizio del licenziamento essa ha aderito all’impostazione della Corte costituzionale che aveva ritenuto – in campo processuale – che la decadenza per il soggetto onerato della notifica degli atti era impedita dalla consegna dei medesimi «all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97)». Con tale orientamento la Consulta sottrasse al mittente l’ingiustificato accollo di eventuali responsabilità di terzi per la ritardata consegna degli atti al destinatario e conseguente ritardata cognizione dei medesimi. Nel campo del lavoro – dice espressamente Cass. 22287/2008 – tale esigenza è ancor più sostanziale e giustificata, in ragione della privazione in capo al lavoratore e per effetto del licenziamento dei mezzi di sostentamento correlati allo stato di disoccupazione e, quindi, l’orientamento palesato in campo processuale dalla Corte costituzionale si rivela ancor più meritevole di recepimento. Giustappunto queste ragioni stanno alla base del precedente in materia – prosegue ancora la Cassazione - afferente l’art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza), ove tale disposto «è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell’istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087)».

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

Ciò premesso, la problematica dell’obbligo del dipendente di ricevere comunicazioni verbali o scritte – compreso tra le comunicazioni verbali il non rifiutabile ascolto delle determinazioni che il superiore intende rassegnargli – è stata oggetto, abbastanza di recente, di una nuova disamina ad opera di Cass., sez. lav.,5.11.2007, n. 23061 (est. Monaci). La Cassazione, tramite quest’ultima decisione, ha riconfermato l’insussistenza di un diritto del dipendente di astenersi (o rifiutarsi) dal ricevere sul luogo di lavoro e durante l’orario di normale prestazione una comunicazione di licenziamento, equiparando il rifiuto all’avvenuta consegna.

La problematica era stata già sviscerata in precedenza da Cass., sez. lav., 12.11.1999, n. 12571 (est. Sciarelli) e da Cass., sez. lav., 5.6.2001, n. 7620 (est. Toffoli) che avevano raggiunto conclusioni similari, sostanzialmente conformi, talché l’orientamento della sentenza più recente può considerarsi al momento consolidato, in quanto esente da diversificazioni di opinione o da dissociazioni.

Cass. n. 1271/1999 si era occupata della fattispecie di un dirigente di banca al quale l’Amministratore delegato aveva tentato di consegnare una lettera di licenziamento sul posto di lavoro ma lo stesso si era rifiutato di riceverla e istantaneamente era stato colto da malore e trasportato d’urgenza presso l’ospedale di Potenza, dal quale aveva fatto pervenire il giorno dopo idonea documentazione medica di malattia con 15 giorni di prognosi. Le conclusioni della Cassazione, investita in ultima fase della vicenda, sono riassumibili nelle seguenti: «E’ principio fondamentale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, inficiandone l’adempimento. Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile dalle norme sulla mora credendi: il rifiuto dell’adempimento non può nuocere al debitore. Egualmente, il medesimo principio si ravvisa nella specifica norma sulla presunzione di conoscenza, secondo cui gli atti si presumono conosciuti col semplice arrivo all’indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.), essendo, dunque, irrilevante il rifiuto di accettarli. Ancor più chiaramente, nel diritto processuale, se il destinatario rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie (art. 138 c.p.c.). Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è il licenziamento: il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta».

La successiva Cass. n. 7620/2001 si era dovuta occupare della tentata consegna ad una dipendente dell’Unione industriali di Pisa – per il tramite di un fattorino in organico all’Unione – di una lettera di licenziamento fuori orario di lavoro, per strada, ricevendone il rifiuto (ritenuto legittimo anche dal giudice di primo grado).

