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Modifiche al Decreto Legislativo 6 settembre 2001 n. 368: sommarie riflessioni in tema di costituzionalità dell’art. 4 bis

Disciplina transitoria concernente l’indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e proroga del termine

Dal 22 agosto 2008 il Decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368 è stato modificato ad opera dell’articolo 21 del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con Legge 6 agosto 2008, n. 133.) Tra le diverse innovazioni apportate, vi è l’aggiunta dell’articolo 4 bis (rubricato "Disciplina transitoria concernente l’indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e proroga del termine"), da più parti immediatamente ribattezzato con l’appellativo di "norma antiprecari".

Più precisamente, il richiamato articolo prevede che "con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione [1], e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni". In parole più semplici, tutti i prestatori di lavoro a tempo determinato con una causa in corso alla data del 22 agosto 2008, nell’eventualità di esito favorevole della lite avranno solo diritto alla prevista indennità; mentre tutti coloro che si siano risolti di intentare una nuova causa successivamente a quella data, potranno ancora sperare in una sentenza costitutiva che "converta" il rapporto precario in rapporto a tempo indeterminato.

Si tratta allora di una norma che potrebbe far sorgere dubbi di legittimità costituzionale, come anche confermato dal fatto nel corso della ventottesima seduta della Commissione Affari Costituzionali del Senato (tenutasi il 29 luglio 2008) alcuni Senatori hanno esternato perplessità ed incertezze con riferimento al principio di uguaglianza [2]; infatti, dettando una disciplina transitoria per le sole cause in corso, la scelta legislativa si è orientata nel senso di sostituire per queste ultime l’originaria (e, oserei dire, "storica") sanzione di reputare il contratto a termine come contratto a tempo indeterminato - ove concluso in violazione degli articoli 1, 2 e 4 del Decreto Legislativo 368/2001 - con la corresponsione di una sola indennità da determinarsi sulla scorta dei criteri previsti dall’art. 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 (indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).

Senza pretesa di esaustività e soltanto in via sommaria riteniamo che possibili profili di illegittimità costituzionale potrebbero rivelarsi con riferimento ai seguenti principi.

Articolo 3 della Costituzione. Innanzitutto, un primo motivo di contrasto potrebbe emergere con riferimento all’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza). Appare ormai assodato, anche per elaborazione giurisprudenziale della Corte Costituzionale, che il principio di uguaglianza - nel momento in cui si traduca all’interno di un atto con forza di legge - debba intendersi rispettato laddove il dato normativo appaia ispirato il canone della ragionevolezza. In altre parole, ogni qualvolta un atto con forza di legge debba disciplinare una fattispecie che possa essere differenziata rispetto ad un’altra, occorre che tale differenziazione avvenga ragionevolmente, avuto riguardo ai fini che il legislatore intende perseguire con quella particolare norma.

L’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 parrebbe pertanto irrazionale, laddove non è teso ad un perseguimento di fini che rivestano un pubblico interesse: e tale irragionevolezza si palesa ancora più evidente in confronto con i precetti della Costituzione (tra i quali l’art. 1) che pongono il “lavoro” quale elemento fondante della Repubblica. In questo modo, infatti, si impedirebbe la realizzazione dei diritti già formatisi in capo ai lavoratori a termine; e, in particolare, di quello alla conversione del contratto a tempo indeterminato, già entrato a far parte della sfera giuridica del singolo lavoratore fin dal momento della stipula del contratto (in ragione della normativa contenuta nel testo ante novella del Decreto Legislativo 368/2001); perché tratta in maniera differente una medesima categoria di lavoratori, operando un distinguo tra questi ultimi sulla sola scorta della pendenza di un giudizio in corso ad una data certa (22 agosto 2008) senza alcuna ragionevole giustificazione, assoggettando questi ultimi ad una disciplina di gran lunga deteriore e diversa rispetto a quella degli altri lavoratori a tempo determinato; per la violazione dei principi di generalità ed astrattezza che devono essere propri della legge. Inoltre, sin dall’esternazione delle prime perplessità avanzate da alcuni membri della Camera, è emerso che l’art. 4 bis è stato formulato con l’intento di risolvere i problemi inerenti il massiccio contenzioso sulla contrattazione a termine, che per alcune aziende italiane costituisce tutt’ora un onere tutt’altro che irrilevante.

