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Parte la riforma dei servizi pubblici locali, ecco le novità su gare ed affidamenti in house

Con l’approvazione del nuovo articolo 23-bis, introdotto dalla legge n. 133/2008 in sede di conversione del decreto legge n. 112/2008 contenente la manovra economica d’estate, la riforma dei servizi pubblici locali ha tagliato il nastro di partenza per avviarsi, con passo incerto, verso un difficile traguardo.

È condivisibile, innanzitutto, l’impianto della norma, che si limita a formulare alcuni principi generali, facendo rinvio, per quanto riguarda la disciplina dei nodi cruciali e dei relativi aspetti di dettaglio, all’emanazione di uno o più regolamenti di attuazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

Infatti, alla luce della pregressa esperienza vissuta con i vani tentativi di riforma che si sono succeduti nelle precedenti legislature, la scelta metodologica di intervenire per gradi nel rimodellare le regole di una materia così variegata e complessa qual è la gestione dei servizi pubblici locali non può che rappresentare una linea di condotta opportuna ed avveduta.

In questa cornice l’articolo 23 bis, composto di dodici commi, racchiude disposizioni di prim’ordine, aventi lo scopo “di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione”.

L’importanza di spicco della normativa in commento è inoltre testimoniata, come si legge nel primo comma dell’articolo, dal fatto che le relative disposizioni “si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”.

Si rileva, per altro verso, che il limite della metodologia impiegata sta nel rischio di aver trascurato (quanto meno nell’orizzonte del breve e medio periodo) la necessaria integrazione sistematica delle nuove norme di principio con quelle contenute nell’ordinamento oggi vigente.

Non basta asserire, infatti, come prevede il comma 11 della norma in commento, che “l’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo”, per riconoscere con sufficiente certezza del diritto le disposizioni rimaste effettivamente in vigore, rispetto a quelle invece abrogate.

È ben vero che, con prudente apprezzamento, nei lavori preparatori in sede di commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera è stata espunta la previsione che demandava successivi regolamenti di attuazione l’indicazione delle specifiche disposizioni abrogate nel citato articolo 113: se il costrutto fosse rimasto quello originario, la confusione, di primo acchito, sarebbe stata davvero grande.

Ciò nondimeno, anche nella versione vigente del comma 11 resta pur sempre il fatto che nell’interregno del diritto – ossia fintantoché non saranno emanate le preannunciate disposizioni regolamentari – verrà inevitabilmente ad emergere una situazione d’incertezza circa le norme abrogate, con l’effetto di ingenerare, all’atto pratico, dubbi interpretativi e potenziali fonti di contenzioso, di cui l’odierno mercato dei servizi pubblici locali, per la verità, non sembra proprio avvertire il bisogno.

Con l’introduzione della nuova norma diventa regola generale di diritto che il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, mediante l’espletamento di procedure competitive ad evidenza pubblica, nell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario (art. 23 bis, comma 2).

È da notare, per inciso, che nella versione originaria del testo proposto con l’emendamento del Governo, era previsto che alle gare potessero partecipare società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che avessero scelto il socio privato mediante procedure competitive.

La disposizione lasciava trasparire l’intendimento (non troppo velato) dell’esecutivo di escludere dalle competizioni le società a capitale misto, ove il partner privato non fosse stato scelto con gara.

Come è stato ribadito, sul punto, dalla Commissione Europea nella comunicazione interpretativa 2008/C91/02 pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea del 12 aprile 2008, in qualsiasi ipotesi di partnership pubblico-privata “le disposizioni di diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni impongono all’amministrazione aggiudicatrice di seguire una procedura equa e trasparente quando procede alla selezione del partner privato che, nell’ambito della sua partecipazione all’entità a capitale misto, fornisce beni, lavori o servizi (…). In ogni caso, le amministrazioni aggiudicatrici non possono ricorrere a manovre dirette a celare l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi a società ad economia mista”.

Anche la recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 889, basandosi sul principio fondamentale dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione il quale prevede che ogni contratto dell’ente pubblico da cui derivi un’entrata o una spesa deve essere preceduto da una gara (art. 3 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440), ha evidenziato la necessità per la p.a. di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta essa debba scegliere un socio privato per la costituzione di una società mista, indipendentemente dal tipo di attività che tale società debba espletare.