Le conclusioni raggiunte dalla Cassazione, per la fattispecie, risultarono confermative dell’inesistenza di un obbligo del lavoratore di ricevere una comunicazione aziendale a mano da parte di incaricato dell’azienda, fuori del luogo e dell’orario di lavoro, con puntualizzazioni opposte per il caso che la tentata consegna fosse, invece, avvenuta in azienda e durante l’orario di lavoro. La Cassazione ebbe così a precisare: «E’ esatto che l’art. 2 della L. n. 604/1966 non prescrive forme particolari quanto alla consegna dell’atto scritto, richiesto dalla disposizione stessa; la consegna può quindi essere effettuata tramite persona incaricata dal datore di lavoro, la quale può poi essere assunta come teste al fine di provare l’avvenuta consegna (Cass. n. 1024/1997).[…] A tale principio non sembra, però, che possa attribuirsi una validità senza limiti. Deve affermarsi infatti che non esiste un incondizionato obbligo, o onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni, e in particolare di accettare la consegna di comunicazioni scritte, da parte di chicchessia e in qualunque situazione. Una situazione di soggezione a tali fini è certamente sussistente rispetto alle comunicazioni normativamente disciplinate, quali quelle mediante notificazione (che si attuano con il concorso di un potere pubblicistico) o mediante i servizi postali. Al di fuori di questi casi, una situazione di soggezione ai fini in esame del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni e dai rapporti giuridici cui la comunicazione stessa si collega.

In relazione al rapporto di lavoro, in particolare, è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (del resto la citata sentenza Cass. n. 12571/1999 si riferisce proprio a una consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito dell’ambiente di lavoro), così come, peraltro, non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore.

Un obbligo analogo non è, però, configurabile in termini generali al di fuori dell’orario e del posto di lavoro, e, in particolare, con riferimento a comunicazioni tentate, come nella specie, in un luogo pubblico».

La recente sentenza di Cass. n. 23061/2007 si è occupata del rifiuto di un medico di una Asl di ricevere la lettera di licenziamento in azienda da parte del superiore, alla presenza di altro medico.

Essa ha ricapitolato le impostazioni delle sentenze da noi già riassunte ed ha concluso in tal senso: «Se non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest’obbligo può invece sussistere, in relazione alle circostanze, e purché non sia prescritto per legge o per contratto l’utilizzo di un mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per telegramma, tramite fax, ecc.) quando i due soggetti privati siano già uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all’interno del rapporto negoziale.

In particolare, per quanto qui interessa, quest’obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell’ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in un caso di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, "anche nell’ambito del diritto sostanziale il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta." (Cass. civ., 12 novembre 1999, n. 12571).

In proposito, e sempre con riferimento ad un altro caso di consegna di una lettera di licenziamento, la Corte ha precisato ulteriormente che "il principio, secondo cui (...) il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generali ed incondizionati, l’obbligo, o l’onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione [...] una soggezione in tal senso del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni o dai rapporti giuridici cui la comunicazione si collega. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto" (Cass. civ., 5 giugno 2001, n. 7620), mentre "un obbligo analogo non è configurabile, in genere, al di fuori dell’orario di lavoro e, in particolare, in un luogo pubblico».

3 .La comunicazione di licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

Il licenziamento, in quanto atto unilaterale ricettizio, è efficace quando sia provata la ricezione della relativa comunicazione. Questa caratteristica ha fatto sorgere problemi attinenti alle forme e strumenti di trasmissione della comunicazione, che – come dice l’art. 2, L. n. 604/66 – deve avvenire per iscritto, nonché in ordine alla prova (effettiva o presunta) di avvenuta ricezione da parte del destinatario.

Se di regola la comunicazione avviene tramite la tradizionale raccomandata A.R. indirizzata al domicilio del destinatario, non è inusuale che - in ragione dell’evoluzione delle tecnologie – si utilizzino le nuove strumentazioni a disposizione (fax, telegramma fono dettato, e-mail). Allo stato attuale prevale assolutamente il metodo tradizionale della raccomandata; il ricorso alla comunicazione via fax, telegramma o e-mail assolvono di regola al ruolo di una “anticipazione” o “preannuncio”. Tuttavia non mancano casi in cui l’uso della comunicazione tramite le nuove tecnologie sia autonoma ed avvenga senza che sia attivata la successiva conferma tradizionale per posta raccomandata.

