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Il cittadino, i comitati e l’ente locale

I diritti del cittadino: ecco come orientarsi nel rapporto, spesso problematico, con le istituzioni
Ripercorrendo l’età del Medioevo alla ricerca delle origini dell’identità europea, Jacques Le Goff ricorda che tra il X e il XV secolo ha luogo una forte espansione del mondo urbano, con la comparsa della città medievale.

In questo contesto, l’autore osserva che «le sommosse, le rivolte urbane si moltiplicano, e nel 1378 scoppia a Firenze una grande rivolta operaia: il tumulto dei Ciompi. È l’inizio della grande tradizione europea delle ribellioni urbane e dei movimenti rivoluzionari delle città» (Il Medioevo, Ed. Laterza, pag. 53).

Come si vede, la vita della città, sin dagli albori della sua storia, è connotata da tensioni e conflitti, che il governo locale è chiamato a gestire con tutte le misure utili a far convergere i contrasti, per quanto possibile, nelle dinamiche di una pacifica convivenza civile.

Anche oggi, nel mutato scenario di una società evoluta e tecnologicamente avanzata, non sono rare le occasioni che vedono il comune cittadino entrare in rotta di collisione con l’ente locale.

Ciò può accadere per le circostanze più varie, visto che molteplici possono essere le occasioni per mettere sotto accusa e contestare le attività (o le omissioni) dell’ente locale: ora è l’utente in mora con i pagamenti della bolletta, che lamenta l’iniqua o erronea fatturazione dei consumi domestici; ora è il cliente della farmacia comunale che denuncia carenze e disfunzioni nel servizio al pubblico; ora è il comitato spontaneo di cittadini, che protesta contro la localizzazione di una discarica nella zona, decisa durante una convulsa ed animata seduta del consiglio comunale; ora è il pedone che cita il municipio per danni, dopo essersi infortunato a causa di lavori in corso sul marciapiede mal segnalati.

Proprio a questo a riguardo – e solo per stare ad un caso assai ricorrente – merita almeno una menzione la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 36475/2008, intervenuta sul caso di un cittadino il quale, a causa delle cattive condizioni di un tratto di strada pubblica, non segnalate, è caduto malamente riportando serie lesioni personali.

In questo frangente il giudice del massimo grado ha ricordato che la mancata vigilanza sullo stato delle vie comunali è fonte di responsabilità, sia per gli organi pubblici sia per i tecnici, che debbono dunque rispondere del danno cagionato.

Non c’è bisogno di dire che, in questi casi, l’operato della pubblica amministrazione non è visto come il corretto esercizio della cosa pubblica per il bene comune, ma è percepito, tutt’al contrario, come una vera e propria forma di malgoverno, odiosa e lesiva degli interessi della collettività amministrata.

Al che, ci si domanda: di quali strumenti dispone il cittadino per far valere le proprie ragioni e ottenere un’equa tutela dei propri diritti?

Come intraprendere, in tali circostanze, un’azione efficace ed incisiva nei confronti dell’ente pubblico, che così spesso si trasforma in un “muro di gomma” contro le ricorrenti istanze di chi lo interpella?

Non manca, di solito,il cittadino propenso a rivolgersi alla magistratura per chiamare in giudizio l’ente locale e difendere in quella sede le proprie ragioni contro un pubblico sopruso, accertato o presunto.

Si tratta però in molti casi di un percorso lungo e accidentato che non sempre conduce alla meta: come si sa, i costi e i tempi di un contenzioso giudiziale nel nostro paese superano, di regola, anche le più caute previsioni, e non incoraggiano certo ad intraprendere un’avventura con un probabile esito infruttuoso, se non addirittura controproducente.

Per di più, è noto che spesso, in linea generale, l’ente pubblico non ha remore nel costituirsi in giudizio allorché sussistano gli occorrenti presupposti, dimostrando, nella gestione dei contenziosi, una non trascurabile capacità reattiva.

Per tutte queste ragioni, l’opzione che appare di norma preferibile al cittadino è la partecipazione attiva al procedimento amministrativo, con il suo ingresso come player nel campo di gioco dell’ente locale, per dialogare con la pubblica amministrazione parlando, in un certo qual modo, il suo stesso linguaggio.

È chiaro che su questo versante è “l’unione fa la forza”, anche se però il requisito numerico da solo non basta.

D’altro canto, un’ampia base di protesta nella cerchia cittadina è una condizione necessaria, ma non sufficiente per impostare una strategia vincente nella relazione tra cittadino ed ente locale.

Non basta, in altre parole, una petizione di firme o la formazione di un comitato spontaneo per rendere efficace il dissenso popolare nei confronti della pubblica amministrazione, o per dare incisività ad una istanza rivolta all’ente pubblico.

Una più organica linea d’azione deve necessariamente partire dalla considerazione dell’art. 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento».