D’altro canto, il quarto considerando della direttiva 2004/18/CE sollecita in maniera espressa gli Stati membri a provvedere affinché la partecipazione di un organismo a diritto pubblico a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in qualità di offerente non causi distorsioni della concorrenza nei confronti di offerenti privati.

Ecco che, in questa logica di tutela della libera concorrenza, l’intento originario dell’emendamento era volto in sostanza a penalizzare l’operatività delle società miste con partner privato scelto senza gara, facendo leva sul fatto che in nome di un prevalente interesse superiore può essere legittimamente compressa la libera iniziativa privata in capo ad un soggetto economico operante nel mercato.

Durante i lavori in commissione, è stata però espunta la previsione di escludere dalla partecipazione alla gara le società miste con socio privato scelto senza gara, forse in ossequio al più pregnante e generale principio del diritto comunitario secondo cui qualsiasi entità a capitale privato è libera, al pari di ogni operatore economico, di partecipare a gare pubbliche di appalto indette sul territorio degli stati membri.

Senza la pretesa di commentare in maniera esauriente una norma così complessa ed articolata, che presumibilmente darà corso ad una ricca attività interpretativa, non si può che confermare, ad una prima lettura, la massima per cui anche la regola più inflessibile ha sempre le sue eccezioni.

Il riferimento concerne il modello funzionale dell’affidamento in house, che fa capolino in edizione piuttosto implicita e sommessa, all’art. 23 bis, comma 3: “in deroga alle modalità di affidamento ordinario (...) per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”.

L’espressione designa, in buona sostanza, quel soggetto affidatario che, secondo gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, è individuato nella società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, con i prescritti requisiti per conseguire la gestione in house.

Il tratto innovativo sembra risiedere nelle modalità specifiche e nella motivazione che, secondo la normativa, devono caratterizzare l’affidamento diretto operato dall’ente locale.

Ciò vale a dire, in sintesi, quanto segue:

a) la deroga alle modalità di affidamento con gara può aver luogo soltanto per le situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato;

b) in ogni caso, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato, e deve contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante per la concorrenza e del mercato e all’autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione (comma 4).

Secondo il testo dell’art. 23 bis licenziato dalle commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera, il quadro ora descritto si completava con l’alternativa facoltà prevista per l’Ente locale di optare – in presenza delle medesime circostanze e con analoghe modalità – non già per l’affidamento in house, bensì per l’affidamento diretto a favore società a partecipazione mista pubblica e privata, anche quotate in borsa, partecipate dall’ente locale, a condizione che il socio privato fosse scelto mediante procedure ad evidenza pubblica, nelle quali fossero già stabilite le condizioni e la durata della gestione del servizio, nonché la modalità di liquidazione del socio al momento della scadenza dell’affidamento del servizio.

Ora questa materia – ecco la novità – non trova più una esplicita disciplina nel testo vigente del nuovo articolo, che vi fa invece riferimento mediante un generico rinvio al “rispetto dei principi della disciplina comunitaria”, quale presupposto necessario per legittimare una deroga alle modalità di affidamento ordinario.

La fattispecie si ricollega ad un’evoluzione giurisprudenziale il cui punto d’arrivo sembra essersi, in qualche misura, consolidato.

È il caso di ricordare che la giurisprudenza amministrativa si è a lungo soffermata sulla relazione che intercorre tra la gara pubblica per la selezione del socio privato, da un lato, e le modalità di affidamento del servizio alla costituita società mista, dall’altro.

In diverse circostanze il Consiglio di Stato, a partire dalla pronuncia della sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272, ha sostanzialmente escluso la necessità di una seconda gara per l’affidamento del servizio pubblico, dopo la prima gara esperita per la scelta del socio privato, sostenendo la perfetta compatibilità di questo modus procedendi con i principi della libera concorrenza sanciti dalla giurisprudenza comunitaria.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, con la decisione 27 ottobre 2006, n. 589, si è, invece, arroccato sulla sponda opposta, assumendo che la scelta con gara del partner per la costituzione della società mista non esimerebbe in alcun caso l’ente locale dall’obbligo di esperire l’ulteriore successiva gara per affidare il servizio.