3.1. La comunicazione via fax realizza, senza dubbio alcuno, i requisiti dell’atto scritto richiesti dalla legge per la comunicazione di licenziamento, mentre problematiche sono state sollevate circa la prova dell’avvenuta ricezione da parte del destinatario. Quest’ultime perplessità – tuttavia – sono state convincentemente fugate recentissimamente da Tar Lazio 9.6.2008, sez. 3 bis, n. 5113, la quale ha statuito in una controversia di carattere commerciale che: «Se c’è l’ok il fax si presume arrivato. I documenti trasmessi via fax si presumono giunti al destinatario se il rapporto di trasmissione indica che il loro invio è avvenuto regolarmente». Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha così accolto il ricorso di una società contro Sviluppo Italia s.p.a., ora Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa, che aveva respinto la richiesta della ricorrente di ottenere un finanziamento per intraprendere l’attività avente per oggetto la creazione di un centro di rigenerazione e di ricostruzione cartucce e toner per stampanti con servizio di manutenzione e assistenza. Secondo i giudici amministrativi il ricorso è da considerarsi fondato in quanto l’Agenzia aveva rifiutato il finanziamento senza prendere in considerazione i chiarimenti a sostegno della domanda che le erano stati trasmessi dalla società via fax. L’Agenzia aveva dichiarato di non averli esaminati poiché non li aveva mai ricevuti. Il Tar ha però chiarito che «non è sufficiente sostenere di non aver ricevuto i documenti via fax. Infatti l’Agenzia avrebbe dovuto fornire una prova concreta della loro mancata comunicazione, dal momento che, quando i dati si trasmettono via fax, se il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta correttamente, si presume che il destinatario ne sia venuto a conoscenza, a meno che non provi l’esistenza di un cattivo funzionamento dell’apparecchio ricevente o di una sua rottura che abbia impedito l’effettiva comunicazione, mentre il mittente non deve fornire alcuna ulteriore prova sull’invio».

Ha poi aggiunto il Tar del Lazio che: «mette conto evidenziare che, ai sensi dell’art. 45, comma 1, del d. lgs. 17 marzo 2005, n. 82, recante il "Codice dell’amministrazione digitale", i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale (l’ora riportata disposizione legislativa è sostanzialmente reiterativa di quella contenuta nell’art. 43, comma 6, del d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, con il quale è stato emanato il "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa)».

Sotto il versante giurisprudenziale, dopo aver premesso che «il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente», è stato affermato che «tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, ne fanno uno strumento idoneo a garantire l’effettività della comunicazione» (cfr. CdS, VI, 4 giugno 2007, n. 2951, cui adde: Tar Lazio, III-quater, 13 febbario 2008, n. 1254; Tar Sicilia, Palermo, II, 7 febbraio 2008, n. 197; Tar Lazio, III-bis, 4 gennaio 2008, n. 238; Tar Lazio, I bis, 27 ottobre 2004, n. 17353; Tar Piemonte, 10 giugno 2002, n. 1190).

E stato poi soggiunto, in ordine alla presunzione che assiste la ricezione del fax e della prova contraria che può essere opposta dal destinarlo (presunzione che ha riflessi sul thema decidendum), quanto segue: «Posto […] che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue che […] un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell’apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio» (cit. sent. CdS n. 2951/2007, che fa riferimento a una precedente decisione della Sez. V, 24 aprile 2002, n. 2202; nonché Tar Lazio, III, 11 febbraio 2006, n. 1066).

3.2. Circa l’utilizzo del telegramma fono dettato (e convertito per iscritto in cartaceo dall’operatore delle Poste), si registrano le affermazioni di legittimazione (nel caso di specie per l’impugnativa di licenziamento ad iniziativa della lavoratrice, ma pacificamente estensibili alla comunicazione di licenziamento ad iniziativa datoriale) di Cass. n. 7260/2001. In essa la Cassazione ha statuito che: «va ricordato che l’art. 2705 c.c. (sulla cui ratio cfr. Cass. n. 12128/1992) , attribuisce l’efficacia dell’atto scritto al telegramma anche se l’originale consegnato all’ufficio telegrafico non è sottoscritto dal mittente, "se l’atto è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo".

La rilevanza di tale norma anche ai fini dell’impugnativa stragiudiziale del licenziamento - che, a norma dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, deve rivestire la forma scritta - è stata ripetutamente enunciata da questa Corte (Cass. n. 7610/1991, n. 6749/1996, n. 12256/2000, n. 14297/2000; cfr. anche Cass. n. 13959/2000 a proposito dell’intimazione del licenziamento mediante telegramma).