Alla luce di questa disposizione, emerge con tutta evidenza che in una società democratica, governata da rappresentanti eletti dalla maggioranza, i cittadini sono soggetti attivi della vita amministrativa, con facoltà di partecipare alla formazione dei processi decisionali del governo locale, al punto da influenzarne il perfino il corso, attraverso un fattivo rapporto dialogico con gli amministratori.

Da questo angolo visuale, la legge n. 241/1990 mette a disposizione del cittadino una serie di importanti strumenti per far sentire la propria voce in difesa dei propri diritti, e pone al contempo forti vincoli all’esercizio dell’attività discrezionale da parte della pubblica amministrazione, in nome del pubblico interesse, del principio della trasparenza amministrativa e dell’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti.

La 241 è una legge di principio che, dopo aver subito numerosi interventi di modifica e di aggiornamento nel corso degli anni, permane tuttora un pilastro della riforma della pubblica amministrazione, per aver introdotto nel sistema delle fonti giuridiche disposizioni di rango primario, che concorrono a formare i principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’art. 9 sopra riportato testualmente è di singolare interesse per il concreto rapporto del cittadino con l’Ente locale, ed offre altresì lo spunto per tracciare alcuni principi d’azione che rivestono un’utilità pratica di immediata rilevanza.

Bisogna dire, innanzitutto, che la norma si limita a sancire un principio di carattere generale, la cui applicazione è rimessa all’operato discrezionale dell’ente pubblico, che ha il compito di verificare, nel caso concreto, se il soggetto a base plurima che interviene in un determinato procedimento – associazione o comitato che sia – è effettivamente portatore di interessi diffusi, ovvero è da ritenersi a tutti gli effetti legittimato a rappresentare una collettività organizzata di cittadini.

Questo è un punto delicato, perché la pubblica amministrazione ha l’onere di bilanciare le esigenze di speditezza dell’azione amministrativa con l’interesse pubblico dei cittadini alla partecipazione al procedimento, evitando in ogni caso di appesantire inutilmente l’istruttoria amministrativa, e avendo cura di non interrompersi ad ogni piè sospinto per dare ascolto alle inevitabili lamentele di chi è sistematicamente contrario all’azione dell’ente locale.

Ma detto questo, quand’è che un comitato di cittadini è davvero paladino delle istanze collettive che afferma di rappresentare?

È bene precisare che l’indice di rappresentatività di un comitato non dipende dal riconoscimento della personalità giuridica, carattere questo che costituisce invece un tratto distintivo delle società di capitali o comunque di enti organizzati in forma stabile e strutturata, che diventano così autonomi centri d’interesse, ossia titolari di rapporti giuridici attivi passivi davanti alla legge.

Diversamente, l’art. 9 della legge n. 241/1990 intende tutelare le più ampie garanzie di partecipazione al procedimento, riconoscendo rappresentatività anche agli enti di fatto, purché non abbiano un carattere occasionale ed estemporaneo, oppure del tutto inconsistente (come nel caso in cui il sottoscrittore di un’istanza al Comune firmi a nome di un fantomatico comitato, quando invece rappresenta in realtà solamente sé stesso).

Per dare stabilità a un comitato e per renderlo un interlocutore affidabile della pubblica amministrazione è preferibile che esso sia costituito per atto pubblico, e che sia regolato da uno statuto le cui norme prevedano:

- un’assemblea dei partecipanti, destinata ad assumere le decisioni di carattere generale;

- di un organo di gestione, formato da uno o più membri dell’ente che si occupino della gestione e della esecuzione delle delibere assembleari, oltre che – sulla base di specifici poteri di rappresentanza – dei rapporti con l’esterno.

Una forma organica così strutturata offrirà anche il vantaggio di un’autonomia patrimoniale – sia pure limitata – rispetto alle sfere patrimoniali dei singoli associati, che si sostanzia nel concetto di “fondo comune”, con la possibilità di dare corso ad attività finanziate primariamente con i contributi degli associati, ma anche con donazioni od erogazioni di terzi.

È poi innegabile l’utilità pratica che ogni cittadino riunito in comitato acquisisca, con un po’ di pazienza e determinazione, i rudimenti del diritto in materia di partecipazione al procedimento amministrativo, quanto meno sulla base di un’attenta lettura della legge n. 241/1990.

Si tratta di avvertenze ed accorgimenti basilari che, nel loro complesso, non sono impraticabili, e che risultano quanto mai proficui per puntare con maggiore probabilità di successo agli obiettivi strategici perseguiti.

Ciò che è richiesto in quest’ambito al cittadino, in definitiva, altro non è che comportarsi alla maniera di uno studente di geometria che, imparando ad applicare al caso concreto, per esempio, il teorema di Euclide, amplia tutto ad un tratto le proprie cognizioni, e si accinge a risolvere con agio problemi che, soltanto un momento prima, gli apparivano un enigma indecifrabile.