Al che, il Consiglio di Stato è nuovamente ritornato sull’argomento (sez. II, parere 18 aprile 2007, n. 456) per confermare – in esito ad un circostanziato excursus – la legittimità della forma di collaborazione pubblico-privato, secondo il modello organizzativo della società mista affidataria diretta del servizio con il socio privato scelto con gara, dacché “se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica”.

Con il medesimo parere, il supremo giudice amministrativo ha però ravvisato la necessità dei seguenti accorgimenti:

a) che vi sia un’equiparazione tra la gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un "socio industriale od operativo", che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;

b) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione "alla scadenza del periodo di affidamento", evitando così che il socio divenga "socio stabile" della società mista, beneficiando arbitrariamente di affidamenti di servizi per i quali egli non abbia regolarmente concorso in sede di gara.

Secondo il Consiglio di Stato, la peculiarità dell’opzione in commento rispetto alle ordinarie modalità di affidamento risiederebbe non tanto nell’assenza di una procedura di gara per l’affidamento del servizio, quanto nel tipo di controllo esercitato dall’amministrazione sull’affidatario privato: non più l’usuale controllo esterno dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, quanto un più pregnante controllo interno del socio pubblico.

Ora, è chiaro che se le indicazioni formulate dal Consiglio di Stato fossero state recepite in forma espressa dall’art. 23 bis, ciò avrebbe conferito alla riforma in cantiere il valore aggiunto di beneficiare del frutto delle più autorevoli elaborazioni giurisprudenziali sviluppate nella materia de qua.

Diversamente, il vago richiamo ora formulato dal comma 3 alla necessità che la deroga all’obbligo di assegnare la gestione del servizio con gara abbia luogo “nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”, non appare un assunto altrettanto idoneo a regolamentare con chiarezza il punto in questione, anche se è difficile dire che sia davvero prevalso l’intendimento di apportare un giro di vite alle modalità di scelta del contraente da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, restringendo il campo d’azione della deroga alla gara esclusivamente alla fattispecie degli affidamenti in house, e non anche a quella delle società miste pubblico-private.

A margine di questi rilievi, un’osservazione a parte merita il quadro delle specifiche modalità con cui è stato recepito, nel nuovo art. 23 bis, l’istituto dell’affidamento in house.

Il quid novi contenuto nel comma 3, come si è visto innanzi, si limita a prevedere che la deroga alle modalità di affidamento con gara può aver luogo soltanto “per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”.

E’ di immediata evidenza che l’assunto non è una diretta derivazione degli orientamenti giurisprudenziali che si sono sviluppati a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal, per la quale l’affidamento “in house” può aver luogo solo qualora l’ente affidante eserciti sulla società affidataria un controllo analogo a quello dallo stesso esercitato sui propri servizi e la seconda realizzi la parte più importante della propria attività verso l’ente o gli enti che la controllano.

Mentre, infatti, la giurisprudenza comunitaria si è da sempre occupata di accertare i presupposti occorrenti perché la società affidataria possa essere qualificata come una longa manus dell’ente affidante, talché la gestione dell’appalto o del servizio pubblico ad essa affidato appaia, in qualche misura, riconducibile allo stesso ente affidante ovvero ad una sua articolazione, nulla di tutto questo traspare in forma espressa dal comma 3 sopra citato.

Quest’ultimo si riferisce, piuttosto, ad una condizione specifica del contesto territoriale ed economico del tutto esterna al rapporto di delegazione interorganica intercorrente tra l’ente affidante e il soggetto affidatario: condizione che, peraltro, sembra costituire un fattore aggiuntivo ai presupposti necessari per attuare legittimamente un affidamento diretto, come a voler dire che se un determinato segmento di mercato è aperto alla libera concorrenza degli operatori economici, non si dovrebbero comunque dare, in tal caso, le condizioni minime di legittimità per dare corso ad un affidamento in house.

In questo quadro, non è facile dire se una riforma dei servizi pubblici locali che si caratterizza con le molteplici peculiarità tratteggiate sia idonea a favorire, come pure dichiaratamente afferma, “la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”.

Sembra prudente dare, come sempre, la parola ai fatti, pur nella consapevolezza che il pervicace mercato di nicchia a livello locale da un lato e, dall’altro, la difficoltà organizzativa da parte degli enti locali di indire complesse gare ad evidenza pubblica sul territorio, possono indurre a nutrire più di qualche dubbio in ordine alle prospettive di un settore così travagliato come quello dei servizi pubblici locali.