La possibile efficacia ai fini in esame anche di un telegramma spedito mediante l’apposito servizio telefonico è stata affermata da una recente pronuncia di questa Corte (Cass. n. 14297/2000, cit.), che ha rilevato anche come, in caso di contestazione, la prova della provenienza della dichiarazione da parte del lavoratore licenziato possa essere fornita anche mediante presunzioni.

Peraltro a conclusioni analoghe è pervenuta, con riferimento all’accettazione di una proposta contrattuale, una precedente sentenza (Cass. n. 6788/1990), la quale ha ritenuto che, anche in caso di fonodettatura del telegramma, prevista dall’art. 299 del d.P.R. 29 marzo 1973 n. 156 (cd. codice postale), chi ne appare il mittente, in caso di contestazione, ha la facoltà e l’onere di provare, con ricorso ad ogni tipo di prova, che l’affidamento all’ufficio incaricato di trasmetterlo è avvenuto a sua opera o sua iniziativa.

Questi principi, che si ritengono condivisibili, non sono stati correttamente applicati dal giudice d’appello, nel momento in cui ha ritenuto decisivo, riguardo alla provenienza della dichiarazione, il dato formale della dettatura del telegramma dallo studio dell’avv. X.Y. (circostanza alla quale, evidentemente, si collega l’indicazione del medesimo quale mittente, ai fini dell’addebito del costo e dell’invio della copia del telegramma), considerando detto professionista per solo questo fatto autore della dichiarazione di impugnativa del licenziamento, e trascurando invece che la presenza in calce al testo del telegramma, quale firma, delle parole "P. G." (circostanza testualmente, riferita nella stessa sentenza) sancisce la lavoratrice come soggetto a cui formalmente è riferita e imputata la dichiarazione, e, in tali termini, come effettivo mittente (al riguardo cfr. anche la citata Cass. n. 14297/2000, in cui la titolarità dell’utenza telefonica è solamente compresa tra i vari elementi indicati in via esemplificativa quali valutabili ai fini della prova per presunzioni della provenienza dal lavoratore della dichiarazione di impugnativa).

Al riguardo è opportuno precisare che in realtà non è decisivo neanche chi sia l’autore materiale della dettatura del telegramma o il redattore della dichiarazione nella sua formulazione letterale (non diversamente che nel caso delle ordinarie dichiarazioni per iscritto). Quel che conta è l’adesione della volontà (anche se orientata da qualche consulente) del soggetto interessato e apparentemente autore della dichiarazione, senza che possa avere alcuna efficacia ostativa la collaborazione di un terzo (ed eventualmente dello stesso consulente) agli aspetti concettuali o agli aspetti materiali dell’operazione. Queste conclusioni appaiono perfettamente aderenti al testo dell’art. 2705 c.c., che, quando parla di originale anche privo di firma "fatto consegnare" dal mittente, non richiede che il relativo testo sia materialmente scritto dal mittente.

Le precedenti considerazioni possono riassumersi con il seguente principio di diritto: "L’impugnativa per iscritto del licenziamento a norma dell’art. 6 della legge n. 604/1966 può essere realizzata, in base alla disciplina di cui all’art. 2705 cod. civ., anche mediante telegramma inoltrato tramite l’apposito servizio di dettatura telefonica, sempreché l’invio del telegramma, anche se effettuato materialmente da parte di un altro soggetto e da un’utenza telefonica non appartenente all’interessato, avvenga su mandato e a nome di quest’ultimo, il quale in caso di contestazione in giudizio, rimane onerato della prova di tale incarico, che può essere fornita anche a mezzo di testimoni e per presunzioni"».

3.3. Altra modalità suggerita dall’innovazione tecnologica, dalla diffusione di computer e stampanti e da appositi spazi comunicativi di cd. “intranet” aziendale, è la comunicazione tramite e-mail.