Ripercorrendo l’età del Medioevo alla ricerca delle origini dell’identità europea, Jacques Le Goff ricorda che tra il X e il XV secolo ha luogo una forte espansione del mondo urbano, con la comparsa della città medievale.

In questo contesto, l’autore osserva che «le sommosse, le rivolte urbane si moltiplicano, e nel 1378 scoppia a Firenze una grande rivolta operaia: il tumulto dei Ciompi. È l’inizio della grande tradizione europea delle ribellioni urbane e dei movimenti rivoluzionari delle città» (Il Medioevo, Ed. Laterza, pag. 53).

Come si vede, la vita della città, sin dagli albori della sua storia, è connotata da tensioni e conflitti, che il governo locale è chiamato a gestire con tutte le misure utili a far convergere i contrasti, per quanto possibile, nelle dinamiche di una pacifica convivenza civile.

Anche oggi, nel mutato scenario di una società evoluta e tecnologicamente avanzata, non sono rare le occasioni che vedono il comune cittadino entrare in rotta di collisione con l’ente locale.

Ciò può accadere per le circostanze più varie, visto che molteplici possono essere le occasioni per mettere sotto accusa e contestare le attività (o le omissioni) dell’ente locale: ora è l’utente in mora con i pagamenti della bolletta, che lamenta l’iniqua o erronea fatturazione dei consumi domestici; ora è il cliente della farmacia comunale che denuncia carenze e disfunzioni nel servizio al pubblico; ora è il comitato spontaneo di cittadini, che protesta contro la localizzazione di una discarica nella zona, decisa durante una convulsa ed animata seduta del consiglio comunale; ora è il pedone che cita il municipio per danni, dopo essersi infortunato a causa di lavori in corso sul marciapiede mal segnalati.

Proprio a questo a riguardo – e solo per stare ad un caso assai ricorrente – merita almeno una menzione la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 36475/2008, intervenuta sul caso di un cittadino il quale, a causa delle cattive condizioni di un tratto di strada pubblica, non segnalate, è caduto malamente riportando serie lesioni personali.

In questo frangente il giudice del massimo grado ha ricordato che la mancata vigilanza sullo stato delle vie comunali è fonte di responsabilità, sia per gli organi pubblici sia per i tecnici, che debbono dunque rispondere del danno cagionato.

Non c’è bisogno di dire che, in questi casi, l’operato della pubblica amministrazione non è visto come il corretto esercizio della cosa pubblica per il bene comune, ma è percepito, tutt’al contrario, come una vera e propria forma di malgoverno, odiosa e lesiva degli interessi della collettività amministrata.

Al che, ci si domanda: di quali strumenti dispone il cittadino per far valere le proprie ragioni e ottenere un’equa tutela dei propri diritti?

Come intraprendere, in tali circostanze, un’azione efficace ed incisiva nei confronti dell’ente pubblico, che così spesso si trasforma in un “muro di gomma” contro le ricorrenti istanze di chi lo interpella?

Non manca, di solito,il cittadino propenso a rivolgersi alla magistratura per chiamare in giudizio l’ente locale e difendere in quella sede le proprie ragioni contro un pubblico sopruso, accertato o presunto.

Si tratta però in molti casi di un percorso lungo e accidentato che non sempre conduce alla meta: come si sa, i costi e i tempi di un contenzioso giudiziale nel nostro paese superano, di regola, anche le più caute previsioni, e non incoraggiano certo ad intraprendere un’avventura con un probabile esito infruttuoso, se non addirittura controproducente.

Per di più, è noto che spesso, in linea generale, l’ente pubblico non ha remore nel costituirsi in giudizio allorché sussistano gli occorrenti presupposti, dimostrando, nella gestione dei contenziosi, una non trascurabile capacità reattiva.

Per tutte queste ragioni, l’opzione che appare di norma preferibile al cittadino è la partecipazione attiva al procedimento amministrativo, con il suo ingresso come player nel campo di gioco dell’ente locale, per dialogare con la pubblica amministrazione parlando, in un certo qual modo, il suo stesso linguaggio.

È chiaro che su questo versante è “l’unione fa la forza”, anche se però il requisito numerico da solo non basta.

D’altro canto, un’ampia base di protesta nella cerchia cittadina è una condizione necessaria, ma non sufficiente per impostare una strategia vincente nella relazione tra cittadino ed ente locale.

Non basta, in altre parole, una petizione di firme o la formazione di un comitato spontaneo per rendere efficace il dissenso popolare nei confronti della pubblica amministrazione, o per dare incisività ad una istanza rivolta all’ente pubblico.

Una più organica linea d’azione deve necessariamente partire dalla considerazione dell’art. 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento».

