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Pagare la depurazione che non c’è. La Corte Costituzionale cancella l’anomalia per violazione dell’articolo 3 Costituzione

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 10 ottobre 2008, n.335
Abstract

Pagare la depurazione che non c’è. La Corte Costituzionale cancella l’anomalia per violazione dell’Art. 3 della Costituzione.

Prime osservazioni sulla Sentenza della Corte Costituzionale n. 335/08 e sulle problematiche inerenti la natura del canone-tariffa di depurazione e sua giurisdizione.

La recente Sentenza della Corte Costituzionale n. 335 del 10 ottobre 2008 (G. Uff. 15.10.08) riporta all’attenzione degli operatori del diritto e di numerosi contribuenti la discussa fattispecie degli oneri per il servizio di depurazione acque reflue imposti anche in assenza o non funzionalità del relativo servizio da comuni, solerti concessionari del servizio idrico o dagli A.T.O.

L’Alta Corte decidendo sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di Pace di Gragnano (NA) con 3 Ordinanze del 3, 31 maggio e 16 settembre 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

Per la Consulta risulta altresì illegittimo l’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

La decisione affronta e risolve, ritenendolo in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, il problema causato dalle predette disposizioni in alcune aree del Paese ove, nonostante l’ultradecennale apporto economico dei cittadini, gli enti preposti hanno omesso la costruzione e messa in opera degli impianti di depurazione delle acque reflue.

Una situazione in molti casi ai limiti del grottesco altamente vessatoria per i contribuenti e dagli inevitabili risvolti negativi anche dal punto di vista ambientale.

L’evolversi della normativa riguardante gli oneri dovuti dai contribuenti per il servizio di depurazione ha visto l’ istituzione di tre diverse tipologie impositive.

Il canone diritto per il servizio raccolta, allontanamento, depurazione e scarico delle acque di rifiuto (legge Merli 1976).

La Legge n. 319/76 (Legge Merli), agli articoli 16 e 17, 17-bis e 17-ter, istituiva e disciplinava il diritto per il servizio raccolta, allontanamento, depurazione e scarico delle acque di rifiuto.

Il canone, avente natura di tributo comunale, era composto dalla somma di due voci, la prima determinata sulla quantità di acqua sversata, la seconda in relazione alla quantità e, per le attività produttive, della qualità degli scarichi.

Per l’accertamento e la riscossione si applicava il Testo Unico della Finanza Locale ed in materia di contenzioso le norme di cui al D.P.R. 638/72 con conseguente competenza delle Commissioni Tributarie dal 1 aprile 1996.

Circa la natura del canone o diritto previsto dalla legge Merli il Consiglio di Stato ne affermava la natura tributaria su richiesta del Ministero delle finanze inoltrata con relazione n. 4/1401 del 10 aprile 1979.

La tariffa del servizio di fognatura e depurazione (legge Galli).

La scarsa efficienza in termini economici ed ambientali del sistema disegnato dalla Legge Merli ne comportava l’abrogazione avvenuta in base all’art. 63 comma 1 della Legge n. 133/99.

Tuttavia all’art. 62 comma 5, la disposizione prevedeva che l’abrogazione del canone avrebbe avuto effetto solo dalla applicazione effettiva della nuova tariffa del servizio indico integrato di cui alla Legge n. 36/94 (Legge Galli).

La quota riferita al servizio di pubblica fognatura e depurazione era dovuta dagli utenti anche in mancanza o temporanea assenza del relativo servizio, dovendo i proventi da essa derivanti confluire in un fondo, a disposizione dei soggetti gestori del servizio idrico integrato, la cui utilizzazione era vincolata alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione. Con la modifica introdotta dall’art. 28 della legge n. 179 del 2002, oggetto anch’essa delle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, la destinazione dei proventi risultava finalizzata alla l’attuazione del piano d’ambito.

Proprio quest’ultima disposizione ben 14 anni dopo la sua entrata in vigore è stata ritenuta costituzionalmente illegittima dal Giudice delle Leggi nella parte in cui obbligava gli utenti al pagamento dei corrispettivi in assenza o non funzionalità degli impianti.