Va preso atto che nelle aziende (multinazionali in primis) oramai da tempo si usa il sistema “intranet” per comunicazioni di servizio al Personale, notifica di organigrammi - riservando anche uno spazio apposito (albo virtuale) per la divulgazione di comunicati sindacali da parte delle RSA in attuazione evolutiva del diritto di affissione ex art. 25 Statuto dei lavoratori - nonché per le contestazioni disciplinari ex art. 7, L. n. 300/70 – cui replica il lavoratore con stesso mezzo per fornire le proprie giustificazioni nei 5 gg.- e così via. Chi si occupa di contenzioso del lavoro deposita sovente in giudizio una serie di e-mail scambiate tra il lavoratore e la direzione aziendale che vengono considerate pacificamente documenti attendibili e probanti da parte del magistrato.

Il dissenso di taluni in ordine all’efficacia della e-mail per il licenziamento risiede nella considerazione che - correttamente ritenendosi la comunicazione di licenziamento atto unilaterale ricettizio - il licenziamento via e- mail sarebbe inefficace in quanto non vi sarebbe la prova che la e-mail strutturi le caratteristiche intrinsecamente connaturate all’atto ricettizio e all’atto scritto.

Si sostiene che la e-mail non fornirebbe al destinatario la garanzia della provenienza dal mittente dichiarato (l’azienda, nella persona di un suo rappresentante munito di poteri rescissori del rapporto di lavoro) – potendo ad esso sostituirsi qualsiasi “smanettone” informatico capace di confezionare un indirizzo elettronico aziendale fraudolento – e che inoltre non avrebbe le caratteristiche dell’atto scritto, che implica – ex art. 2702 c.c. – la sottoscrizione da parte del mittente (cfr. Cass. n. 7620/2001, ove rinvio a precedenti decisioni conformi).

Le obiezioni hanno un loro fondamento anche se, in caso di contestazione, l’azienda mittente è facoltizzata a provare con tutti i mezzi dell’ordinamento (incluse le presunzioni e le testimonianze) che l’indirizzo del mittente è un indirizzo proprio e non falsificato.

Notevolmente più seria si presenta l’obiezione in ordine alla perplessità che la e-mail possa essere considerata “atto scritto” ai sensi e per gli effetti dell’art. 2702 c.c.

In effetti la e-mail come il telegramma non sono normalmente sottoscritti (cioè firmati), ove la firma serve quale garanzia per il mittente ai fini di un agevole disconoscimento. Per il telegramma la ratio di questa disciplina agevolativa, viene evidenziata da Cass., sez. II, 11.11.1992, n. 12128, secondo la quale: «Ai fini dell’efficacia probatoria del telegramma quale scrittura privata, siccome prevista dall’art. 2705 c.c., il legislatore nell’intento di favorire la rapidità dell’incontro di volontà negoziali fra persone distanti, ha inteso prendere in considerazione l’ipotesi normale secondo cui il telegramma proviene dall’apparente mittente, con la conseguenza che solo in caso in cui ciò sia contestato il mittente medesimo è tenuto, ove intenda valersene quale scrittura privata, a fornire la prova delle condizioni, poste dal citato art. 2705, mentre, ove nessuna contestazione vi sia stata circa la provenienza del telegramma, questo ha a tutti gli effetti il valore di scrittura privata, senza che il mittente sia tenuto a dare alcuna ulteriore prova». Si può quindi correttamente sostenere che la e-mail, per la quale non esiste una disciplina speciale (quale quella ex art. 2705 c.c. riservata al telegramma) esonerativa della sottoscrizione da parte del mittente – e fatta salva l’ipotesi che il responsabile aziendale mittente, oltre all’inclusione dei suoi dati anagrafici identificativi, non utilizzi quella abilitata tecnicamente all’inclusione della firma digitale - è carente della sottoscrizione e non costituisce, al momento, “atto scritto” in senso giuridico. La carenza di tale caratteristica garantista per il destinatario fa sì che – allo stato attuale della nostra normativa e legislazione – la e-mail non sia utilizzabile dall’azienda a fini di comunicazione del licenziamento, anche quando l’azienda, accortamente, si faccia recapitare dal destinatario la ricevuta di avvenuta ricezione via e-mail. Anche in tale ipotesi infatti il destinatario – se non può negare di aver ricevuto la comunicazione – ha tuttavia ricevuto una comunicazione inidonea ed inefficace, priva delle caratteristiche dell’atto scritto e sottoscritto, ai sensi dell’art. 2702 c.c. L’inefficacia della e-mail quale mezzo di comunicazione del licenziamento discende quindi dall’impropria natura della comunicazione, non già da questioni inerenti la prova dell’avvenuta ricezione (o meno). A questo riguardo, infatti, anche qualora il destinatario non abbia fatto pervenire conferma all’azienda via e-mail, la mail indirizzatagli si presume pervenuta per effetto del disposto dell’art. 1335 c.c. così formulato: «Presunzione di conoscenza - La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». Né si potrebbe fondatamente sostenere (salvo rigido onere probatorio a carico del lavoratore) che è stata ricevuta – o è stata dotata di conferma di ricezione al mittente – per l’intervento di terzi estranei (colleghi), in quanto in azienda l’indirizzo e-mail è solitamente protetto per motivi di privacy da password apposta dal lavoratore e quindi non è accessibile, salvo imprudenze da esso commesse, a terzi.