Alla luce di questa disposizione, emerge con tutta evidenza che in una società democratica, governata da rappresentanti eletti dalla maggioranza, i cittadini sono soggetti attivi della vita amministrativa, con facoltà di partecipare alla formazione dei processi decisionali del governo locale, al punto da influenzarne il perfino il corso, attraverso un fattivo rapporto dialogico con gli amministratori.

Da questo angolo visuale, la legge n. 241/1990 mette a disposizione del cittadino una serie di importanti strumenti per far sentire la propria voce in difesa dei propri diritti, e pone al contempo forti vincoli all’esercizio dell’attività discrezionale da parte della pubblica amministrazione, in nome del pubblico interesse, del principio della trasparenza amministrativa e dell’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti.

La 241 è una legge di principio che, dopo aver subito numerosi interventi di modifica e di aggiornamento nel corso degli anni, permane tuttora un pilastro della riforma della pubblica amministrazione, per aver introdotto nel sistema delle fonti giuridiche disposizioni di rango primario, che concorrono a formare i principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’art. 9 sopra riportato testualmente è di singolare interesse per il concreto rapporto del cittadino con l’Ente locale, ed offre altresì lo spunto per tracciare alcuni principi d’azione che rivestono un’utilità pratica di immediata rilevanza.

Bisogna dire, innanzitutto, che la norma si limita a sancire un principio di carattere generale, la cui applicazione è rimessa all’operato discrezionale dell’ente pubblico, che ha il compito di verificare, nel caso concreto, se il soggetto a base plurima che interviene in un determinato procedimento – associazione o comitato che sia – è effettivamente portatore di interessi diffusi, ovvero è da ritenersi a tutti gli effetti legittimato a rappresentare una collettività organizzata di cittadini.

Questo è un punto delicato, perché la pubblica amministrazione ha l’onere di bilanciare le esigenze di speditezza dell’azione amministrativa con l’interesse pubblico dei cittadini alla partecipazione al procedimento, evitando in ogni caso di appesantire inutilmente l’istruttoria amministrativa, e avendo cura di non interrompersi ad ogni piè sospinto per dare ascolto alle inevitabili lamentele di chi è sistematicamente contrario all’azione dell’ente locale.

Ma detto questo, quand’è che un comitato di cittadini è davvero paladino delle istanze collettive che afferma di rappresentare?

È bene precisare che l’indice di rappresentatività di un comitato non dipende dal riconoscimento della personalità giuridica, carattere questo che costituisce invece un tratto distintivo delle società di capitali o comunque di enti organizzati in forma stabile e strutturata, che diventano così autonomi centri d’interesse, ossia titolari di rapporti giuridici attivi passivi davanti alla legge.

Diversamente, l’art. 9 della legge n. 241/1990 intende tutelare le più ampie garanzie di partecipazione al procedimento, riconoscendo rappresentatività anche agli enti di fatto, purché non abbiano un carattere occasionale ed estemporaneo, oppure del tutto inconsistente (come nel caso in cui il sottoscrittore di un’istanza al Comune firmi a nome di un fantomatico comitato, quando invece rappresenta in realtà solamente sé stesso).

Per dare stabilità a un comitato e per renderlo un interlocutore affidabile della pubblica amministrazione è preferibile che esso sia costituito per atto pubblico, e che sia regolato da uno statuto le cui norme prevedano:

- un’assemblea dei partecipanti, destinata ad assumere le decisioni di carattere generale;

- di un organo di gestione, formato da uno o più membri dell’ente che si occupino della gestione e della esecuzione delle delibere assembleari, oltre che – sulla base di specifici poteri di rappresentanza – dei rapporti con l’esterno.

Una forma organica così strutturata offrirà anche il vantaggio di un’autonomia patrimoniale – sia pure limitata – rispetto alle sfere patrimoniali dei singoli associati, che si sostanzia nel concetto di “fondo comune”, con la possibilità di dare corso ad attività finanziate primariamente con i contributi degli associati, ma anche con donazioni od erogazioni di terzi.

È poi innegabile l’utilità pratica che ogni cittadino riunito in comitato acquisisca, con un po’ di pazienza e determinazione, i rudimenti del diritto in materia di partecipazione al procedimento amministrativo, quanto meno sulla base di un’attenta lettura della legge n. 241/1990.

Si tratta di avvertenze ed accorgimenti basilari che, nel loro complesso, non sono impraticabili, e che risultano quanto mai proficui per puntare con maggiore probabilità di successo agli obiettivi strategici perseguiti.

Ciò che è richiesto in quest’ambito al cittadino, in definitiva, altro non è che comportarsi alla maniera di uno studente di geometria che, imparando ad applicare al caso concreto, per esempio, il teorema di Euclide, amplia tutto ad un tratto le proprie cognizioni, e si accinge a risolvere con agio problemi che, soltanto un momento prima, gli apparivano un enigma indecifrabile.