Come chiarito in Sentenza la tariffa del servizio idrico integrato si configura, in tutte le sue componenti, come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, il quale, ancorché determinato nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza.

La quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto (art. 13 della legge n. 36 del 1994).

Il sinallagma integrante la ratio stessa della Legge Galli tra pagamento della tariffa e fruizione dei servizi risulta per la Corte in aperta contraddizione con l’art. 14 della norma che, oltretutto impedisce irragionevolmente all’utente di tutelarsi da eventuali inadempimenti della controparte mediante gli ordinari strumenti civilistici previsti per i contratti a prestazioni corrispettive (quali, ad esempio, l’azione di adempimento, l’exceptio inadimpleti contractus, l’azione di risoluzione per inadempimento).

La tariffa del servizio di fognatura e depurazione (Codice ambientale).

Da siffatta premessa la Consulta non poteva omettere la declaratoria di incostituzionalità anche del Decreto Legislativo n. 152/06 (Codice Ambientale) che, a sua volta, introduceva agli artt. n. 155-156 la tariffa del servizio di fognatura e depurazione, abrogando con effetto dal 29 aprile 2006 (art. n. 175 comma1 lett. B e U) sia la Legge n. 319/76 che la Legge n. 36/94, nella parte in cui ne imponeva il pagamento «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

Ancor più della pregressa normativa il Codice Ambientale disegna la citata tariffa quale entrata di scopo.

Il gestore del servizio deve infatti versare i proventi su un fondo vincolato intestato all’A.T.O. che deve a sua volta metterlo a disposizione dello stesso gestore per l’effettuazione di interventi ed opere inerenti le reti di fognatura e gli impianti di depurazione previsti dal piano d’ambito.

Sul punto va sottolineata l’argomentazione difensiva esposta innanzi alla Consulta dalla società concessionaria secondo cui la corrispettività fra la quota di tariffa ed il servizio di depurazione sussisterebbe comunque perché le somme pagate dagli utenti in mancanza del servizio sarebbero destinate, attraverso un apposito fondo vincolato, all’attuazione del piano d’ambito, comprendente anche la realizzazione dei depuratori.

Nel respingere la tesi la Corte fonda il proprio convincimento sui seguenti presupposti:

a) l’ammontare della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è determinato indipendentemente dal fatto se il depuratore esista o no, essendo esso in ogni caso commisurato al costo del servizio di depurazione, in applicazione del cosiddetto «metodo normalizzato», e non al costo di realizzazione del depuratore (come risulta dall’allegato del citato d.m. 1° agosto 1996, punto 3.1, lettera c, e dall’allegato 1, punto 2.3, della citata delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 131/02);

b) il provento costituito dalla quota confluente nel fondo vincolato può essere destinato alla realizzazione di depuratori non utilizzabili dal singolo utente obbligato al pagamento, come nel caso in cui i depuratori siano realizzati in Comuni diversi da quello in cui si trova l’utente, oppure nel caso in cui l’utente, dopo il pagamento della tariffa, si sia trasferito in altro Comune;

c) nel caso in cui il Comune non gestisca direttamente il servizio idrico, la scelta del tempo e del luogo di realizzazione dei depuratori è affidata, dall’art. 11, comma 3, della legge n. 36 del 1994, a soggetti terzi rispetto al contratto di utenza, e cioè ai Comuni e alle Province, nell’esercizio della loro competenza a predisporre il piano d’ambito;

d) l’attuazione di tale piano si inserisce nel rapporto fra gestore e autorità d’ambito e non in quello fra esso e l’utente, perché produce un’utilità riferita all’ambito territoriale ottimale nel suo complesso e non anche quella «utilità particolare che ogni utente […] ottiene dal servizio», la quale sola – come chiarito dai lavori preparatori richiamati al punto 6.1. – consente di qualificare come corrispettivo la tariffa del servizio idrico integrato;

e) il contratto di utenza e il pagamento della quota tariffaria non costituiscono presupposto necessario per l’attuazione dello stesso piano, essendo quest’ultima prevista e disciplinata, anche nei tempi e nelle modalità, non già dal contratto di utenza, ma da moduli procedimentali di diritto amministrativo.