Resta il fatto che l’innovazione tecnologica avanza col passo del galoppo e non si possono assolutamente escludere modifiche normative nei confronti di una obsoleta nozione di “atto scritto” codificata nel codice del 1942. Il suggerimento che consegue da parte di chi scrive è quello per cui - qualora si voglia precludere all’azienda la possibilità di azionare per il licenziamento le variegate modalità comunicative consentite dalle moderne tecnologie - la strada maestra è solo quella di pattuire nei ccnl che la sola idonea modalità di notifica del licenziamento è costituita dalla tradizionale raccomandata A/R a domicilio o consegnata a mano in azienda.

4. L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

Relativamente all’impugnativa del licenziamento, l’art. 6 della L. n. 604/66 conferisce tale facoltà al lavoratore direttamente o anche per il tramite di un’organizzazione sindacale fiduciariamente prescelta che faccia atto di opposizione alla comunicazione aziendale entro 60 giorni.

La legittimazione legale concerne solo questi due soggetti, ma nella concreta realtà della vita lavorativa il lavoratore è solito – di fronte ad un atto potenzialmente privativo del posto di lavoro – rivolgersi ad un legale specializzato nel diritto del lavoro, incaricandolo di predisporre lettera di impugnativa in opposizione alle determinazioni rescissorie aziendali.

Solitamente il legale predispone l’impugnativa, la firma e la fa sottoscrivere – per integrale condivisione e ratifica – dallo stesso lavoratore.

Se così avviene non si pongono questioni di mandato al legale, terzo nella vicenda.