Con l’approvazione del nuovo articolo 23-bis, introdotto dalla legge n. 133/2008 in sede di conversione del decreto legge n. 112/2008 contenente la manovra economica d’estate, la riforma dei servizi pubblici locali ha tagliato il nastro di partenza per avviarsi, con passo incerto, verso un difficile traguardo.

È condivisibile, innanzitutto, l’impianto della norma, che si limita a formulare alcuni principi generali, facendo rinvio, per quanto riguarda la disciplina dei nodi cruciali e dei relativi aspetti di dettaglio, all’emanazione di uno o più regolamenti di attuazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

Infatti, alla luce della pregressa esperienza vissuta con i vani tentativi di riforma che si sono succeduti nelle precedenti legislature, la scelta metodologica di intervenire per gradi nel rimodellare le regole di una materia così variegata e complessa qual è la gestione dei servizi pubblici locali non può che rappresentare una linea di condotta opportuna ed avveduta.

In questa cornice l’articolo 23 bis, composto di dodici commi, racchiude disposizioni di prim’ordine, aventi lo scopo “di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione”.

L’importanza di spicco della normativa in commento è inoltre testimoniata, come si legge nel primo comma dell’articolo, dal fatto che le relative disposizioni “si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”.

Si rileva, per altro verso, che il limite della metodologia impiegata sta nel rischio di aver trascurato (quanto meno nell’orizzonte del breve e medio periodo) la necessaria integrazione sistematica delle nuove norme di principio con quelle contenute nell’ordinamento oggi vigente.

Non basta asserire, infatti, come prevede il comma 11 della norma in commento, che “l’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo”, per riconoscere con sufficiente certezza del diritto le disposizioni rimaste effettivamente in vigore, rispetto a quelle invece abrogate.

È ben vero che, con prudente apprezzamento, nei lavori preparatori in sede di commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera è stata espunta la previsione che demandava successivi regolamenti di attuazione l’indicazione delle specifiche disposizioni abrogate nel citato articolo 113: se il costrutto fosse rimasto quello originario, la confusione, di primo acchito, sarebbe stata davvero grande.

Ciò nondimeno, anche nella versione vigente del comma 11 resta pur sempre il fatto che nell’interregno del diritto – ossia fintantoché non saranno emanate le preannunciate disposizioni regolamentari – verrà inevitabilmente ad emergere una situazione d’incertezza circa le norme abrogate, con l’effetto di ingenerare, all’atto pratico, dubbi interpretativi e potenziali fonti di contenzioso, di cui l’odierno mercato dei servizi pubblici locali, per la verità, non sembra proprio avvertire il bisogno.

Con l’introduzione della nuova norma diventa regola generale di diritto che il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, mediante l’espletamento di procedure competitive ad evidenza pubblica, nell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario (art. 23 bis, comma 2).

È da notare, per inciso, che nella versione originaria del testo proposto con l’emendamento del Governo, era previsto che alle gare potessero partecipare società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che avessero scelto il socio privato mediante procedure competitive.

La disposizione lasciava trasparire l’intendimento (non troppo velato) dell’esecutivo di escludere dalle competizioni le società a capitale misto, ove il partner privato non fosse stato scelto con gara.

Come è stato ribadito, sul punto, dalla Commissione Europea nella comunicazione interpretativa 2008/C91/02 pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea del 12 aprile 2008, in qualsiasi ipotesi di partnership pubblico-privata “le disposizioni di diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni impongono all’amministrazione aggiudicatrice di seguire una procedura equa e trasparente quando procede alla selezione del partner privato che, nell’ambito della sua partecipazione all’entità a capitale misto, fornisce beni, lavori o servizi (…). In ogni caso, le amministrazioni aggiudicatrici non possono ricorrere a manovre dirette a celare l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi a società ad economia mista”.

Anche la recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 889, basandosi sul principio fondamentale dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione il quale prevede che ogni contratto dell’ente pubblico da cui derivi un’entrata o una spesa deve essere preceduto da una gara (art. 3 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440), ha evidenziato la necessità per la p.a. di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta essa debba scegliere un socio privato per la costituzione di una società mista, indipendentemente dal tipo di attività che tale società debba espletare.