Da tale premessa la Corte non può che ribadire l’impossibilità di qualificare l’attuazione del piano d’ambito come controprestazione contrattuale del pagamento della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione discende la già evidenziata conseguenza che l’utente può agire contro l’inerzia dell’amministrazione nella realizzazione dei depuratori, non già in forza del rapporto contrattuale di utenza utilizzando gli ordinari strumenti civilistici di tutela, ma solo esercitando il generale potere di denuncia attribuitogli dall’ordinamento uti civis.

La natura del canone o tariffa di depurazione e la competenza giurisdizionale sulle controversie alla luce dell’Ordinanza delle Sezioni Unite Civili del 1-25 luglio 2008.

E’ di tutta evidenza l’impatto che la decisione della Consulta avrà sui bilanci di molti Comuni e sui tanti contribuenti persone fisiche o giuridiche (condomini, società di capitali, enti pubblici), chiamati a versare in questi anni milioni di euro per un servizio che la scarsa diligenza di taluni enti preposti ha omesso di predisporre e di erogare per anni.

Benvero la natura del canone o tariffa della depurazione e la conseguente competenza giurisdizionale è stata oggetto in passato di molteplici approfondimenti da parte delle Sezioni unite della Suprema corte.

Con la Sentenza n. 16426/04 [Conforme Cass. Sez. Uni. n. 3054/04; Cass. Sez. Uni. n. 10960/04; Cass. Sez. Uni. n. 6418/05] la Cassazione chiariva che il canone per il servizio di scarico e depurazione delle acque reflue ha natura di componente del corrispettivo del servizio idrico integrato a partire dal 3 ottobre 2000, data in cui avrebbe perso la sua natura di tributo.

A questa conclusione la Corte perveniva dall’esame di un complesso iter normativo decorrente dall’innovazione introdotta dal’art. 31 comma 28° della Legge n. 448/98 e del differimento della sua iniziale decorrenza (1° Gennaio 1999) disposto dall’art. 62 del D.lgs n. 152/99, modificato dall’art. 24 del D.lgs n. 258/00 (in vigore appunto dal 3 ottobre 2000).

Per il periodo anteriore il canone di depurazione integrava un tributo comunale prima sulla base dell’art. 17-ter della Legge n. 319/76 e successivamente dopo l’abrogazione della norma ad opera dell’art. 32 della Legge n. 36/94 dell’ultimo comma dello stesso art 17, inserito dall’art. 2 comma 3-bis, del Decreto legge n. 79/95 (convertito con modificazioni, dalla Legge n. 172/95.

Tuttavia, in virtù dell’art. 2 comma 2 del D.lgs n. 546/92, come modificato dall’art 3-bis del Decreto Legge n. 203/05, convertito con modificazioni dalla Legge n. 248/05, a decorrere dal 3 dicembre 2005 appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue indipendentemente dalla loro qualificazione come tributo o corrispettivo, come del resto ricordato dalla stessa Consulta nella Sentenza in commento.

Su queste basi la competenza giurisdizionale in materia potrebbe essere così delineata:

• fino al 31 marzo 1996 dell’Intendenza di Finanza in primo grado e dal Ministero delle finanze in secondo grado (ricorso gerarchico improprio);

• dal 1 aprile 1996 al 2 ottobre 2000 delle Commissioni tributarie;

• dal 3 ottobre 2000 al 2 dicembre 2005 del Giudice ordinario;

• dal 3 dicembre 2005 ad oggi delle Commissioni Tributarie.

Purtroppo, a rendere problematica e fors’anche transitoria questa ricostruzione, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la recente e poco nota Ordinanza del 1-25 Luglio 2008, muovendo dal giusto presupposto che i canoni per lo scarico e la depurazione delle acque reflue, maturati successivamente al 3 ottobre 2000 hanno ex lege natura di quota tariffaria e non di tributo (v. Cass. S.U. n. 11188 del 2003; 12877 del 2004; 4881 del 2005; 9605 del 2006) hanno ritenuto opportuno sollevare la questione di illegittimità costituzionale del Decreto legge n. 203 del 2005, art. 3 bis, convertito con modificazioni con Legge n. 248 del 2005, nella parte in cui devolve proprio alla giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue per contrasto con l’art. 102 comma 2 della Costituzione.