In questo senso si è espresso il Ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, con dichiarazioni raccolte dal Corriere della Sera del 27 luglio 2008 [3]; analogamente e - più esplicitamente - ha fatto anche Gianfranco Conte, Presidente della Commissione Finanze della Camera, con dichiarazioni raccolte da Il Sole 24 Ore (si legge: “l’arcano sull’origine della norma è stato svelato da Gianfranco Conte (Pdl), presidente della commissione Finanze della Camera, e presentatore con la Lega dell’emendamento durante l’esame in Commissione alla Camera. Il loro intento era quello di aiutare le Poste, alle prese con il contenzioso di numerosi precari con cui sono stati siglati contratti irregolari. Racconto confermato da Pierpaolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione, che si era battuto contro la norma”) [4].

Articoli 4 e 35 della Costituzione. La norma in esame pare altresì essere contrasto con il principio generale di tutela del lavoro e dei lavoratori di cui all’art. 4 e all’art. 35 della Costituzione.

L’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 contrasterebbe sia con il primo comma dell’art. 4 della Costituzione, sia con l’art. 35 della Costituzione (per il quale la Repubblica tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”) in quanto, anziché promuovere le condizioni che rendono effettive il diritto al lavoro dei cittadini, le rende deteriori. L’originaria sanzione della conversione del contratto a tempo indeterminato è stata difatti sostituita da una sanzione di natura indennitaria.

Ed invero, atteso che costituisce principio fondamentale di indirizzo per il legislatore l’impegno di perseguire una politica di pieno impiego, sia per garantire la libertà di ogni cittadino, sia per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 2 della Costituzione), a parere di chi scrive il disposto dell’articolo 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 non può certo contribuire a rafforzare il raggiungimento di tali fini. Il venire meno della stabilizzazione del rapporto - in caso di accertato abuso nell’utilizzo della fattispecie del contratto a tempo determinato - appare chiaro non essere la via adatta per perseguire l’obiettivo di massima occupazione possibile, né per garantire una retribuzione durevole nel tempo che consenta a tutti i cittadini (i cui rapporti di lavoro sono oggetto nella nuova normativa) di condurre un’esistenza davvero libera e dignitosa.

Articolo 24 della Costituzione. La scelta di limitare l’efficacia dell’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 ai soli giudizi in corso appare poi in contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Sotto questo aspetto, non vi è chi non veda come la sostituzione della sanzione della conversione del contratto con una tutela squisitamente indennitaria vanifichi un giudizio già instaurato, talvolta incidendo sulle stesse motivazioni che hanno spinto il ricorrente ad agire.

Si ritiene, difatti, che da questo punto di vista il diritto di difesa sia stato menomato perché sono state negate a ciascun ricorrente le possibilità di ottenere quel vantaggio (o bene della vita) consistente nella conversione del contratto abusivamente stipulato, vantaggio che si sarebbe potuto ottenere soltanto in sede giurisdizionale, secondo un diritto che al momento dell’introduzione del giudizio era contemplato dalla legge. E si consideri anche, come conseguenza, la lesione dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica: sovente la conclusione di un contratto a tempo determinato è stata tollerata nella consapevolezza che - in caso di abuso o irregolarità - quel rapporto avrebbe potuto essere stabilizzato mediante una pronuncia giudiziale, il che integrava una forte garanzia di tutela per la parte contraente presuntivamente più debole nel rapporto di lavoro subordinato.