D’altro canto, il quarto considerando della direttiva 2004/18/CE sollecita in maniera espressa gli Stati membri a provvedere affinché la partecipazione di un organismo a diritto pubblico a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in qualità di offerente non causi distorsioni della concorrenza nei confronti di offerenti privati.

Ecco che, in questa logica di tutela della libera concorrenza, l’intento originario dell’emendamento era volto in sostanza a penalizzare l’operatività delle società miste con partner privato scelto senza gara, facendo leva sul fatto che in nome di un prevalente interesse superiore può essere legittimamente compressa la libera iniziativa privata in capo ad un soggetto economico operante nel mercato.

Durante i lavori in commissione, è stata però espunta la previsione di escludere dalla partecipazione alla gara le società miste con socio privato scelto senza gara, forse in ossequio al più pregnante e generale principio del diritto comunitario secondo cui qualsiasi entità a capitale privato è libera, al pari di ogni operatore economico, di partecipare a gare pubbliche di appalto indette sul territorio degli stati membri.

Senza la pretesa di commentare in maniera esauriente una norma così complessa ed articolata, che presumibilmente darà corso ad una ricca attività interpretativa, non si può che confermare, ad una prima lettura, la massima per cui anche la regola più inflessibile ha sempre le sue eccezioni.

Il riferimento concerne il modello funzionale dell’affidamento in house, che fa capolino in edizione piuttosto implicita e sommessa, all’art. 23 bis, comma 3: “in deroga alle modalità di affidamento ordinario (...) per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”.

L’espressione designa, in buona sostanza, quel soggetto affidatario che, secondo gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, è individuato nella società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, con i prescritti requisiti per conseguire la gestione in house.

Il tratto innovativo sembra risiedere nelle modalità specifiche e nella motivazione che, secondo la normativa, devono caratterizzare l’affidamento diretto operato dall’ente locale.

Ciò vale a dire, in sintesi, quanto segue:

a) la deroga alle modalità di affidamento con gara può aver luogo soltanto per le situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato;

b) in ogni caso, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato, e deve contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante per la concorrenza e del mercato e all’autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione (comma 4).

Secondo il testo dell’art. 23 bis licenziato dalle commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera, il quadro ora descritto si completava con l’alternativa facoltà prevista per l’Ente locale di optare – in presenza delle medesime circostanze e con analoghe modalità – non già per l’affidamento in house, bensì per l’affidamento diretto a favore società a partecipazione mista pubblica e privata, anche quotate in borsa, partecipate dall’ente locale, a condizione che il socio privato fosse scelto mediante procedure ad evidenza pubblica, nelle quali fossero già stabilite le condizioni e la durata della gestione del servizio, nonché la modalità di liquidazione del socio al momento della scadenza dell’affidamento del servizio.

Ora questa materia – ecco la novità – non trova più una esplicita disciplina nel testo vigente del nuovo articolo, che vi fa invece riferimento mediante un generico rinvio al “rispetto dei principi della disciplina comunitaria”, quale presupposto necessario per legittimare una deroga alle modalità di affidamento ordinario.

La fattispecie si ricollega ad un’evoluzione giurisprudenziale il cui punto d’arrivo sembra essersi, in qualche misura, consolidato.

È il caso di ricordare che la giurisprudenza amministrativa si è a lungo soffermata sulla relazione che intercorre tra la gara pubblica per la selezione del socio privato, da un lato, e le modalità di affidamento del servizio alla costituita società mista, dall’altro.

In diverse circostanze il Consiglio di Stato, a partire dalla pronuncia della sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272, ha sostanzialmente escluso la necessità di una seconda gara per l’affidamento del servizio pubblico, dopo la prima gara esperita per la scelta del socio privato, sostenendo la perfetta compatibilità di questo modus procedendi con i principi della libera concorrenza sanciti dalla giurisprudenza comunitaria.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, con la decisione 27 ottobre 2006, n. 589, si è, invece, arroccato sulla sponda opposta, assumendo che la scelta con gara del partner per la costituzione della società mista non esimerebbe in alcun caso l’ente locale dall’obbligo di esperire l’ulteriore successiva gara per affidare il servizio.

Al che, il Consiglio di Stato è nuovamente ritornato sull’argomento (sez. II, parere 18 aprile 2007, n. 456) per confermare – in esito ad un circostanziato excursus – la legittimità della forma di collaborazione pubblico-privato, secondo il modello organizzativo della società mista affidataria diretta del servizio con il socio privato scelto con gara, dacché “se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica”.

