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Una nuova lettura dell’articolo 37 Codice Procedura Civile

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite, Sentenza 9 ottobre 2008, n. 24883
La sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite.

Con la recente sentenza n. 24883/08 le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno fornito agli operatori del diritto una nuova lettura dell’art. 37 c.p.c, in virtù della quale il difetto di giurisdizione assumerebbe ad oggi una disciplina del tutto diversa dal dato testuale.

Come noto tale norma prevede, infatti, che “il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.

Tale disposizione aveva già in passato subito una prima rilettura attraverso l’introduzione del limite del cosiddetto “giudicato esplicito” sulla giurisdizione: con tale orientamento unanime la Cassazione affermava che la rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, del difetto di giurisdizione dovesse ritenersi preclusa per il passaggio in giudicato della pronuncia che abbia esplicitamente affermato detta giurisdizione, o della pronuncia che abbia statuito nel merito sul necessario presupposto della giurisdizione stessa, per cui laddove tale pronuncia non fosse stata specificamente impugnata, essa non avrebbe potuto più oggetto di riesame anche in sede di legittimità (ex multis Cass. SS UU n. 3159 del 12-04-1990, n. 6559 del 06-07-1998 e n. 5207 del 10-03-2005).

Con la sentenza che si segnala le Sezioni Unite della Cassazione tornano nuovamente sul significato dell’art. 37 c.p.c., ritenendo che la preclusione relativa al riesame della questione di giurisdizione opera non solo nel caso di giudicato esplicito, ma anche nel caso di “giudicato implicito”.

Le Sezioni Unite sottolineano, infatti, come l’assenza di una pronuncia esplicita sulla giurisdizione non significa che il giudice non abbia affrontato la questione, atteso che se è stato deciso il merito, in virtù del combinato disposto degli artt. 276, comma 2, e 37 c.p.c., si deve ritenere che il giudice abbia già deciso, implicitamente e in senso positivo, la questione pregiudiziale della giurisdizione.

Sulla base di tale ragionamento, le Sezioni Unite affermano, quindi, che la questione di giurisdizione può essere sollevata dalle parti e rilevata d’ufficio fino a quando non si sia formato su di essa un giudicato esplicito od implicito: la mancata impugnazione della sentenza di primo grado relativamente al capo sulla giurisdizione, anche se “implicito”, comporterà quindi l’impossibilità di riesaminare la questione nei successivi gradi del processo, per avvenuta acquiescenza ex art. 329, comma 2, c.p.c.

Solo in due casi le Sezioni Unite ritengono che tale limite non operi, restando quindi il difetto di giurisdizione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado: quando la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, ovvero quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione, ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum,

In via argomentativa le Sezione Unite fondano tale soluzione in primo luogo dando massimo rilievo al principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone una rilettura dell’art. 37 c.p.c. conforme al mutato quadro costituzionale.

Affermano le Sezioni Unite che l’art. 37 c.p.c., comma 1, nell’interpretazione tradizionale, basata sulla sola lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela, in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito.

In secondo luogo le Sezioni Unite fanno leva sulla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 77/2007, che ha affermato il principio della traslatio iudicii nel nostro ordinamento, per sostenere che ad oggi la questione di giurisdizione deve ritenersi assimilata a quella di competenza.

Se, quindi, con la riforma dell’art. 38 c.p.c. è stato fortemente ristretto l’ambito entro il quale può essere sollevato il difetto di competenza, per ragioni di coerenza del sistema, deve propendersi per una lettura restrittiva nei termini suesposti anche dell’art. 37 c.p.c.

L’effetto dirompente di tale impostazione è assolutamente evidente: se la questione di giurisdizione non viene sollevata d’ufficio o dalle parti nel primo grado del procedimento e la sentenza di primo grado, anche laddove non contenga una pronuncia esplicita sulla giurisdizione, non sia impugnata specificamente con riferimento a tale questione, la controversia potrà essere decisa da un giudice originariamente privo di giurisdizione.

Le Sezioni Unite, tuttavia, ritengono che tale soluzione non contrasti con il principio del Giudice naturale di cui all’art. 25 Cost.

Si afferma, infatti, che per la giurisdizione possa valere quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 128/1999 con riferimento alla nuova disciplina di cui all’art. 38 c.p.c. in materia di competenza, per cui al legislatore deve riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell’articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza e, quindi, il legislatore può legittimamente introdurre limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio dell’interesse all’ordine ed alla speditezza del processo.