Articolo 117 della Costituzione. Infine, la norma dell’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 contrasterebbe anche con l’art. 117, comma primo, della Costituzione. Infatti, a seguito della novella del citato articolo, è stato introdotto il principio secondo il quale l’ordinamento nazionale non può contravvenire ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Ebbene, nel 1999 vi fu l’entrata in vigore della Direttiva CE 1999/70, la quale, dopo avere posto alcuni importanti principi in tema di contrattazione a termine, pose il divieto di utilizzare l’attuazione al fine di ridurre il livello di tutela eventualmente più favorevole per i lavoratori a tempo determinato (Allegato A, Clausola 8: “l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito dell’Accordo stesso”). Alla citata Direttiva l’Italia diede attuazione con il Decreto Legislativo 368/2001, nella sua originaria versione, mantenendo in vigore (come da precedente tradizione normativa) la sanzione della conversione del rapporto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Il rischio per il datore di lavoro di ottenere una pronuncia giudiziale atta a stabilizzare un rapporto soggetto a termine abusivamente concluso, avrebbe dovuto essere un deterrente all’incremento smisurato ed illegittimo della fattispecie "atipica" e, nel contempo, un forte strumento di tutela per il prestatore di lavoro.

Orbene, l’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 potrebbe ritenersi illegittimo sotto il profilo della tutela accordata: mitigare la sanzione originariamente prevista, equivale ad avere ridotto il livello generale di tutela offerto ai prestatori di lavoro: e ciò in contrasto con i principi posti dalla Direttiva 1999/70/CE per la fase di sua attuazione, perché costituisce regresso di tutela non consentita (Clausola 8).

Si potrebbe però obiettare che la nuova disposizione non possa essere ricompresa nel concetto di attuazione della Direttiva. In questo senso, però, ci permettiamo di dissentire, osservando che la norma in esame non può considerarsi autonoma e separata da quella del Decreto Legislativo 368/2001, ma una sua integrazione. Infatti, se il richiamato Decreto Legislativo 368/2001 traeva il proprio fondamento da una normativa comunitaria quale Direttiva 1999/70/CE ed il relativo “Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato”, anche ogni sua eventuale integrazione dovrà essere ispirata ai principi della Direttiva. Contrariamente, non solo si dovrebbero ritenere posti nel nulla i principi di attuazione di una Direttiva, ma si incorrerebbe in una violazione degli obblighi comunitari. In parole più semplici, riteniamo che se davvero fosse consentito - dopo l’attuazione di una Direttiva con legge dello Stato - abrogare in tutto o in parte quella stessa legge, è come se mai vi sia stata data attuazione. Allo steso modo, contravvenire - mediante una modificazione legislativa interna allo Stato - a disposizioni di una Direttiva che, sebbene non debbano essere immediatamente applicate, dettano comunque principi generali ai quali uniformarsi in sede di attuazione, equivale a non dare attuazione. Per logica deduzione, attuare una Direttiva, infatti, dovrebbe significare anche mantenerne la disciplina di attuazione aderente alle prescrizioni della medesima, per non incorrere nella violazione dei vincoli ad essa connessi.

Perciò - muovendo da codeste premesse - l’aggiunta dell’art. 4 bis al Decreto Legislativo 368/2001, siccome disposizione che emenda in senso peggiorativo norme nazionali già adottate in sede di attuazione di una Direttiva, introducendo un innegabile arretramento di tutela per i lavoratori importa la violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, e, segnatamente la violazione dell’Allegato A, Clausola 8 (“l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito dell’Accordo stesso”). Violazione che, per conseguenza, riverbera i propri effetti con riferimento al principio posto dall’art. 117 della Costituzione in tema di limiti interni ed esterni alla legislazione nazionale.

Si ritiene dunque che questi siano gli aspetti di incostituzionalità più rilevanti collegati all’articolo 4 bis del decreto Legislativo 368/2001; e non è da escludersi che la questione sarà sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.



[1] Ossia il 22 agosto 2008.