Argomenta in proposito la Suprema Corte che, proprio esaminando il Decreto legge n. 203 del 2005, nella parte in cui ha devoluto alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dal Decreto legislativo n. 446 del 1997, art. 63, proprio la Corte Costituzionale ha ritenuto la disposizione in contrasto con l’art. 102 della Costituzione (sent. n. 64 del 2008), affermando che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria (come non lo sono quelle che concernono la c.d. COSAP) comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali.

In attesa di una prossima ma certo non imminente decisione della Consulta, la delicata questione della giurisdizione sulle vertenze in materia canone o tariffa di depurazione resta inevitabilmente aperta, creando non poche incertezze a tutti coloro che, pur avendo inoltrato un’ istanza formale, comunque interruttiva dei termini prescrizionali di cui all’art. 2946 Cod. civ., di fronte al rifiuto di restituire le somme versate in assenza del servizio, intendano agire giudizialmente per il recupero di quanto indebitamente pagato.

Quanto alla disciplina prescrizionale di eventuali azioni la stessa andrebbe inquadrata nell’ambito dell’art. 2946 Cod. Civ. che prevede l’ordinario termine decennale previsto in campo contrattuale.

A sostegno di questa tesi si pongono le richiamate decisioni delle Sezioni Unite circa la natura di “corrispettivo” della tariffa di depurazione, almeno dal 3 ottobre del 2000, confermata dalla stessa Consulta nella Sentenza in commento che ne sottolinea in proposito anche l’assoggettamento ad Iva.

Nell’incertezza che sta caratterizzando una vicenda difficilmente riconducibile all’unitarietà di azioni, a causa degli innumerevoli soggetti pubblici e privati inadempienti coinvolti su tutto il territorio nazionale (Comuni, ATO, Concessionari), sarà ancora una volta la giurisprudenza a fornire valide indicazioni e forse utili orientamenti per evitare l’avvio di un contenzioso di massa derivante ancora una volta dalla negligente gestione dei soldi dei contribuenti.

Abstract

Pagare la depurazione che non c’è. La Corte Costituzionale cancella l’anomalia per violazione dell’Art. 3 della Costituzione.

Prime osservazioni sulla Sentenza della Corte Costituzionale n. 335/08 e sulle problematiche inerenti la natura del canone-tariffa di depurazione e sua giurisdizione.

La recente Sentenza della Corte Costituzionale n. 335 del 10 ottobre 2008 (G. Uff. 15.10.08) riporta all’attenzione degli operatori del diritto e di numerosi contribuenti la discussa fattispecie degli oneri per il servizio di depurazione acque reflue imposti anche in assenza o non funzionalità del relativo servizio da comuni, solerti concessionari del servizio idrico o dagli A.T.O.

L’Alta Corte decidendo sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di Pace di Gragnano (NA) con 3 Ordinanze del 3, 31 maggio e 16 settembre 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

Per la Consulta risulta altresì illegittimo l’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

La decisione affronta e risolve, ritenendolo in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, il problema causato dalle predette disposizioni in alcune aree del Paese ove, nonostante l’ultradecennale apporto economico dei cittadini, gli enti preposti hanno omesso la costruzione e messa in opera degli impianti di depurazione delle acque reflue.

Una situazione in molti casi ai limiti del grottesco altamente vessatoria per i contribuenti e dagli inevitabili risvolti negativi anche dal punto di vista ambientale.

L’evolversi della normativa riguardante gli oneri dovuti dai contribuenti per il servizio di depurazione ha visto l’ istituzione di tre diverse tipologie impositive.

Il canone diritto per il servizio raccolta, allontanamento, depurazione e scarico delle acque di rifiuto (legge Merli 1976).

La Legge n. 319/76 (Legge Merli), agli articoli 16 e 17, 17-bis e 17-ter, istituiva e disciplinava il diritto per il servizio raccolta, allontanamento, depurazione e scarico delle acque di rifiuto.