Rilievi critici.

La sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite Civili affronta un tema di fondamentale importanza per il nostro ordinamento quale il rapporto tra le diverse giurisdizione.

Un tema oggi ancora più rilevante dopo le sentenze della Corte Costituzionale n. 77/2007 e delle Sezioni Unite della Cassazione n. 4109/2008 sulla traslatio iudicii, con le quali è stato dato un primo importantissimo scossone al tradizionale rapporto tra le giurisdizioni esistenti all’interno del nostro ordinamento.

È evidente l’intento perseguito dalle Sezioni Unite con tale pronuncia: evitare che un procedimento, potenzialmente anche dopo due gradi di merito, possa definitivamente cadere in seguito al rilievo del difetto di giurisdizione effettuato dalle parti o d’ufficio dinanzi alla Cassazione.

Nonostante tale del tutto condivisibile intento, la sentenza n. 24883/08 appare sorprendente se si considera come la Cassazione abbia di fatto interamente riscritto l’art. 37 c.p.c., la cui formulazione letterale è chiarissima: il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.

Non può non apparire evidente come tale dato testuale, da cui non si può assolutamente prescindere, appare del tutto contrastante e svuotato di significato da quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza in oggetto.

In assenza di un intervento del legislatore in tal senso, sarebbe quindi stato preferibile, ed è auspicabile che si agisca in tal senso in futuro, che la questione della compatibilità tra l’art. 37 c.p.c. e l’art. 111 Cost., con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, fosse stata rimessa alla Corte Costituzionale, organo costituzionalmente deputato a valutare la legittimità costituzionale delle norme del nostro ordinamento.

Passando all’esame della soluzione predisposta dalle Sezioni Unite, dalla lettura della sentenza risulta poco chiaro in quali casi si possa ritenere non operante il giudicato implicito sulla giurisdizione.

Se è vero, infatti, che quando il giudice decide il merito ha già implicitamente valutato sussistente la propria giurisdizione, atteso che “il giudice deve innanzitutto "autolegittimarsi" (art. 276 c.p.c., comma 2) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva”, non si comprende quando possano sussistere quei casi in cui deve ritenersi che la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, ovvero che dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione, ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum.

Un ulteriore rilievo critico può essere effettuato con riferimento all’apparato argomentativo predisposto dalle Sezioni Unite a sostegno della propria tesi, in cui assume un notevole peso l’accostamento dell’art. 37 c.p.c. in materia di giurisdizione con l’art. 38 c.p.c. in materia di competenza.

La Cassazione ritiene, infatti, che essendo la giurisdizione e la competenza collegati in termini di continenza, e alla luce della nuova formulazione dell’art. 38 c.p.c., che limita la rilevabilità del difetto di competenza per materia, valore e territorio derogabile, anche d’ufficio, alla prima udienza di trattazione, non può non accedersi ad una lettura più restrittiva anche dell’art. 37 c.p.c., per ragioni di coerenza del sistema.

Non c’è chi non veda, tuttavia, come tra questione di competenza e di giurisdizione vi sia una fondamentale differenza, che giustifica la previsione di una diversa disciplina: la prima riguarda la potestas judicandi di giudici dello stesso ordine, la seconda coinvolge invece i rapporti tra giudici di ordini diversi.

Peraltro come osservano le stesse Sezioni Unite in un passaggio molto importante della sentenza in commento in cui si richiama l’ordinanza n. 128/1999 della Corte Costituzionale, “al legislatore deve riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell’articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza e, quindi, il legislatore può legittimamente introdurre limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio dell’interesse all’ordine ed alla speditezza del processo”.

Se ciò è vero non può non riconoscersi come il legislatore, nella sua ampia discrezionalità, nonostante la nuova versione dell’art. 38 c.p.c., abbia ritenuto di non modificare la disciplina dell’art. 37 c.p.c.: le Sezioni Unite sembrano quindi cadere in contraddizione con quanto sopra enunciato, quando affermano che “nel mutato quadro normativo, gli effetti dell’art. 38 c.p.c., riformato, si proiettano necessariamente sulla portata dell’art. 37 c.p.c., nel senso che se la verifica della competenza implica la verifica della giurisdizione, quando i tempi per la verifica della competenza sono esauriti coerenza vuole che siano esauriti anche quelli per la verifica della giurisdizione; ovvero, coerenza vuole che almeno questi ultimi non siano dilatati fino al punto da essere incompatibili con la ragionevole durata del processo”.

La sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite.

Con la recente sentenza n. 24883/08 le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno fornito agli operatori del diritto una nuova lettura dell’art. 37 c.p.c, in virtù della quale il difetto di giurisdizione assumerebbe ad oggi una disciplina del tutto diversa dal dato testuale.

Come noto tale norma prevede, infatti, che “il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.

Tale disposizione aveva già in passato subito una prima rilettura attraverso l’introduzione del limite del cosiddetto “giudicato esplicito” sulla giurisdizione: con tale orientamento unanime la Cassazione affermava che la rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, del difetto di giurisdizione dovesse ritenersi preclusa per il passaggio in giudicato della pronuncia che abbia esplicitamente affermato detta giurisdizione, o della pronuncia che abbia statuito nel merito sul necessario presupposto della giurisdizione stessa, per cui laddove tale pronuncia non fosse stata specificamente impugnata, essa non avrebbe potuto più oggetto di riesame anche in sede di legittimità (ex multis Cass. SS UU n. 3159 del 12-04-1990, n. 6559 del 06-07-1998 e n. 5207 del 10-03-2005).

Con la sentenza che si segnala le Sezioni Unite della Cassazione tornano nuovamente sul significato dell’art. 37 c.p.c., ritenendo che la preclusione relativa al riesame della questione di giurisdizione opera non solo nel caso di giudicato esplicito, ma anche nel caso di “giudicato implicito”.

Le Sezioni Unite sottolineano, infatti, come l’assenza di una pronuncia esplicita sulla giurisdizione non significa che il giudice non abbia affrontato la questione, atteso che se è stato deciso il merito, in virtù del combinato disposto degli artt. 276, comma 2, e 37 c.p.c., si deve ritenere che il giudice abbia già deciso, implicitamente e in senso positivo, la questione pregiudiziale della giurisdizione.

Sulla base di tale ragionamento, le Sezioni Unite affermano, quindi, che la questione di giurisdizione può essere sollevata dalle parti e rilevata d’ufficio fino a quando non si sia formato su di essa un giudicato esplicito od implicito: la mancata impugnazione della sentenza di primo grado relativamente al capo sulla giurisdizione, anche se “implicito”, comporterà quindi l’impossibilità di riesaminare la questione nei successivi gradi del processo, per avvenuta acquiescenza ex art. 329, comma 2, c.p.c.

Solo in due casi le Sezioni Unite ritengono che tale limite non operi, restando quindi il difetto di giurisdizione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado: quando la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, ovvero quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione, ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum,

In via argomentativa le Sezione Unite fondano tale soluzione in primo luogo dando massimo rilievo al principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone una rilettura dell’art. 37 c.p.c. conforme al mutato quadro costituzionale.

Affermano le Sezioni Unite che l’art. 37 c.p.c., comma 1, nell’interpretazione tradizionale, basata sulla sola lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela, in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito.

In secondo luogo le Sezioni Unite fanno leva sulla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 77/2007, che ha affermato il principio della traslatio iudicii nel nostro ordinamento, per sostenere che ad oggi la questione di giurisdizione deve ritenersi assimilata a quella di competenza.

Se, quindi, con la riforma dell’art. 38 c.p.c. è stato fortemente ristretto l’ambito entro il quale può essere sollevato il difetto di competenza, per ragioni di coerenza del sistema, deve propendersi per una lettura restrittiva nei termini suesposti anche dell’art. 37 c.p.c.

L’effetto dirompente di tale impostazione è assolutamente evidente: se la questione di giurisdizione non viene sollevata d’ufficio o dalle parti nel primo grado del procedimento e la sentenza di primo grado, anche laddove non contenga una pronuncia esplicita sulla giurisdizione, non sia impugnata specificamente con riferimento a tale questione, la controversia potrà essere decisa da un giudice originariamente privo di giurisdizione.

Le Sezioni Unite, tuttavia, ritengono che tale soluzione non contrasti con il principio del Giudice naturale di cui all’art. 25 Cost.

Si afferma, infatti, che per la giurisdizione possa valere quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 128/1999 con riferimento alla nuova disciplina di cui all’art. 38 c.p.c. in materia di competenza, per cui al legislatore deve riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell’articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza e, quindi, il legislatore può legittimamente introdurre limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio dell’interesse all’ordine ed alla speditezza del processo.

Rilievi critici.

La sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite Civili affronta un tema di fondamentale importanza per il nostro ordinamento quale il rapporto tra le diverse giurisdizione.

Un tema oggi ancora più rilevante dopo le sentenze della Corte Costituzionale n. 77/2007 e delle Sezioni Unite della Cassazione n. 4109/2008 sulla traslatio iudicii, con le quali è stato dato un primo importantissimo scossone al tradizionale rapporto tra le giurisdizioni esistenti all’interno del nostro ordinamento.

È evidente l’intento perseguito dalle Sezioni Unite con tale pronuncia: evitare che un procedimento, potenzialmente anche dopo due gradi di merito, possa definitivamente cadere in seguito al rilievo del difetto di giurisdizione effettuato dalle parti o d’ufficio dinanzi alla Cassazione.

Nonostante tale del tutto condivisibile intento, la sentenza n. 24883/08 appare sorprendente se si considera come la Cassazione abbia di fatto interamente riscritto l’art. 37 c.p.c., la cui formulazione letterale è chiarissima: il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.

Non può non apparire evidente come tale dato testuale, da cui non si può assolutamente prescindere, appare del tutto contrastante e svuotato di significato da quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza in oggetto.

In assenza di un intervento del legislatore in tal senso, sarebbe quindi stato preferibile, ed è auspicabile che si agisca in tal senso in futuro, che la questione della compatibilità tra l’art. 37 c.p.c. e l’art. 111 Cost., con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, fosse stata rimessa alla Corte Costituzionale, organo costituzionalmente deputato a valutare la legittimità costituzionale delle norme del nostro ordinamento.

Passando all’esame della soluzione predisposta dalle Sezioni Unite, dalla lettura della sentenza risulta poco chiaro in quali casi si possa ritenere non operante il giudicato implicito sulla giurisdizione.

Se è vero, infatti, che quando il giudice decide il merito ha già implicitamente valutato sussistente la propria giurisdizione, atteso che “il giudice deve innanzitutto "autolegittimarsi" (art. 276 c.p.c., comma 2) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva”, non si comprende quando possano sussistere quei casi in cui deve ritenersi che la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, ovvero che dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione, ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum.

Un ulteriore rilievo critico può essere effettuato con riferimento all’apparato argomentativo predisposto dalle Sezioni Unite a sostegno della propria tesi, in cui assume un notevole peso l’accostamento dell’art. 37 c.p.c. in materia di giurisdizione con l’art. 38 c.p.c. in materia di competenza.

La Cassazione ritiene, infatti, che essendo la giurisdizione e la competenza collegati in termini di continenza, e alla luce della nuova formulazione dell’art. 38 c.p.c., che limita la rilevabilità del difetto di competenza per materia, valore e territorio derogabile, anche d’ufficio, alla prima udienza di trattazione, non può non accedersi ad una lettura più restrittiva anche dell’art. 37 c.p.c., per ragioni di coerenza del sistema.

Non c’è chi non veda, tuttavia, come tra questione di competenza e di giurisdizione vi sia una fondamentale differenza, che giustifica la previsione di una diversa disciplina: la prima riguarda la potestas judicandi di giudici dello stesso ordine, la seconda coinvolge invece i rapporti tra giudici di ordini diversi.

Peraltro come osservano le stesse Sezioni Unite in un passaggio molto importante della sentenza in commento in cui si richiama l’ordinanza n. 128/1999 della Corte Costituzionale, “al legislatore deve riconoscersi la più ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell’articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza e, quindi, il legislatore può legittimamente introdurre limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio dell’interesse all’ordine ed alla speditezza del processo”.

Se ciò è vero non può non riconoscersi come il legislatore, nella sua ampia discrezionalità, nonostante la nuova versione dell’art. 38 c.p.c., abbia ritenuto di non modificare la disciplina dell’art. 37 c.p.c.: le Sezioni Unite sembrano quindi cadere in contraddizione con quanto sopra enunciato, quando affermano che “nel mutato quadro normativo, gli effetti dell’art. 38 c.p.c., riformato, si proiettano necessariamente sulla portata dell’art. 37 c.p.c., nel senso che se la verifica della competenza implica la verifica della giurisdizione, quando i tempi per la verifica della competenza sono esauriti coerenza vuole che siano esauriti anche quelli per la verifica della giurisdizione; ovvero, coerenza vuole che almeno questi ultimi non siano dilatati fino al punto da essere incompatibili con la ragionevole durata del processo”.