[2] Testo integrale visionabile al link http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=307814

[3] Articolo visionabile al link: http://www.corriere.it/economia/08_luglio_27/norma_precari_bocchino_equa_06a5a540-5bca-11dd-b836-00144f02aabc.shtml

[4] Articolo visionabile al link: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4

Dal 22 agosto 2008 il Decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368 è stato modificato ad opera dell’articolo 21 del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con Legge 6 agosto 2008, n. 133.) Tra le diverse innovazioni apportate, vi è l’aggiunta dell’articolo 4 bis (rubricato "Disciplina transitoria concernente l’indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e proroga del termine"), da più parti immediatamente ribattezzato con l’appellativo di "norma antiprecari".

Più precisamente, il richiamato articolo prevede che "con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione [1], e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni". In parole più semplici, tutti i prestatori di lavoro a tempo determinato con una causa in corso alla data del 22 agosto 2008, nell’eventualità di esito favorevole della lite avranno solo diritto alla prevista indennità; mentre tutti coloro che si siano risolti di intentare una nuova causa successivamente a quella data, potranno ancora sperare in una sentenza costitutiva che "converta" il rapporto precario in rapporto a tempo indeterminato.

Si tratta allora di una norma che potrebbe far sorgere dubbi di legittimità costituzionale, come anche confermato dal fatto nel corso della ventottesima seduta della Commissione Affari Costituzionali del Senato (tenutasi il 29 luglio 2008) alcuni Senatori hanno esternato perplessità ed incertezze con riferimento al principio di uguaglianza [2]; infatti, dettando una disciplina transitoria per le sole cause in corso, la scelta legislativa si è orientata nel senso di sostituire per queste ultime l’originaria (e, oserei dire, "storica") sanzione di reputare il contratto a termine come contratto a tempo indeterminato - ove concluso in violazione degli articoli 1, 2 e 4 del Decreto Legislativo 368/2001 - con la corresponsione di una sola indennità da determinarsi sulla scorta dei criteri previsti dall’art. 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 (indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).

Senza pretesa di esaustività e soltanto in via sommaria riteniamo che possibili profili di illegittimità costituzionale potrebbero rivelarsi con riferimento ai seguenti principi.

Articolo 3 della Costituzione. Innanzitutto, un primo motivo di contrasto potrebbe emergere con riferimento all’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza). Appare ormai assodato, anche per elaborazione giurisprudenziale della Corte Costituzionale, che il principio di uguaglianza - nel momento in cui si traduca all’interno di un atto con forza di legge - debba intendersi rispettato laddove il dato normativo appaia ispirato il canone della ragionevolezza. In altre parole, ogni qualvolta un atto con forza di legge debba disciplinare una fattispecie che possa essere differenziata rispetto ad un’altra, occorre che tale differenziazione avvenga ragionevolmente, avuto riguardo ai fini che il legislatore intende perseguire con quella particolare norma.

L’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 parrebbe pertanto irrazionale, laddove non è teso ad un perseguimento di fini che rivestano un pubblico interesse: e tale irragionevolezza si palesa ancora più evidente in confronto con i precetti della Costituzione (tra i quali l’art. 1) che pongono il “lavoro” quale elemento fondante della Repubblica. In questo modo, infatti, si impedirebbe la realizzazione dei diritti già formatisi in capo ai lavoratori a termine; e, in particolare, di quello alla conversione del contratto a tempo indeterminato, già entrato a far parte della sfera giuridica del singolo lavoratore fin dal momento della stipula del contratto (in ragione della normativa contenuta nel testo ante novella del Decreto Legislativo 368/2001); perché tratta in maniera differente una medesima categoria di lavoratori, operando un distinguo tra questi ultimi sulla sola scorta della pendenza di un giudizio in corso ad una data certa (22 agosto 2008) senza alcuna ragionevole giustificazione, assoggettando questi ultimi ad una disciplina di gran lunga deteriore e diversa rispetto a quella degli altri lavoratori a tempo determinato; per la violazione dei principi di generalità ed astrattezza che devono essere propri della legge. Inoltre, sin dall’esternazione delle prime perplessità avanzate da alcuni membri della Camera, è emerso che l’art. 4 bis è stato formulato con l’intento di risolvere i problemi inerenti il massiccio contenzioso sulla contrattazione a termine, che per alcune aziende italiane costituisce tutt’ora un onere tutt’altro che irrilevante.