Il canone, avente natura di tributo comunale, era composto dalla somma di due voci, la prima determinata sulla quantità di acqua sversata, la seconda in relazione alla quantità e, per le attività produttive, della qualità degli scarichi.

Per l’accertamento e la riscossione si applicava il Testo Unico della Finanza Locale ed in materia di contenzioso le norme di cui al D.P.R. 638/72 con conseguente competenza delle Commissioni Tributarie dal 1 aprile 1996.

Circa la natura del canone o diritto previsto dalla legge Merli il Consiglio di Stato ne affermava la natura tributaria su richiesta del Ministero delle finanze inoltrata con relazione n. 4/1401 del 10 aprile 1979.

La tariffa del servizio di fognatura e depurazione (legge Galli).

La scarsa efficienza in termini economici ed ambientali del sistema disegnato dalla Legge Merli ne comportava l’abrogazione avvenuta in base all’art. 63 comma 1 della Legge n. 133/99.

Tuttavia all’art. 62 comma 5, la disposizione prevedeva che l’abrogazione del canone avrebbe avuto effetto solo dalla applicazione effettiva della nuova tariffa del servizio indico integrato di cui alla Legge n. 36/94 (Legge Galli).

La quota riferita al servizio di pubblica fognatura e depurazione era dovuta dagli utenti anche in mancanza o temporanea assenza del relativo servizio, dovendo i proventi da essa derivanti confluire in un fondo, a disposizione dei soggetti gestori del servizio idrico integrato, la cui utilizzazione era vincolata alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione. Con la modifica introdotta dall’art. 28 della legge n. 179 del 2002, oggetto anch’essa delle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, la destinazione dei proventi risultava finalizzata alla l’attuazione del piano d’ambito.

Proprio quest’ultima disposizione ben 14 anni dopo la sua entrata in vigore è stata ritenuta costituzionalmente illegittima dal Giudice delle Leggi nella parte in cui obbligava gli utenti al pagamento dei corrispettivi in assenza o non funzionalità degli impianti.

Come chiarito in Sentenza la tariffa del servizio idrico integrato si configura, in tutte le sue componenti, come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, il quale, ancorché determinato nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza.

La quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto (art. 13 della legge n. 36 del 1994).

Il sinallagma integrante la ratio stessa della Legge Galli tra pagamento della tariffa e fruizione dei servizi risulta per la Corte in aperta contraddizione con l’art. 14 della norma che, oltretutto impedisce irragionevolmente all’utente di tutelarsi da eventuali inadempimenti della controparte mediante gli ordinari strumenti civilistici previsti per i contratti a prestazioni corrispettive (quali, ad esempio, l’azione di adempimento, l’exceptio inadimpleti contractus, l’azione di risoluzione per inadempimento).

La tariffa del servizio di fognatura e depurazione (Codice ambientale).

Da siffatta premessa la Consulta non poteva omettere la declaratoria di incostituzionalità anche del Decreto Legislativo n. 152/06 (Codice Ambientale) che, a sua volta, introduceva agli artt. n. 155-156 la tariffa del servizio di fognatura e depurazione, abrogando con effetto dal 29 aprile 2006 (art. n. 175 comma1 lett. B e U) sia la Legge n. 319/76 che la Legge n. 36/94, nella parte in cui ne imponeva il pagamento «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».

Ancor più della pregressa normativa il Codice Ambientale disegna la citata tariffa quale entrata di scopo.

Il gestore del servizio deve infatti versare i proventi su un fondo vincolato intestato all’A.T.O. che deve a sua volta metterlo a disposizione dello stesso gestore per l’effettuazione di interventi ed opere inerenti le reti di fognatura e gli impianti di depurazione previsti dal piano d’ambito.

Sul punto va sottolineata l’argomentazione difensiva esposta innanzi alla Consulta dalla società concessionaria secondo cui la corrispettività fra la quota di tariffa ed il servizio di depurazione sussisterebbe comunque perché le somme pagate dagli utenti in mancanza del servizio sarebbero destinate, attraverso un apposito fondo vincolato, all’attuazione del piano d’ambito, comprendente anche la realizzazione dei depuratori.