Succede – ed è successo nella pratica – tuttavia che il legale indirizzi in nome e per conto del lavoratore atto di impugnativa all’azienda a firma singola. In questa ipotesi è sorto un discreto contenzioso in passato, fintanto che la Cassazione a sezioni unite con decisione del 2.3.1987, n. 2180 non ha ritenuto anche il legale o difensore – figura non prevista dall’art. 6, L. n. 604/66 – titolato all’azione di impugnazione del licenziamento, tuttavia dietro mandato o procura del lavoratore. Statuirono all’epoca le SU che: «diretta conseguenza […] dell’atto di impugnativa é che se tale impugnativa é posta in essere dal terzo, anche se avvocato o procuratore legale, prima dell’instaurazione del giudizio, questi deve essere munito di specifica procura scritta, alla stregua degli artt. 1392 c.c. e 1324 c.c., rilasciata prima dell’atto da compiere e da far conoscere al destinatario, prima della decorrenza del termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (cfr. in tali sensi ancora: Cass., sez. un., 1987 n. 2180)». Successivamente il pensiero delle SU venne riprecisato da Cass., sez. lav., 4.3.1998 n. 2374 (est. Vidiri) osservando correttamente che l’atto di impugnativa era non già “atto negoziale dispositivo” ma atto “unilaterale di opposizione”, senza che la natura non negoziale precludesse l’applicabilità delle norme generali sulla rappresentanza. Ne è sortita ad opera di Cass. n. 2374/1998 un’affermazione di principio che è stata mantenuta anche dalle successive decisioni n. 11178 del 7.10.1999 (est. Cuoco) e n. 8412 del 20.6.2000. Ebbe a stabilire Cass. n.2374/98 (con adesione integrale della successiva Cass. n. 8412/2000, est. Filadoro) che: «dovendosi configurare l’impugnativa del licenziamento come atto unilaterale tra vivi e contenuto patrimoniale (cfr. al riguardo da ultimo: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262), ad essa si applicano, giusta quanto stabilito dall’art. 1324 c.c., le disposizioni che regolano i contratti e, quindi anche la norma di cui all’art. 1392 c.c., per la quale si estende alla procura la forma scritta prevista per il contratto che la rappresentante deve concludere, essendo tale norma perfettamente compatibile con gli atti unilaterali, stante la già evidenziata compatibilità della rappresentanza con gli atti unilaterali di natura non negoziale (per una analoga statuizione vedi da ultimo Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.). Quanto sinora detto non legittima, però, la tesi dell’estensibilità della retroattività della ratifica ex 1399 c.c. dell’impugnativa del licenziamento del legale del lavoratore privo di procura sì da far ritenere tempestiva detta ratifica anche allorquando essa sia stata notificata o comunicata al datore di lavoro oltre il termine di decadenza di sessanta giorni ex art. 6, L.15 luglio 1966 n. 604. Ed invero, in base all’art. 1324 c.c. le norme sui contratti e, quindi, anche quelle dettate in tema di rappresentanza senza potere, possono essere applicate agli atti unilaterali "in quanto compatibili". Orbene, con riferimento al licenziamento, per la cui impugnativa vige il suddetto termine di sessanta giorni per evidenti esigenze relative alla definizione della sorte dei rapporti lavorativi, non pare compatibile l’instaurazione di una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi ben oltre tale scadenza, con la conseguenza di lasciare al "dominus" (il lavoratore licenziato), la piena disponibilità sui tempi e modi dell’impugnativa in netto e eclatante contrasto con l’assetto della disciplina sui licenziamenti, dettata dalla legge 15 luglio 1966 n. 604 e dalla legge 20 maggio 1970 n. 300 (così come modificata dalla legge 11 maggio 1990 n. 108). Per concludere deve, quindi, essere ribadito quanto ripetutamente statuito da questa Corte secondo cui la validità dell’impugnazione del licenziamento nella sede stragiudiziale, ai sensi dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, proposta da persona diversa dal lavoratore, anche se avvocato o procuratore legale, è subordinata al rilascio in forma scritta, da parte del lavoratore medesimo, di preventiva procura specifica o di successiva ratifica (cui è equiparata la proposizione del ricorso giudiziario con conferimento della procura allo stesso legale autore dell’impugnativa stragiudiziale), le quali devono essere portate a conoscenza del datore di lavoro destinatario nel medesimo termine di decadenza fissato da detto articolo (cfr. ex plurimis: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.; Cass. 24 giugno 1997 n. 5611; Cass. 20 agosto 1996 n. 4540)». Un anno e mezzo dopo Cass. n. 11178/99 tolse al legale (e al lavoratore) l’onere dell’invio all’azienda della procura o della ratifica, ritenendo sufficiente la di lui attestazione scritta all’azienda della sussistenza e del rilascio (in data certa ed anticipata rispetto allo scadere dei 60 giorni) del mandato in questione da parte del lavoratore, in considerazione del fatto che: «questa ulteriore formalità non sarebbe peraltro coerente con gli obblighi di buona fede (ex artt. 1176, 1375 c.c.) che, imponendo al lavoratore [rectius, al suo legale, ndr] adeguato comportamento (e determinando conseguente responsabilità), esigono dal datore (tutelato dall’indicata certezza e da questa responsabilità) corrispondente comportamento (non la pretesa di onerosi formalismi). E questa esigenza è pienamente attuata attraverso la comunicazione dell’esistenza dell’atto (procura o ratifica) e della sua certa data».

Ne consegue che il legale che impugni a firma singola, in nome e per conto del lavoratore, la comunicazione di licenziamento dovrà trasmettere entro il termine di decadenza dei 60 giorni la procura specifica o ad litem da questo rilasciatagli in data anteriore ovvero - accedendo alla tesi più permissiva di Cass. n. 11178/99 - attestarne sotto propria responsabilità all’azienda l’avvenuto rilascio in data certa e anteriore alla scadenza del termine decadenziale.