In questo senso si è espresso il Ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, con dichiarazioni raccolte dal Corriere della Sera del 27 luglio 2008 [3]; analogamente e - più esplicitamente - ha fatto anche Gianfranco Conte, Presidente della Commissione Finanze della Camera, con dichiarazioni raccolte da Il Sole 24 Ore (si legge: “l’arcano sull’origine della norma è stato svelato da Gianfranco Conte (Pdl), presidente della commissione Finanze della Camera, e presentatore con la Lega dell’emendamento durante l’esame in Commissione alla Camera. Il loro intento era quello di aiutare le Poste, alle prese con il contenzioso di numerosi precari con cui sono stati siglati contratti irregolari. Racconto confermato da Pierpaolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione, che si era battuto contro la norma”) [4].

Articoli 4 e 35 della Costituzione. La norma in esame pare altresì essere contrasto con il principio generale di tutela del lavoro e dei lavoratori di cui all’art. 4 e all’art. 35 della Costituzione.

L’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 contrasterebbe sia con il primo comma dell’art. 4 della Costituzione, sia con l’art. 35 della Costituzione (per il quale la Repubblica tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”) in quanto, anziché promuovere le condizioni che rendono effettive il diritto al lavoro dei cittadini, le rende deteriori. L’originaria sanzione della conversione del contratto a tempo indeterminato è stata difatti sostituita da una sanzione di natura indennitaria.

Ed invero, atteso che costituisce principio fondamentale di indirizzo per il legislatore l’impegno di perseguire una politica di pieno impiego, sia per garantire la libertà di ogni cittadino, sia per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 2 della Costituzione), a parere di chi scrive il disposto dell’articolo 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 non può certo contribuire a rafforzare il raggiungimento di tali fini. Il venire meno della stabilizzazione del rapporto - in caso di accertato abuso nell’utilizzo della fattispecie del contratto a tempo determinato - appare chiaro non essere la via adatta per perseguire l’obiettivo di massima occupazione possibile, né per garantire una retribuzione durevole nel tempo che consenta a tutti i cittadini (i cui rapporti di lavoro sono oggetto nella nuova normativa) di condurre un’esistenza davvero libera e dignitosa.

Articolo 24 della Costituzione. La scelta di limitare l’efficacia dell’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 ai soli giudizi in corso appare poi in contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Sotto questo aspetto, non vi è chi non veda come la sostituzione della sanzione della conversione del contratto con una tutela squisitamente indennitaria vanifichi un giudizio già instaurato, talvolta incidendo sulle stesse motivazioni che hanno spinto il ricorrente ad agire.

Si ritiene, difatti, che da questo punto di vista il diritto di difesa sia stato menomato perché sono state negate a ciascun ricorrente le possibilità di ottenere quel vantaggio (o bene della vita) consistente nella conversione del contratto abusivamente stipulato, vantaggio che si sarebbe potuto ottenere soltanto in sede giurisdizionale, secondo un diritto che al momento dell’introduzione del giudizio era contemplato dalla legge. E si consideri anche, come conseguenza, la lesione dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica: sovente la conclusione di un contratto a tempo determinato è stata tollerata nella consapevolezza che - in caso di abuso o irregolarità - quel rapporto avrebbe potuto essere stabilizzato mediante una pronuncia giudiziale, il che integrava una forte garanzia di tutela per la parte contraente presuntivamente più debole nel rapporto di lavoro subordinato.