Nel respingere la tesi la Corte fonda il proprio convincimento sui seguenti presupposti:

a) l’ammontare della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è determinato indipendentemente dal fatto se il depuratore esista o no, essendo esso in ogni caso commisurato al costo del servizio di depurazione, in applicazione del cosiddetto «metodo normalizzato», e non al costo di realizzazione del depuratore (come risulta dall’allegato del citato d.m. 1° agosto 1996, punto 3.1, lettera c, e dall’allegato 1, punto 2.3, della citata delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 131/02);

b) il provento costituito dalla quota confluente nel fondo vincolato può essere destinato alla realizzazione di depuratori non utilizzabili dal singolo utente obbligato al pagamento, come nel caso in cui i depuratori siano realizzati in Comuni diversi da quello in cui si trova l’utente, oppure nel caso in cui l’utente, dopo il pagamento della tariffa, si sia trasferito in altro Comune;

c) nel caso in cui il Comune non gestisca direttamente il servizio idrico, la scelta del tempo e del luogo di realizzazione dei depuratori è affidata, dall’art. 11, comma 3, della legge n. 36 del 1994, a soggetti terzi rispetto al contratto di utenza, e cioè ai Comuni e alle Province, nell’esercizio della loro competenza a predisporre il piano d’ambito;

d) l’attuazione di tale piano si inserisce nel rapporto fra gestore e autorità d’ambito e non in quello fra esso e l’utente, perché produce un’utilità riferita all’ambito territoriale ottimale nel suo complesso e non anche quella «utilità particolare che ogni utente […] ottiene dal servizio», la quale sola – come chiarito dai lavori preparatori richiamati al punto 6.1. – consente di qualificare come corrispettivo la tariffa del servizio idrico integrato;

e) il contratto di utenza e il pagamento della quota tariffaria non costituiscono presupposto necessario per l’attuazione dello stesso piano, essendo quest’ultima prevista e disciplinata, anche nei tempi e nelle modalità, non già dal contratto di utenza, ma da moduli procedimentali di diritto amministrativo.

Da tale premessa la Corte non può che ribadire l’impossibilità di qualificare l’attuazione del piano d’ambito come controprestazione contrattuale del pagamento della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione discende la già evidenziata conseguenza che l’utente può agire contro l’inerzia dell’amministrazione nella realizzazione dei depuratori, non già in forza del rapporto contrattuale di utenza utilizzando gli ordinari strumenti civilistici di tutela, ma solo esercitando il generale potere di denuncia attribuitogli dall’ordinamento uti civis.

La natura del canone o tariffa di depurazione e la competenza giurisdizionale sulle controversie alla luce dell’Ordinanza delle Sezioni Unite Civili del 1-25 luglio 2008.

E’ di tutta evidenza l’impatto che la decisione della Consulta avrà sui bilanci di molti Comuni e sui tanti contribuenti persone fisiche o giuridiche (condomini, società di capitali, enti pubblici), chiamati a versare in questi anni milioni di euro per un servizio che la scarsa diligenza di taluni enti preposti ha omesso di predisporre e di erogare per anni.

Benvero la natura del canone o tariffa della depurazione e la conseguente competenza giurisdizionale è stata oggetto in passato di molteplici approfondimenti da parte delle Sezioni unite della Suprema corte.

Con la Sentenza n. 16426/04 [Conforme Cass. Sez. Uni. n. 3054/04; Cass. Sez. Uni. n. 10960/04; Cass. Sez. Uni. n. 6418/05] la Cassazione chiariva che il canone per il servizio di scarico e depurazione delle acque reflue ha natura di componente del corrispettivo del servizio idrico integrato a partire dal 3 ottobre 2000, data in cui avrebbe perso la sua natura di tributo.

A questa conclusione la Corte perveniva dall’esame di un complesso iter normativo decorrente dall’innovazione introdotta dal’art. 31 comma 28° della Legge n. 448/98 e del differimento della sua iniziale decorrenza (1° Gennaio 1999) disposto dall’art. 62 del D.lgs n. 152/99, modificato dall’art. 24 del D.lgs n. 258/00 (in vigore appunto dal 3 ottobre 2000).