Con il medesimo parere, il supremo giudice amministrativo ha però ravvisato la necessità dei seguenti accorgimenti:

a) che vi sia un’equiparazione tra la gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un "socio industriale od operativo", che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;

b) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione "alla scadenza del periodo di affidamento", evitando così che il socio divenga "socio stabile" della società mista, beneficiando arbitrariamente di affidamenti di servizi per i quali egli non abbia regolarmente concorso in sede di gara.

Secondo il Consiglio di Stato, la peculiarità dell’opzione in commento rispetto alle ordinarie modalità di affidamento risiederebbe non tanto nell’assenza di una procedura di gara per l’affidamento del servizio, quanto nel tipo di controllo esercitato dall’amministrazione sull’affidatario privato: non più l’usuale controllo esterno dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, quanto un più pregnante controllo interno del socio pubblico.

Ora, è chiaro che se le indicazioni formulate dal Consiglio di Stato fossero state recepite in forma espressa dall’art. 23 bis, ciò avrebbe conferito alla riforma in cantiere il valore aggiunto di beneficiare del frutto delle più autorevoli elaborazioni giurisprudenziali sviluppate nella materia de qua.

Diversamente, il vago richiamo ora formulato dal comma 3 alla necessità che la deroga all’obbligo di assegnare la gestione del servizio con gara abbia luogo “nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”, non appare un assunto altrettanto idoneo a regolamentare con chiarezza il punto in questione, anche se è difficile dire che sia davvero prevalso l’intendimento di apportare un giro di vite alle modalità di scelta del contraente da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, restringendo il campo d’azione della deroga alla gara esclusivamente alla fattispecie degli affidamenti in house, e non anche a quella delle società miste pubblico-private.

A margine di questi rilievi, un’osservazione a parte merita il quadro delle specifiche modalità con cui è stato recepito, nel nuovo art. 23 bis, l’istituto dell’affidamento in house.

Il quid novi contenuto nel comma 3, come si è visto innanzi, si limita a prevedere che la deroga alle modalità di affidamento con gara può aver luogo soltanto “per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”.

E’ di immediata evidenza che l’assunto non è una diretta derivazione degli orientamenti giurisprudenziali che si sono sviluppati a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal, per la quale l’affidamento “in house” può aver luogo solo qualora l’ente affidante eserciti sulla società affidataria un controllo analogo a quello dallo stesso esercitato sui propri servizi e la seconda realizzi la parte più importante della propria attività verso l’ente o gli enti che la controllano.

Mentre, infatti, la giurisprudenza comunitaria si è da sempre occupata di accertare i presupposti occorrenti perché la società affidataria possa essere qualificata come una longa manus dell’ente affidante, talché la gestione dell’appalto o del servizio pubblico ad essa affidato appaia, in qualche misura, riconducibile allo stesso ente affidante ovvero ad una sua articolazione, nulla di tutto questo traspare in forma espressa dal comma 3 sopra citato.

Quest’ultimo si riferisce, piuttosto, ad una condizione specifica del contesto territoriale ed economico del tutto esterna al rapporto di delegazione interorganica intercorrente tra l’ente affidante e il soggetto affidatario: condizione che, peraltro, sembra costituire un fattore aggiuntivo ai presupposti necessari per attuare legittimamente un affidamento diretto, come a voler dire che se un determinato segmento di mercato è aperto alla libera concorrenza degli operatori economici, non si dovrebbero comunque dare, in tal caso, le condizioni minime di legittimità per dare corso ad un affidamento in house.

In questo quadro, non è facile dire se una riforma dei servizi pubblici locali che si caratterizza con le molteplici peculiarità tratteggiate sia idonea a favorire, come pure dichiaratamente afferma, “la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”.

Sembra prudente dare, come sempre, la parola ai fatti, pur nella consapevolezza che il pervicace mercato di nicchia a livello locale da un lato e, dall’altro, la difficoltà organizzativa da parte degli enti locali di indire complesse gare ad evidenza pubblica sul territorio, possono indurre a nutrire più di qualche dubbio in ordine alle prospettive di un settore così travagliato come quello dei servizi pubblici locali.