Articolo 117 della Costituzione. Infine, la norma dell’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 contrasterebbe anche con l’art. 117, comma primo, della Costituzione. Infatti, a seguito della novella del citato articolo, è stato introdotto il principio secondo il quale l’ordinamento nazionale non può contravvenire ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Ebbene, nel 1999 vi fu l’entrata in vigore della Direttiva CE 1999/70, la quale, dopo avere posto alcuni importanti principi in tema di contrattazione a termine, pose il divieto di utilizzare l’attuazione al fine di ridurre il livello di tutela eventualmente più favorevole per i lavoratori a tempo determinato (Allegato A, Clausola 8: “l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito dell’Accordo stesso”). Alla citata Direttiva l’Italia diede attuazione con il Decreto Legislativo 368/2001, nella sua originaria versione, mantenendo in vigore (come da precedente tradizione normativa) la sanzione della conversione del rapporto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Il rischio per il datore di lavoro di ottenere una pronuncia giudiziale atta a stabilizzare un rapporto soggetto a termine abusivamente concluso, avrebbe dovuto essere un deterrente all’incremento smisurato ed illegittimo della fattispecie "atipica" e, nel contempo, un forte strumento di tutela per il prestatore di lavoro.

Orbene, l’art. 4 bis del Decreto Legislativo 368/2001 potrebbe ritenersi illegittimo sotto il profilo della tutela accordata: mitigare la sanzione originariamente prevista, equivale ad avere ridotto il livello generale di tutela offerto ai prestatori di lavoro: e ciò in contrasto con i principi posti dalla Direttiva 1999/70/CE per la fase di sua attuazione, perché costituisce regresso di tutela non consentita (Clausola 8).

Si potrebbe però obiettare che la nuova disposizione non possa essere ricompresa nel concetto di attuazione della Direttiva. In questo senso, però, ci permettiamo di dissentire, osservando che la norma in esame non può considerarsi autonoma e separata da quella del Decreto Legislativo 368/2001, ma una sua integrazione. Infatti, se il richiamato Decreto Legislativo 368/2001 traeva il proprio fondamento da una normativa comunitaria quale Direttiva 1999/70/CE ed il relativo “Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato”, anche ogni sua eventuale integrazione dovrà essere ispirata ai principi della Direttiva. Contrariamente, non solo si dovrebbero ritenere posti nel nulla i principi di attuazione di una Direttiva, ma si incorrerebbe in una violazione degli obblighi comunitari. In parole più semplici, riteniamo che se davvero fosse consentito - dopo l’attuazione di una Direttiva con legge dello Stato - abrogare in tutto o in parte quella stessa legge, è come se mai vi sia stata data attuazione. Allo steso modo, contravvenire - mediante una modificazione legislativa interna allo Stato - a disposizioni di una Direttiva che, sebbene non debbano essere immediatamente applicate, dettano comunque principi generali ai quali uniformarsi in sede di attuazione, equivale a non dare attuazione. Per logica deduzione, attuare una Direttiva, infatti, dovrebbe significare anche mantenerne la disciplina di attuazione aderente alle prescrizioni della medesima, per non incorrere nella violazione dei vincoli ad essa connessi.

Perciò - muovendo da codeste premesse - l’aggiunta dell’art. 4 bis al Decreto Legislativo 368/2001, siccome disposizione che emenda in senso peggiorativo norme nazionali già adottate in sede di attuazione di una Direttiva, introducendo un innegabile arretramento di tutela per i lavoratori importa la violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, e, segnatamente la violazione dell’Allegato A, Clausola 8 (“l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito dell’Accordo stesso”). Violazione che, per conseguenza, riverbera i propri effetti con riferimento al principio posto dall’art. 117 della Costituzione in tema di limiti interni ed esterni alla legislazione nazionale.

Si ritiene dunque che questi siano gli aspetti di incostituzionalità più rilevanti collegati all’articolo 4 bis del decreto Legislativo 368/2001; e non è da escludersi che la questione sarà sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.



[1] Ossia il 22 agosto 2008.

[2] Testo integrale visionabile al link http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=307814

[3] Articolo visionabile al link: http://www.corriere.it/economia/08_luglio_27/norma_precari_bocchino_equa_06a5a540-5bca-11dd-b836-00144f02aabc.shtml

[4] Articolo visionabile al link: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4