Per il periodo anteriore il canone di depurazione integrava un tributo comunale prima sulla base dell’art. 17-ter della Legge n. 319/76 e successivamente dopo l’abrogazione della norma ad opera dell’art. 32 della Legge n. 36/94 dell’ultimo comma dello stesso art 17, inserito dall’art. 2 comma 3-bis, del Decreto legge n. 79/95 (convertito con modificazioni, dalla Legge n. 172/95.

Tuttavia, in virtù dell’art. 2 comma 2 del D.lgs n. 546/92, come modificato dall’art 3-bis del Decreto Legge n. 203/05, convertito con modificazioni dalla Legge n. 248/05, a decorrere dal 3 dicembre 2005 appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue indipendentemente dalla loro qualificazione come tributo o corrispettivo, come del resto ricordato dalla stessa Consulta nella Sentenza in commento.

Su queste basi la competenza giurisdizionale in materia potrebbe essere così delineata:

• fino al 31 marzo 1996 dell’Intendenza di Finanza in primo grado e dal Ministero delle finanze in secondo grado (ricorso gerarchico improprio);

• dal 1 aprile 1996 al 2 ottobre 2000 delle Commissioni tributarie;

• dal 3 ottobre 2000 al 2 dicembre 2005 del Giudice ordinario;

• dal 3 dicembre 2005 ad oggi delle Commissioni Tributarie.

Purtroppo, a rendere problematica e fors’anche transitoria questa ricostruzione, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la recente e poco nota Ordinanza del 1-25 Luglio 2008, muovendo dal giusto presupposto che i canoni per lo scarico e la depurazione delle acque reflue, maturati successivamente al 3 ottobre 2000 hanno ex lege natura di quota tariffaria e non di tributo (v. Cass. S.U. n. 11188 del 2003; 12877 del 2004; 4881 del 2005; 9605 del 2006) hanno ritenuto opportuno sollevare la questione di illegittimità costituzionale del Decreto legge n. 203 del 2005, art. 3 bis, convertito con modificazioni con Legge n. 248 del 2005, nella parte in cui devolve proprio alla giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue per contrasto con l’art. 102 comma 2 della Costituzione.

Argomenta in proposito la Suprema Corte che, proprio esaminando il Decreto legge n. 203 del 2005, nella parte in cui ha devoluto alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dal Decreto legislativo n. 446 del 1997, art. 63, proprio la Corte Costituzionale ha ritenuto la disposizione in contrasto con l’art. 102 della Costituzione (sent. n. 64 del 2008), affermando che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria (come non lo sono quelle che concernono la c.d. COSAP) comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali.

In attesa di una prossima ma certo non imminente decisione della Consulta, la delicata questione della giurisdizione sulle vertenze in materia canone o tariffa di depurazione resta inevitabilmente aperta, creando non poche incertezze a tutti coloro che, pur avendo inoltrato un’ istanza formale, comunque interruttiva dei termini prescrizionali di cui all’art. 2946 Cod. civ., di fronte al rifiuto di restituire le somme versate in assenza del servizio, intendano agire giudizialmente per il recupero di quanto indebitamente pagato.

Quanto alla disciplina prescrizionale di eventuali azioni la stessa andrebbe inquadrata nell’ambito dell’art. 2946 Cod. Civ. che prevede l’ordinario termine decennale previsto in campo contrattuale.

A sostegno di questa tesi si pongono le richiamate decisioni delle Sezioni Unite circa la natura di “corrispettivo” della tariffa di depurazione, almeno dal 3 ottobre del 2000, confermata dalla stessa Consulta nella Sentenza in commento che ne sottolinea in proposito anche l’assoggettamento ad Iva.

Nell’incertezza che sta caratterizzando una vicenda difficilmente riconducibile all’unitarietà di azioni, a causa degli innumerevoli soggetti pubblici e privati inadempienti coinvolti su tutto il territorio nazionale (Comuni, ATO, Concessionari), sarà ancora una volta la giurisprudenza a fornire valide indicazioni e forse utili orientamenti per evitare l’avvio di un contenzioso di massa derivante ancora una volta dalla negligente gestione dei soldi dei contribuenti.